Modigliani trascina il peso di un’anima tormentata.
Dedo, Amedeo, Modigliani, Modì: ho conosciuto tutte le sue personalità nel profondo.
Sono stato al suo fianco, l’ho abbracciato, sorretto, venerato. In questi anni abbiamo brindato e bevuto, condiviso lacrime e assaporato risa.
L’amore per l’arte e la bellezza ha legato il nostro destino, spingendoci oltre le cose possibili.
La sua anima tormentata è immortale: la grande figura del mio amico rivive così come l’ho conosciuto, nobile e bella, generosa e affascinante, con in più l’aureola della gloria che così bene gli si addice.
1. JEANNE
Di quella volta seduti al tavolo del caffè La Rotonde ricordo solo lo sguardo assente e qualche espressione fuggevole.
«Mi hanno rubato l’anima…» bisbiglia in silenzio, nel fracasso e chiacchiericcio del bistrot.
Sono le uniche parole che pronuncia stentatamente, guardando il vuoto, dopo minuti che siamo l’uno di fronte all’altro.
I suoi occhi di vetro alternano sguardi al bicchiere di rum: si appende all’alcol come se le labbra fossero due mani, le mani di Jeanne, salde da non lasciarsi andare, avvinghiate al cornicione della vita. Ma l’alcol non è appiglio, anzi. Si crede faccia presa, invece è sporgenza minuscola, unta e sdrucciolevole come l’olio.
«Ce la farai Amedeo…» gli mormoro, afferrandogli l’avambraccio con veemenza, sforzandomi che non sia l’ennesima illusione.
Butta giù un bicchiere dopo l’altro, strizzando le palpebre a ogni sorso a causa del veleno che scende giù. La sua anima, infinita e vuota è un pozzo interminabile, impossibile da colmare sino all’orlo.
Braccia conserte sul tavolo pronuncia frasi a rilento, prive di senso. Lui vede cose che nessuno vede: delira come i pazzi e lo fa spesso, quando l’alcol gli provoca le allucinazioni e crede di poter volare.
Balbetta, con la bava alla bocca.
«Come nessuna…» è la sola espressione che riesco a decifrare. «Mi amava… come nessuna.»
Non faccio in tempo ad annuire col capo che alza la mano facendo cenno al cameriere.
«Era diversa, aveva gli occhi che parlavano» continua farfugliando, mischiando l’acido della saliva ai nervi tesi.
L’ennesimo rum. Il quinto, il sesto. Ho perso il conto. Figuriamoci lui.
«… Ti ha amato fino all’ultimo!» gli urlo contro per scuoterlo. «Sarà tua per sempre! Per l’eternità!»
Jeanne. L’amata Jeanne, compagna fedele ritratta più di venti volte coi vestiti addosso quasi a volerne salvaguardare le fattezze, si è gettata dal quinto piano dell’abitazione degli Hébuterne. Nel silenzio della notte, di nascosto a tutti, mentre la nostra Parigi dormiva.
Stamane un operaio ha trovato il cadavere davanti il portone all’ 8 di rue Amyot, immerso in una pozza di sangue. Non solo il suo, ma anche quello del bambino che portava in grembo.
Si è uccisa Jeanne, al nono mese di gravidanza, senza pensare al suo Modigliani che venerava come un dio: forse per questo ha scelto di morire prima del previsto, per anticiparlo tra le nuvole e poterlo vivere in libertà finalmente, senza i pregiudizi della gente, gli ostacoli dei familiari o i compromessi della società.
Amedeo è immobile, al tatto freddo, così come le teste delle sue sculture. Poi alza il capo verso di me, scaglia i pugni sul tavolo richiamando l’attenzione della clientela e si abbandona all’acquavite e all’avvilimento.
Mi guarda con occhi scaltri e apparentemente lucidi, accennando un sorriso come a ringraziarmi per le parole da me sussurrate e ricomincia a bere senza sosta. Fa sempre così Amedeo: dietro quel corpo esile e malandato, nasconde un’anima d’acciaio.
Troppe volte l’ho visto ridotto in questo modo. L’ho raccattato da terra, sull’orlo dell’abisso, pensando fosse a un passo dal baratro. Persino stavolta. La sua parte più ignobile resta qui con me, ma la migliore è andata via insieme a Jeanne: adesso corre felice nel cielo, fianco a lei, come se le nuvole fossero i grandi boulevard di Parigi.
Amedeo è a pezzi, crede che non abbia più senso continuare a vivere. Poi in un consueto scatto d’ira misto all’allucinazione afferra il bicchiere colmo di rum e scaglia il distillato sul pavimento, con tutto l’impeto che nutre in corpo.
«Vedi? Siamo così noi, come questo rum, evaporiamo e andiamo lassù, fino alle stelle… ed è sempre tardi per coloro che ci amano».
Con Victor ci intendiamo a occhiate. Nonostante la clemenza, oramai non ne può più di certi atteggiamenti.
Gli faccio segno alzando le spalle, mentre con la mano afferro Amedeo, avvolgo il suo braccio intorno al collo e con l’altra mano ne trascino il corpo fiacco. Victor capirà perché sa come siamo fatti noi artisti: tornerò in questi giorni a saldare il conto di oggi e quello di Amedeo, in sospeso chissà da quanti mesi.
Non posso lasciarlo da solo. Non stasera.
Vacillando legato ad Amedeo faccio strada verso la sua abitazione, al numero 8 di rue de la Grande Chaumière, a poco più di un centinaio di metri da La Rotonde.
Braccetto a lui cerco invano parole di consolazione per tentare di rimediare a una situazione che appare inevitabile.
Credo abbia perso i sensi: ha la schiuma alla bocca, sputa sangue, diventa pesante a ogni passo.
Con le ultime forze raggiungo il penultimo piano, un alloggio malridotto che affaccia su di un cortile interno, e riesco a malapena ad aprire la porta di casa.
Le pareti arancio e ocra, tonalità che ha scelto per creare gli sfondi dei suoi ritratti, sono la sola luce capace di irradiare calore in un buio infinito.
Al suo interno il locale è spoglio, in disordine: l’assenza di mobili amplifica di certo il freddo che fa stasera a Parigi.
A terra bottiglie di vino, scatole di latta e qualche tela dipinta appoggiata al muro.
Davanti a noi il corpo esanime di Jeanne, avvolto in una tovaglia dalla trama russa, giace su un logoro divano.
Sembra addormentata, serena, più bella di quanto fosse mai stata. Accanto a lei, abbandonati a terra in un sonno profondo, Zawado e Abdul gli hanno fatto veglia durante la nostra assenza.
«Sdraiati qui Amedeo, cerca di riposare…» gli accenno, pensando che domani sarà la giornata più triste della sua vita.
Adagio le sue membra esauste sopra una specie di materasso – che a tutto somiglia fuorché ad un letto – scansando contenitori, stracci, cartoncini e matite.
«Italia, cara… cara Italia.»
Sono le ultime parole che sussurra prima di sprofondare nell’oblio.
È grondante, moribondo.
Anche se è già morto da un pezzo, Modigliani è vivo.
Oggi, ancora di più, senza la sua amata Jeanne.
Parigi, lunedì 26 gennaio. Nell’anno del Signore 1920.
2. FELICITÀ ETERNA
L’aria parigina è grigia e opprimente. Parigi non fa sconti a nessuno durante l’inverno: il freddo taglia le mani, l’aria gelida non rende neppure lucide le nostre menti.
Sono le otto del mattino. Un corteo di parenti segue le spoglie di Jeanne in taxi, la cui salma è stata appena caricata su di un furgoncino malconcio.
Troppo giovane per morire “Noix de coco”. Così è soprannominata nell’ambiente la donna di Modigliani: a Montparnasse tutti gli artisti la conoscono con questo nomignolo per l’accentuato contrasto del colore della pelle con i capelli, tra il candore della carnagione e il bruno della chioma.
La “bambina”, a detta di alcuni, fino all’ultimo istante ha mantenuto sul viso l’espressione di sempre: distesa, amorevole, sensibile. Persino il suo corpo, nelle condizioni in cui versa, serba la grande umanità che l’ha contraddistinta. Un’anima speciale Jeanne, una donna di altri tempi e di grande maturità, nonostante la giovane età.
I nostri volti esprimono una tristezza ineguagliabile per la prematura scomparsa.
Io, Zbo, Kisling, André Salmon e le rispettive mogli, siamo colonne di un tempio greco a sostegno di un turbato Modigliani. Come cospiratori ci guardiamo a occhiate, senza proferire parola, perché la preoccupazione della sua salute, da questo momento in poi, sarà più importante del singhiozzo sordo di Monsieur Hébuterne, del pianto straziante del fratello André, della madre gentile e delle amiche Chana e Chantal.
Se Jeanne è un’anima spoglia che sembra riposare, Modigliani è un cadavere che cammina: scavato, disfatto, irriconoscibile.
Ancora ignaro del vuoto lasciato da Jeanne e della solitudine lancinante che la sua assenza erediterà, Amedeo tossisce, piegandosi in avanti con impeto, senza riuscire a nascondere la malattia che lo sta logorando da dentro. In uno stato di ubriachezza costante si abbandona alle nostre volontà seguendo Zborowski con lo sguardo distante, forse il suo unico punto di riferimento nei momenti di maggiore sconforto, da quando la vita non sembra offrirgli più nulla.
Modigliani non è un volgare alcolista né un degenerato. I suoi abusi sono un mezzo, mai un fine. L’euforia prodotta dalle sostanze assunte ogni giorno è finalizzata alla più profonda esplorazione del suo animo. Nei suoi deliri alterna slanci di entusiasmo estremo a momenti di stasi inquietanti che a tutto fanno pensare, fuorché ad un equilibrio esistenziale che mai gli apparterrà.
Le esequie durano pochi minuti, sono in sordina, così come stabilito dai signori Hébuterne.
È doveroso un sentito saluto a Jeanne, l’ultimo su questa terra, per poi rientrare a Parigi e provare a dimenticare il suo sorriso con i nostri brindisi.
In un barlume di lucidità Modigliani si china verso la bara e offre una rosa bianca a Jeanne, che aveva custodito accuratamente nella mano per tutta la durata del tragitto. I suoi gesti plateali sono famosi a tutta Montparnasse d’altronde, come quando sotto i fumi dell’alcol si esibisce e gesticola declamando Dante e D’Annunzio, i poeti italiani che conosce a memoria.
«Dipingere una donna è possederla…» bisbiglia mentre si china, guardando fisso il feretro di Jeanne per l’ultima volta. «Ci rivediamo presto amore mio…»
Achille Hébuterne nel contempo, qualche passo indietro, sospira in modo evidente. Il ghigno di disprezzo descrive palesemente l’odio che nutre verso l’ebreo italiano: se Jeanne ha deciso di farla finita, per lui, è solo colpa di Modigliani. E per questo non potrà mai perdonarlo.
Il rientro in città è taciturno, il cuore di ciascuno sembra Parigi quando la attraversiamo di notte, sperando di rincasare sani e salvi.
Qualche accenno di neve ai bordi delle strade contrasta il grigio del cemento e delle abitazioni. Qualche comignolo acceso fa da cornice a questo momento infelice: uomini intorpiditi invadono i boulevard; feriti, disgraziati, invalidi: troppi i reduci e i vagabondi, orfani degli strascichi di un conflitto mondiale che continua a sconvolgere la Francia.
Se da una parte un paese sfiancato da occupazioni e bombardamenti risorge lentamente, dall’altra una congregazione anticonformista e bohémien tenta in tutti i modi di ricucirne le ferite attraverso l’arte.
«Amedeo… devi riposarti…»
Lo vediamo, esanime, turbatamente sconvolto dal suicidio della sua Jeanne e da una condotta di vita dissoluta.
«Sono arrivato alla fine…» risponde.
Questa sentenza sconforta e non lascia troppe possibilità di controbattere.
«Ma che dici! Il sud ti ha fatto bene, lo sai…»
«Non scherziamo!» replica lui. «Appena si saranno accorti chi sono, me ne torno in Italia con mia figlia a curarmi. Solo mia madre sa che cosa può guarirmi».
Eugénie, madre di Amedeo, la sola donna capace di penetrarlo con un solo sguardo, decifrarne i pensieri e donargli un sorriso spontaneo.
Arrivati al portone, oltrepassiamo il cortile e lo salutiamo col nodo in gola.
Amedeo si aggrappa alla ringhiera delle scale, con la sola forza rimastagli e sale i gradini trascinando il corpo stanco. La speranza è che riesca ad aprire la porta di casa evitando di svenire sul pavimento e dormire sull’ammezzato.
Zbo si dilegua, deve rientrare a casa dalla moglie Hanka che lo aspetta. Kisling ha bisogno di stare solo, spalanca gli occhi avviliti e dice di non credere ancora a ciò che è accaduto.
Con André facciamo strada verso il Petit Napolitain, caffè ritrovo al 195 di Boulevard du Montparnasse, luogo sacro di artisti eccentrici insieme a La Closerie des Lilas, tappa fissa di molti scrittori. Di solito ci riuniamo in questi bistrot, divenuti dimora di grandi diatribe sull’arte e sulla letteratura, di bevute e fantasie di ciascuno.
Ordiniamo due bicchieri di vino sperando che il calore dell’alcol e delle stufe riscaldino le nostre membra stanche e infreddolite.
È assurdo che proprio Modigliani non sia in nostra compagnia.
«A Jeanne… perché ci guidi da lassù nel trovare la strada» mentre sollevo il bicchiere al cielo.
«Alla nostra cara Jeanne e ad Amedeo…» ribatte André «e al loro amore eterno…»
Modigliani ci avrebbe stretto a sé in uno dei suoi abbracci di felicità. Avrebbe riso, declamato qualche verso d’amore e osannato un sonetto a conferma di questo brindisi.
Penso a Genova, la mia città d’origine. All’odore della pelle di Léna, alle lentiggini che ne costellano il viso e circondano il corpo. Ai miei amici lontani che non vedo da mesi. Al sole dell’Italia, al buon cibo sulla tavola, agli affetti più cari e alla mia adorata madre, rimasta vedova troppo presto, a cui ho lasciato un pezzo del mio cuore.
Tiro fuori il taccuino dalla tasca. L’ultimo inchiostro risale a qualche giorno fa.
Non riesco più a scrivere, figuriamoci in questo momento. Non riesco a mettere una parola seguito all’altra senza che il volto rassicurante e amabile di Jeanne occupi la mia mente. Aveva solo ventuno anni e un bambino di nove mesi in grembo, secondogenito della famiglia Modigliani dopo la piccola Giovanna.
Amedeo non è riuscito a portarla all’altare per una serie di sfortunate contingenze. Ma so per certo che era nelle sue volontà, così come mi ha raccontato spesso, come dimostra il biglietto da lui scritto quest’estate, in occasione del suo trentacinquesimo anno di età.
Mi impegno oggi 7 luglio 1919 a sposare la signora
Janne Hébuterne appena arriveranno i documenti.
Firmato Amedeo Modigliani, Léopold Zborowski,
Jeanne Hébuterne, Lunia Czechowska.
Paris, 7 luglio 1919
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