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Ci Rivedremo a Sarajevo

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Una vecchia Zastava Skala, due passaporti bosniaci e il basso elettrico di un ex fidanzato sparito in Russia nel 2004: questo, quello che Esma e Emina hanno quando decidono di mollare tutto e ritornare a Sarajevo. Amiche e rivali sin dall’infanzia, Esma e Emina sono cresciute in una Bosnia impegnata a ricostruirsi dopo la guerra e hanno condiviso tutto, persino l’amore per lo stesso uomo e l’essere state costrette ad emigrare alla ricerca di una nuova vita. Dopo dieci anni dove hanno accumulato solo che frustrazione, due divorzi e una struggente nostalgia per la loro Bosnia, le due donne decidono che è arrivato il momento di farsi coraggio e di ritornare a casa loro per riprendersi tutto quello che era stato loro tolto. E in un lungo, tragicomico viaggio alla ricerca di risposte e di vecchi amici sparsi dalla Slovenia alla Bulgaria, Esma ed Emina hanno un solo obiettivo: ritornare a Sarajevo.

Perché ho scritto questo libro?

In questo libro c’è semplicemente un’accozzaglia caotica di quello che è stata la mia vita negli ultimi due anni, ovvero, non necessariamente in quest’ordine: musica balcanica da discoteca e canzoni strappalacrime made in Jugoslavia; una tesi immensa procrastinata fino all’ultimo; agosto in campagna; il senso di non appartenenza; scialli in testa e rosari al collo; burek, rakija e cuori spezzati, canzoni dedicate e altre urlate sul pullman direzione Banja Luka.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Sarajevo, 2007

Eravamo seduti per terra sul terrazzino di casa sua insieme a IvoAndrić acciambellato sulla seggiolina di plastica. Non parlavamo ma ci tenevamo per mano, le schiene contro la porta finestra, e guardavamo i palazzi di fronte e la carcassa di un camion che continuava a fumare davanti al portone dirimpetto. C’erano delle sirene in lontananza e c’erano anche le macerie del quinto palazzo salendo da sinistra. Gli accarezzavo il dorso della mano, giocherellando con i suoi anelli e lui ogni tanto mi posava un bacio tra i capelli. Aveva le sigarette posate accanto e non gli avevo fatto notare che ne aveva fumate già tre in meno di mezz’ora ma lo guardai comunque di sottecchi quando lo sentii frugare nel pacchetto per tirare fuori la quarta. Se la mise in bocca e l’accese con gesti nervosi, mordicchiando il filtrino. Mi aveva aspettato fuori dal negozio, appoggiato alla vecchia Skala col vetro posteriore frantumato, ma anche se mi aveva abbracciata, anche se aveva abbracciato mia madre e anche se alla domanda di mamma su come stesse Dana aveva risposto “sta meglio, grazie, è sempre in Austria da Alina”, era chiaro che ormai niente stesse più andando bene. Avevamo accompagnato mia madre a casa ed eravamo andati a casa sua anche se mamma gli aveva detto che poteva stare da noi, se voleva. Non gliel’aveva chiesto, aveva mormorato rimani qui con noi, Alen, telefona a tua mamma. Aveva fatto un gesto vago indicando il nostro vecchio divano sfondato e il vecchio telefono posato sul tavolo in mezzo alle bollette non pagate e alle fotografie di quando ero bambina. Nessuno aveva più parlato. Lui aveva chinato la testa, e aveva abbracciato mia mamma, e le aveva detto solo hvala e io avevo biascicato che tornavo a casa la mattina dopo e ce n’eravamo andati in silenzio a casa sua, nel quartiere bombardato.

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Il suo palazzo era vecchio e l’ala destra era abbandonata e il portone d’ingresso non era mai esistito da che avessimo memoria ma dal terrazzino del suo appartamento si vedeva tutta Sarajevo e andava bene così, anche se la porta di casa non chiudeva più e più di metà delle suppellettili era sparita, lasciando i muri scrostati a vista e la credenza completamente vuota se non fosse stato per le chiavi e le sigarette che abbandonava sul ripiano. Rimanevano i vecchi tappeti bisunti per terra e il divano sfondato e la camera di Dana che era diventata ormai la nostra. Camera sua era parzialmente rimasta intera ma non ci entravamo quasi mai quando eravamo insieme perché intanto saremmo rimasti incantati a ricordarci quando ancora andava tutto bene e in quella cameretta con l’abbaino scriveva le sue canzoni e faceva piani e accumulava dischi rubati giù al mercato di Sokolac e mangiavamo baklava direttamente dal tegame posato per terra. I tegami li aveva ancora, impilati sotto alla vecchia cucina bianca della quale funzionavano più solo due fornelli. C’era il bollitore giallo e anche quello nero che aveva salvato dal monolocale di Bogdan prima che lo dessero alle fiamme. Anche il bagno era rimasto quasi del tutto in piedi anche se ormai buttati alla rinfusa sul mobiletto c’erano solo dei flaconi di bagnoschiuma mezzi usati, il gel rumeno e le lamette da barba. C’era anche la sua colonia ormai quasi del tutto finita e un unico spazzolino in un bicchiere di plastica a forma di papero che penso risalisse alla sua infanzia. Era tutto buttato alla rinfusa, perché intanto non era mai stato granché ordinato e in qualche modo credo che il disordine che avesse in testa lo replicasse in quell’appartamento che non aveva più niente della sua infanzia, della nostra adolescenza, dei nostri anni felici. C’era sempre il borsone del calcio aperto vicino alla porta insieme alle scarpe buttate alla rinfusa e alle Crocs blu incrostate di sporco che si ostinava a infilarsi dicendo che non erano ancora così sporche.

Lo sentii muoversi al mio fianco e lo guardai. Aveva raccolto le gambe al petto e guardava il cielo che nonostante tutto continuava a rimanere colore cobalto. Non sapevo se fosse un buon segno o solo una beffarda, ultima coltellata. Gli reclinai la testa sulla spalla e lui mi baciò i capelli, tamburellando con le dita sul pavimento. Tremammo entrambi quando le sirene si avvicinarono per poi sparire. Lo guardai, e sembrava stravolto. Non sapevo con certezza cosa avesse fatto dopo essere partito da Zenica, non sapevo dove fosse andato ma sapevo che non dormiva da giorni, sapevo che aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto o voluto vedere e sapevo soprattutto che aveva gli occhi rotti e il nostro Balkan Tata non aveva mai avuto gli occhi rotti. Sapevo che potevo avere paura e ne avevo, ne avevo tanta.

-Tua mamma, quindi? Sta meglio davvero? – ruppi il silenzio, accoccolandomi nel suo abbraccio caldo. Era sudato e probabilmente non si cambiava la maglia da giorni ma aveva quel suo odore pungente e rassicurante che avrei per sempre chiamato casa. Aveva la maglia della nazionale bosniaca, c’erano ancora gli autografi di qualche giocatore. Mi chiesi se fosse la stessa maglia che Bogdan metteva d’estate ma non ero sicura e non glielo chiesi.

-No, Esma, mi sa di no, – rispose.

Alzai lo sguardo e mi stava guardando. Non aveva gli occhi lucidi e stava provando a sorridermi comunque ma c’era un dolore talmente sordo e intimo dentro al verde smeraldo dei suoi occhi che sentii dolore anche io, come se mi avessero dato uno schiaffo. Sembrava un dolore più profondo di quello di un figlio che sa di star perdendo sua madre. Sembrava quel dolore immenso che solo Alen sembrava in grado di poter provare.

-E dov’è ora? – insistei, accarezzandogli il viso. Gli passai un dito sulle labbra, passandogli poi il palmo aperto su una guancia, sull’orecchio, giù sul collo.

-E’ con mia sorella, è al sicuro almeno, – mi prese la mano e mi baciò il palmo, intrecciando poi le nostre dita. Gonfiò le guance e guardò le macerie del quinto palazzo a sinistra. Sbuffò, allungando una gamba e continuò a guardare le macerie. – Sono in Austria, forse là sanno come curarla davvero. Sono in una città che si chiama Linz.

Rimasi zitta per un lungo minuto perché avevo troppe domande e mi sembravano tutte stupide e stavo facendo fatica a capire quello che mi aveva appena detto ma quando lo guardai mi stava sempre sorridendo con quel suo sorriso dolce che non aveva niente a che fare coi sorrisi stoici dei nostri uomini ma che rimaneva il sorriso dell’Alen bambino che vedevi nelle foto della casa di campagna. C’era qualcosa in Lui che sembrava proteggerlo dal crescere. Avevamo ventiquattro anni ma lui ne aveva contemporaneamente ventiquattro, quattordici, e solamente quattro. Aveva il dolore di un bambino cresciuto troppo in fretta ma ancora intoccato nella sua innocenza.

-Amore … – mormorai, e la voce mi si ruppe mentre chiedevo con stupidità, – e dove sarebbe Linz?

-Non lo so con precisione – rispose, mordicchiando il filtrino. – È a nord però, è lontana da noi. Oltre la Slovenia. La prossima settimana partono per Vienna e poi il marito di mia sorella li va a prendere e … e vanno via. Lui dice che forse lì possono davvero prendersi cura di mamma, la possono guarire. Però non so dove sia, bebe. Non so cosa ci sia lassù.

-E tu? – chiesi, tirando su col naso. Spalancai gli occhi mentre sentivo l’ansia serpeggiarmi in gola – Vai anche tu con loro? – ingoiai a vuoto e lo fissai dietro una patina di lacrime – Mi lasci qui?

-Ma che cazzo vai a blaterare, Esma!

Mi ritrassi istintivamente su me stessa quando lo sentii alzare la voce. Aveva sbattuto una mano sulle piastrelle rovinate del terrazzo, gli cadde la sigaretta dalle dita. Si passò il dorso dell’altra mano sulla faccia e mi guardò sbattendo velocemente le palpebre. Mi mise una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

-Scusa bebe, – biascicò, tornando a stringermi. Non lo guardai ma mi lasciai abbracciare e lasciai che mi sfregasse il naso tra i capelli. Frememmo entrambi quando sentimmo le sirene ma non ci muovemmo. Lo sentii tremare ancora e mi chiesi se avesse la febbre, o avesse freddo, o fosse semplicemente stanco; lo abbracciai e fu io a baciargli i capelli unticci di gel, sfiorandogli il collo, la spalla, l’orecchio. Non volevo pensarci ma pochi giorni prima che sparisse mi ero ritrovata a stringere Bogdan proprio in quel modo. Gli avevo baciato i capelli, sfiorato il collo, la spalla, l’orecchio. Ma Bogdan non tremava e non mi aveva guardata nemmeno quando gli avevo chiesto scusa. Bogdan era sparito senza guardarsi indietro, come faceva sempre. Alen invece era ancora lì.

-Da Sarajevo non me ne vado, – disse a voce bassa, prendendo le sigarette. Se ne accese un’altra con le mani che fremevano. Sbuffò guardando il cielo grigio che preannunciava un temporale e reclinò la testa contro il vetro della porta finestra. Mi prese la mano e se la portò alle labbra mentre mormorava di nuovo che da Sarajevo non sarebbe mai scappato. Che sarebbe rimasto lì fino al suo ultimo giorno.

Gli reclinai la testa sulla spalla e gli strinsi forte il ginocchio. Ci guardammo e si sforzò di sorridermi ma quel sorriso sembrava solo il fantasma di quello che era stato. Il suo sorriso era la nostra stessa Bosnia. Lui era la nostra Bosnia martoriata.

-Te lo prometto bebe. Finché ho sangue in corpo combatto per la nostra casa. Sarajevo crollerà solo quando crollerò io, non prima.

Provai a sorridere ma non sapevo che smorfia fosse uscita mentre gli posavo una mano sulla guancia e gli posavo un bacio sulle labbra.

-Volim te, Tata.

Ci guardammo con un attimo di incertezza perché sapevamo entrambi che il tempo dell’innocenza era finito, ed era finita la nostra infanzia nelle campagne di Banja Luka, ed era finita la musica e gli studi di registrazione così come erano finite le estati in Croazia e anche tutte le nostre risate, ma lui mi prese comunque la mano ed esclamammo in coro “figli di Sarajevo, figli di eroi, Bosnia Herzegovina!”. Ci si ruppero i sorrisi sul viso ma mi strinse comunque arruffandomi i capelli perché era stupido forse aggrapparsi ancora a quei versi che aveva scritto e cantato nei locali di tutta la Bosnia però avevo paura che proprio quei versi sarebbero stati l’unica cosa che nessuno avrebbe potuto portarci via. Si alzò spazzolandosi i pantaloni e mi porse la mano aiutandomi ad alzarmi. Ci affacciammo dal terrazzino e IvoAndrić miagolò forte, rientrando in casa. Seguimmo la sua folta coda grigia e lui sbarrò la porta finestra mentre io andavo a mettere su il the. Sul vecchio frigo c’erano ancora attaccati post-it con la lista della spesa e magneti e anche un disegno fatto dall’Alen bambino che faceva tenerezza e resisteva da quasi vent’anni attaccato con lo scotch. C’erano più bottiglie di rakija ammassate vicino al lavandino di quando in casa viveva ancora Dana e c’erano scatole di biscotti aperte e abbandonate in giro. Sospirai mentre il the brontolava e lo guardai.

Si era stravaccato sul divano insieme alla mole pelosa di IvoAndrić.

-Alen, ma sei sicuro di rimanere qui? – gli chiesi, recuperando due piatti e due forchette. Le misi sul tavolino della sala mentre lui sfasciava il tegamino con la sirnica che avevo portato da casa. La impiattò senza guardarmi e ne tagliò un pezzo per IvoAndrić.

-Non posso lasciare la casa. Prima o poi mamma tornerà. E anche se non tornasse mai più non … – si interruppe e fece un gesto vago.

Sospirai e portai il the con un mezzo sorriso perché le uniche tazze che avevo trovato erano di plastica e avevano il disegno di Maček Muri e sicuramente erano le tazze di quando lui e Bogdan erano bambini. Mi lasciai cadere accanto a lui e feci una risatina quando scambiò le tazze commentando che quella gialla era la sua, mentre quella rossa era di Bogdan. Gli dissi che anche io da bambina avevo la tazza con Maček Muri ma che era rosa, chiaramente. Non sapevo che fine avesse fatto però. L’avrei tanto rivoluta indietro.

Mi accoccolai tra le sue braccia e lui mi posò un bacio sulla fronte. Ruppe un boccone di sirnica e me lo mise in bocca lasciando che gli suggessi un pochino le dita strappandogli un sorriso e un commento stupido che mi fece ridere. IvoAndrić miagolò e si andò ad acciambellare in mezzo a noi, impastando le zampette contro le nostre cosce.

-Esma.

Alzai lo sguardo e incontrai il suo, improvvisamente illuminato di un qualcosa che sembrava essere speranza. Mi stava sorridendo, come se non fossimo nella sua casa ormai in disarmo in un quartiere bombardato.

-Appena la questione si sistema ci sposiamo, – annunciò, e di colpo gli era tornata la voce allegra e scanzonata del nostro Tata, quella dei nostri anni felici.

-Ci sposiamo? Davvero, amore? – mugolai sfarfallando le ciglia.

-Ci sposiamo. Rimettiamo in sesto questa casa e quella di Banja Luka. Non ci sarà più bisogno che lavori al negozio.

Raddrizzai la schiena e gonfiai le guance, posandogli una mano sul petto. Pensai velocemente.

-Torniamo a passare le estati su in campagna?

-Certo. Avremo una BMW, quelle belle, nero lucido. La gente mi riconoscerà per strada e s’ammazzerà per un mio autografo.

-Diventerai un rapper famosissimo.

-Ti porto sulla Mahala incoronata d’argento, sarai invidiata da chiunque.

-Voglio due figli, un maschio e una femmina.

-Li avremo. Il maschio lo chiamiamo Edin in onore di Edin Džeko. E la femmina …

-La femmina vorrei chiamarla Hana come mia nonna. Spero abbiano gli occhi verdi come i tuoi.

-Li avranno, sia Edin che Hana. Lui sarà come me e lei sarà una queen come te.

-Saremo sulla bocca di tutti.

-Mi incoroneranno principe di Banja Luka e Sarajevo.

-Dalla Slovenia a Istanbul parleranno di te.

-E della mia splendida moglie.

-Me lo prometti, Alen?

-Te lo prometto, Esma.

Mi prese il viso tra le mani e mi baciò, lasciando che gli allacciassi le braccia al collo. Mi misi a cavalcioni sulle sue gambe, fremendo quando sentii le sue mani bollenti sfilarmi la felpa e poi stringermi le natiche con forza, spingendomi contro di lui mentre gli toglievo la maglia e la buttavo sul pavimento. Mi tolse il reggiseno affondandomi il viso tra i seni e io gemetti accarezzandogli i capelli mentre fuori guardavo le macerie della nostra Sarajevo.

-Ti amo, – mormorai mentre mi rovesciava sul divano. – Ti amerò per sempre.

Mi chiesi per molto tempo se quel ti amo fosse stato per Alen, per la nostra Bosnia martoriata o per la nostra Sarajevo distrutta.

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Anastasia Grillo
Mi chiamo Anastasia Grillo, ho 25 anni, ligure di nascita ma romana di adozione. Mi sono laureata in Lingue Straniere alla Sapienza di Roma con una tesi che spazia dalle vicende cosacche ai movimenti di liberazione culturale tatari passando per la rivoluzione greca e la linguistica turcica nel russo contemporaneo. Vivo in Austria, dove lavoro come insegnante di italiano e ho una passione esagerata per le lingue e le culture slave. Parlo fluentemente russo, penso di conoscere meglio la Slovenia dell'Italia, non so fare la pasta ma il mio burek non ha nulla da invidiare a quello di una nane bosniaca. Passo la mia vita a scrivere quello che non potrò mai vivere, almeno invece che una di vite ne vivo a miliardi. Ah, e ho un gatto che è probabilmente la reincarnazione di Bulgakov, ma non mi lamenterò di ciò.
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