Deborah cresce con un cuore pronto ad amare, ma la vita le impone prudenza e silenzi. All’università incontra Marco, ma è Sarah a rubarle l’anima. Insieme vivono gioie, paure e tragedie, fino a quando la guerra le separa. Deportata in un campo di concentramento, Deborah sopravvive aggrappandosi al pensiero di Sarah. Tra orrore e disumanità, scrive lettere segrete sotterrate, affidando all’amata la memoria dei suoi giorni. Partorisce Noah nella prigionia, e ogni parola diventa un gesto di resistenza e d’amore. I ricordi dell’università, dei lutti e dei momenti felici si intrecciano al presente, in un filo invisibile che unisce dolore e speranza. Deborah ci insegna che amare significa rischiare, ricordare e vivere fino all’ultimo respiro. Una storia intensa e poetica, dove la memoria è resistenza e l’amore diventa eterno.
Perché ho scritto questo libro?
Perché per me scrivere è un atto di immersione nell’animo umano, nelle sue ferite e silenzi. Ho iniziato per respirare, dare un nome al dolore e trasformarlo in qualcosa di vivo e condivisibile. Chi ha attraversato dolore, ricerca di sé o un amore che sfida le certezze può trovare un riflesso e una possibilità di rinascita. Attraverso la Shoah intreccio identità, amore LGBT e sopravvivenza, mostrando che anche nei luoghi più oscuri può brillare una luce che trasforma la sofferenza in forza.
ANTEPRIMA NON EDITATA
L’IMPERSCRUTABILE PROFONDITÀ DELL’ANIMA
DIARIO DI DEBORAH SHALEV, Ebrea, Omosessuale 10 OTTOBRE 1944 -19 GENNAIO 1945 Campo di concentramento di Birkenau
PREFAZIONE
Se c’è una cosa che mi ha fatto sempre soffrire è sapere che un’ingiustizia possa essere perpetuata nel tempo. Nel corso della storia ci sono stati eventi così atroci da far inginocchiare il mondo intero. Eppure, mentre si lotta per non dimenticare, c’è ancora chi continua a ricevere la stessa ingiustizia, come se nel loro caso, fosse ancora lecito.
Da sempre sono stata attratta dal tema della Shoah. Da sempre soffro insieme a un popolo che oggi sento fratello. Eppure, mentre milioni di persone si stringono l’una all’altra per onorare la memoria di quel dolore collettivo, una minoranza continua a pagare il prezzo del disprezzo.
Anche loro, come gli ebrei, sono stati traditi dal proprio Stato, venduti dai vicini, rinnegati dai familiari. Anche loro sono stati caricati sui treni, condotti nei campi di concentramento. Eppure il loro grido continua a restare muto, le loro lacrime scorrono invisibili e i loro cuori restano spezzati da un torto che, a quasi ottant’anni di distanza, non ha ancora trovato giustizia.
Non darò loro una definizione. Non dovrebbe esistere alcuna classificazione. Perché loro sono esattamente come noi: persone. Persone che amano, odiano, ridono, piangono, si ammalano e cercano disperatamente di sopravvivere a una vita che qualcun altro, ostinatamente, continua a voler spezzare.
10 OTTOBRE 1944
È strano come a volte il tempo rispecchi il mio stato d’animo. Fuori, la pioggia batteva con forza contro le finestre della mia stanza, mentre un vento furioso scuoteva i rami degli alberi in un cupo fruscio. Dentro di me, un turbine di emozioni mi consumava l’anima, un groviglio di paura e desiderio che non riuscivo a domare. Eppure avrei dovuto essere felice: quel giorno, giovedì 13 aprile 1939, avevo affrontato l’esame di latino. Era stato difficile, ma avevo preso 28. Di solito avrei urlato di gioia, avrei corso tra le strade di Palermo con le mie amiche, ma quel peso opprimente mi soffocava il respiro. Non ricordo con precisione l’ora. Ero sul treno per Palermo, con un libro in mano, Affinità elettive di Goethe. Il treno si fermò, alcuni ragazzi scesero, altri salirono. Alzai lo sguardo e la vidi. Una ragazza che camminava leggera, scherzando con un ragazzo, forse il suo fidanzato, catturò la mia attenzione. Per un solo istante, i suoi occhi incrociarono i miei. Mi sorrise, un sorriso breve ma capace di illuminare il buio dentro di me. Poi si allontanò, trovando posto tre file dietro la mia poltrona. Rimasi incantata da quella visione. Non era alta, i suoi capelli castani cadevano morbidi sulle spalle, ma erano i suoi occhi a rapirmi: un verde ghiaccio così intenso da sembrare un faro, capace di irradiare la luce più pura, quella che tocca l’anima. Ne fui folgorata. Provai a tornare al libro, ma i miei occhi erano ciechi. Anche chiudendoli, continuavo a vedere quegli occhi, profondi e magnetici, che si perdevano nei miei. Solo quando la incontrai di nuovo, due settimane dopo, scoprii quel nome che rimase per sempre inciso nel mio cuore: Sarah. La stazione centrale arrivò in fretta, e scesi di corsa. Incontrai Marco. Marco Ben-Ami, il ragazzo dal sorriso che scioglieva ogni mia paura. La prima volta che lo vidi fu al liceo, nel 1934. Ero tesa, immersa nella ricerca di un tema per la tesina finale. Dopo mezz’ora, lui si avvicinò con un libro in mano, Agapao, Filia o Eros. Mi disse che quel libro avrebbe dato forma ai miei pensieri. Aveva ragione. Ci incontrammo ogni giorno, alla stessa ora, per due mesi. Un’intesa speciale ci univa, fatta di idee condivise e un’energia invisibile che ci legava. Iniziammo ad uscire dopo la scuola. Condividevamo la passione per la fotografia, e una sera mi invitò a casa sua, nella sua camera oscura, il suo rifugio segreto. Rimasi senza fiato quando spense la luce: tutto intorno si tinse di un rosso fioco e misterioso. Prese un rullino e lo infilò nell’ingranditore. Mi prese dolcemente per i fianchi, avvicinandomi a lui e facendomi guardare dentro la lente. Lì apparve un’immagine minuscola, sfocata, fragile come un sogno. Come poteva quell’ombra imprimersi su un foglio bianco e trasformarsi in realtà? Sembrava magia, pura magia. Poi mise i fogli in telaietti e li immerse in soluzioni misteriose dentro grandi taniche. Ancora una volta, come se fosse naturale, prese le mie mani per aiutarmi a posizionare la pellicola nella spirale. Le nostre dita si sfiorarono, e un brivido mi attraversò. Era davvero possibile che il ragazzo più bello e più intelligente della scuola stesse cercando di avvicinarsi a me? Cominciò ad agitare la pellicola, controllò la temperatura con cura, rimosse delicatamente il film e lo appese a un filo, sospeso nell’aria. Eravamo così vicini che smisi di seguire i suoi gesti per perdermi nel suo sguardo. La pelle sotto le sue mani era perfetta anche nell’ombra, e la sua concentrazione tradiva un’emozione nascosta.
Ero certa che mi stesse cercando. Invece di accendere la luce, si voltò verso me, mi fissò intensamente, mi prese il viso tra le mani, e chiuse gli occhi. Poi mi baciò. Fu un’esplosione. La sua lingua incontrò la mia, lenta, dolce e carica di passione. Era il mio primo bacio, il primo vero bacio che mi portava via da ogni paura, da ogni incertezza, in un mondo nuovo, sconosciuto, dove tutto era possibile.
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11 OTTOBRE 1944
Cercai i suoi occhi per due settimane. Era venerdì 28 aprile quando, dopo aver perso ogni speranza e proprio mentre avevo la testa appoggiata al finestrino, sentii una voce che catturò la mia attenzione. Lei era lì, proprio di fronte a me. Mi chiese se il posto accanto al mio fosse libero. Le risposi di sì, togliendo lo zaino e la giacca che avevo appoggiato accanto. Il cuore mi sobbalzò. Il fiato si fece più corto. Feci tuttavia finta di nulla, cercando di sorriderle come se fosse la cosa più semplice del mondo. Il suo odore invase la mia anima. Non lo potrò mai dimenticare: era dolce, floreale e fruttato allo stesso tempo. Ancora oggi, quando chiudo gli occhi, riesco a sentire il suo profumo. Appoggiai di nuovo la testa al finestrino e inspirai profondamente: volevo che ogni mia cellula potesse imprimere quel ricordo. Il mio sogno si era avverato, eppure ora non riuscivo né a guardarla né a parlarle. La bocca era completamente secca. Ringrazio il cielo perché lei era una ragazza estroversa, solare, allegra, vivace. Nonostante il mio silenzio, mi fece alcune domande, con quel tono leggero e curioso che la rendeva irresistibile. Di cosa parlammo, ancora oggi non riesco a ricordarlo: ero troppo nervosa. Alla fine, quando arrivammo alla stazione centrale, mi chiese se ci saremmo riviste il giorno successivo, sempre sul treno. Le dissi di sì. Allungò la sua mano verso la mia guancia, e sull’altra stampò un bacio, come se fossimo state vecchie amiche. Mi aveva completamente stregata. Fu in quell’istante, mentre si fermava a un paio di centimetri dal mio viso, che mi sussurrò quale era il suo nome. E io non avevo fatto nulla, anzi: avevo rischiato di perderla a causa della mia timidezza. Mi promisi di essere un po’ più serena il giorno successivo. Come se si potesse davvero comandare al proprio cuore.
12 OTTOBRE 1944
Ci sono attimi che arrivano senza preavviso, attimi in cui tutto ciò che hai represso esplode, come se il cuore non potesse più restare in silenzio. E quando accade, non hai più scelta: il silenzio si rompe, l’anima si scopre, il cuore si espone. La guardavo dritta negli occhi. Non riuscivo più a nasconderle ciò che provavo. Mi avvicinai lentamente, come se ogni passo potesse frantumare il tempo. Le dissi che già la amavo. La amavo follemente. Disperatamente. Che ora, ora non ce la facevo più a vivere un solo istante lontano da lei. Avevo bisogno della sua presenza come si ha bisogno dell’aria, della pelle, del battito. Le accarezzai il viso. Lei continuava a guardarmi negli occhi. Sfiorai il suo naso con la punta del mio, poi le labbra, lentamente, come si accarezza una promessa mai pronunciata.
Il contatto fu lieve, poi più intenso. Più gliele sfioravo, e più mi rendevo conto che lei stava ricambiando ogni singolo gesto. Sentii la sua lingua cercare la mia, ruvida, viva, impaziente. Le nostre bocche si fusero in un bacio infuocato, le lingue danzavano come due fiamme che si cercano e si consumano. Le sbottonai la camicia con mani tremanti. Il reggiseno scivolò via. La mia bocca seguì il profilo del suo collo, della spalla, della pelle che sapeva di destino e vertigine. La mia lingua assaporava ogni centimetro di lei. Le dita cercavano la morbidezza dei suoi seni, e sotto le mie carezze i capezzoli si inturgidirono. Le labbra li sfiorarono, poi li accolsero, umide, ardenti. Li cercai con la bocca, con la lingua, con il desiderio. Le nostre mani si spingevano giù, esploravano, aprivano confini. Le sue gambe si aprirono lentamente insieme alle mie. Entrammo l’una nell’altra. Un dito. Poi due. Sentivo quanto fosse bagnata. Lei si muoveva, mi rispondeva con gemiti che diventavano la mia melodia. Il cuore batteva come impazzito, i suoi sospiri mi eccitavano sempre di più. Avevo la pelle d’oca. La mia bocca scivolò lungo il ventre. Baciai l’ombelico, l’inguine, con la punta del naso le sfiorai il clitoride. Lo baciai. Le mie labbra scivolarono ancora più giù. Entrai in lei, fino a sentire sotto la lingua il calore del suo piacere. Il suo respiro iniziò ad accelerare ancora di più. Amavo già con tutta me stessa quel flebile suono. Lei fece lo stesso con me. I nostri corpi conflagrarono come due atomi che, nell’universo infinito, si erano sfiorati e che avevano creato la più grande esplosione mai conosciuta. Aprii gli occhi. Mi svegliai di soprassalto. Il cuore ancora mi batteva in gola. Quel sogno aveva iniziato a insinuarsi nella mia mente sempre più prepotentemente.
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