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CYBERGAMES

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Inverno 1981: Siberia, le prove di un esperimento segreto vengono cancellate nel sangue.
Primavera 2012, Barcellona: un uomo viene ucciso, le mani amputate con precisione chirurgica.
Colli Fiorentini: La Jaguar di un ricco e sfaccendato rampollo della borghesia fiorentina si ritira in una misteriosa casa affacciata su Santa Croce.
Kiev: in una delle zone più malfamate della città, un giovane ragazzo viene malmenato all’interno di un fatiscente Internet Café.
Nathan Boyd, ex agente FBI, pensava di essersi lasciato tutto alle spalle. Ma quando un cadavere, mutilato, viene rinvenuto alle Hawaii, il passato torna a bussare.
Un torneo di poker online da milioni di dollari, gestito da una rete di criminalità informatica che unisce “virtualmente” continenti lontani tra di loro, lo costringerà a tornare nel mondo cha ha giurato di abbandonare, supportato da un team di hackers persi nel cyberspace.
CYBERGAMES fonde azione, tecnologia ed intrigo in un thriller che corre alla velocità dei bit.

Perché ho scritto questo libro?

Anni di attività nel Cyber mi hanno insegnato cosa si nasconde dietro il mondo affascinante della rete: non tutto è come sembra. Internet è la punta di un iceberg, la cui parte sommersa è vasta e insidiosa. Appassionato di thriller, ho deciso di scrivere un romanzo che mettesse in luce il fascino ed i pericoli di un’innovazione straordinaria ma da maneggiare con consapevolezza. Scrivere è stato il mio modo per unire esperienza e passione, trasformandole in una storia che possa far riflettere.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Prologo

   Steppa Siberiana – URSS

Inverno 1981

   

Il fumo della sigaretta, aspirata con avidità, si mischiava al vapore del suo respiro. Inspirava profonde boccate di quella miscela mortale, chiudendo gli occhi, in un godimento assoluto. Ne gustava il sapore, per poi farla scivolare lenta nei polmoni. Il fumo, miscelato a quell’aria ghiacciata dai trenta gradi sottozero, lo faceva sobbalzare, provocando lunghi e profondi spasmi di tosse. Saltellava per scaldarsi, sollevando spruzzi di fanghiglia mischiata alla neve, che gli imbrattavano gli stivali. Aveva nevicato per una settimana, ininterrottamente. Il Buran non aveva dato tregua, spazzando la pianura. I minuscoli fiocchi, farinosi e gelati, non toccavano quasi terra. Le raffiche di vento li raccoglievano, soffiandoli nuovamente in aria. Ora quel tempo infame sembrava dare un attimo di tregua, gelo a parte. Finalmente aveva smesso di nevicare e tirare vento.

Ogni mattina l’uomo lucidava gli stivali di pelle nera ed ora, in pochi minuti, il suo lavoro era andato a farsi fottere. Che era poi il senso della vita, pensò stringendo intorno al collo il pellicciotto del pesante pastrano militare,   

sino a coprirsi completamente la bocca, lasciando solamente una piccolissima fessura per la sigaretta. I risvolti del colbacco di pelliccia erano calati sulle orecchie, allacciati sotto al collo. La visiera riparava gli occhi. Solo il naso rimaneva esposto al gelo del tardo pomeriggio, quel tanto che gli permetteva di espellere il fumo della sigaretta, tra un colpo di tosse e l’altro.

Spendi tempo, anni, per portare a termine il progetto della tua vita ed un’inezia, non calcolata, una stronzata qualsiasi può mandare tutto all’aria nel tempo di quel maledetto colpo di tosse. Quel pensiero lo ossessionava da giorni. Era vicino all’obiettivo, ma l’idea che qualcosa potesse mandare tutto all’aria non lo faceva dormire, facendogli ingoiare due pacchetti di veleno al giorno, in quel posto di merda nel culo del mondo, al freddo ed al gelo, in mezzo al nulla assoluto.

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“Non deve succedere …” cercò di dire a voce alta, senza però riuscirci, con quella miscela di tabacco ed aria ghiacciata che gli bloccava le corde vocali.

Gettò in mezzo alla neve il mozzicone di sigaretta che gli era rimasto tra i guantoni. Si girò di scatto ed entrò nel basso edificio, senza degnare di uno sguardo o di un saluto il soldato armato, a guardia dell’entrata che, al contrario, era scattato sull’attenti, salutandolo con rispetto e timore.

Entrando nella prima stanza, il calore dell’ambiente, in contrasto con il meno trenta dell’esterno, lo bloccò per un attimo, provocandogli una scarica bollente che gli corse lungo tutto il corpo. Si levò pastrano, colbacco e guanti, gettandoli sul tavolo metallico ad un metro da lui, rimanendo con la divisa, più adatta a quella temperatura. L’uniforme non portava alcuna mostrina identificativa o grado. Completamente anonima. Lo stesso valeva anche per gli altri soldati presenti. Era chiaro però che fosse lui a comandare. Si accomodò sulla sedia al lato della scrivania, infilò la mano nella tasca del pastrano, estraendone dei panni di stoffa ed una tolla di lucido per stivali.

Avevano cercato in molti di convincerlo che il grasso di foca fosse il massimo per tirare gli stivali a lucido e proteggerne la pelle, ma per lui non c’era nulla di meglio di un buon lucido classico, soprattutto quando lo stivale era bagnato.

I risultati gli davano ragione.

I suoi stivali erano sempre perfetti, e questo pompava a dismisura il suo ego. Si chinò, iniziando a ripulirli dalla fanghiglia, senza preoccuparsi della sporcizia che lasciava sul pavimento.

Li scrostò, li asciugò e li pulì con cura.

Iniziata la delicata procedura di lucidatura, un’ombra lo bloccò, un’ombra che lentamente saliva su per gli stivali, oscurandoli e coprendo piano piano anche lui. Quell’interruzione, in un momento così delicato di quel processo, lo innervosì non poco.

Alzò lentamente lo sguardo, senza dire una parola. Incrociò per primi un paio di scarponcini di pelle di chissà quale animale, macchiati, per nulla curati e questo lo considerò un punto gravemente negativo. Salì ancora, mettendo a fuoco il camice di tela bianca.

“Buon pomeriggio, dottor Zycov” sibilò, piantando i suoi occhi grigio ghiaccio in quelli, intimiditi, dell’uomo di fronte a lui.

Il Dottor Avram Zycov, il classico scienziato, lo stereotipo del topo di laboratorio.  Non molto alto, capelli bianchi ed arruffati da sempre, ormai presenti solo ai lati dell’ampia fronte rugosa. Occhiali anonimi con lenti tipo fondo di bottiglia.

Era difficile dargli un’età precisa. Poteva essere intorno ai cinquanta. Da giovane doveva essere sembrato già vecchio.

Il camice, smunto e sgualcito, nascondeva sicuramente un abbigliamento modesto e non curato. La sciatteria di quella figura anonima aumentava oltremodo l’irritazione del militare per l’interruzione di quel rito sacro. Solo il bisogno che aveva di quell’uomo riuscì a mantenerlo calmo.

“Spero abbia qualcosa di veramente importante da comunicarmi …”

Il tono calmo ma deciso, tagliente del militare intimidì lo scienziato, incutendogli una sensazione di panico. Capì al volo l’aria che tirava, quindi soppesò con attenzione le parole prima di lasciarle uscire dalla sua bocca.

“Direi che ci siamo, signor Lishin.

“Colonnello Lishin!” Lo precisò senza staccare lo sguardo da quell’essere quasi inutile di fronte a lui.

“Ehm, certo, Colonnello Lishin

Era partito male. Ma cercò subito di recuperare.

“…direi che ci siamo ” ribattette, mettendo a dura prova la pazienza del colonnello, “…tutto è andato secondo i piani, nei tempi previsti. Il soggetto è pronto, già in posizione, monitorato costantemente. Ritengo che entro al massimo un’ora dovrebbe essere tutto finito.”

Lo disse tutto in un fiato, con voce tremula per l’emozione e la paura.

“Ma se tutto è pronto e siamo vicini alla conclusione, cosa ci fa lei qui? Non dovrebbe essere in un altro luogo?”

Lo gelò, senza neanche guardarlo in faccia. Il suo interesse era tornato agli stivali, ormai quasi lucidi.

“Chi c’è ora di là?

“La dottoressa Levkova … “

“Non crede che anche lei dovrebbe essere nell’altra stanza? Non vorrei che succedesse qualche imprevisto proprio all’ultimo istante, e sa quanto mi indispongono gli imprevisti.  E se lei non fosse presente … sarebbe molto spiacevole. “

Lo scienziato raccolse la neanche troppo velata minaccia, deglutì e si congedò senza aggiungere una parola, bianco in volto, dirigendosi con il suo passo inelegante verso la stanza vicina, sul lato opposto dell’ampio androne centrale della bassa costruzione.

Il soldato a guardia aprì la porta e si scostò, facendolo entrare. Una volta entrato, il militare richiuse la porta, rimettendosi a protezione dell’entrata, gambe larghe e mitragliatore ben saldo nelle mani.

Passò del tempo.

Il colonnello considerò che quell’omuncolo fosse sicuramente un genio nel suo campo, ma che avesse una scarsissima concezione del tempo. Erano passate almeno altre quindici sigarette da quando aveva lasciato la stanza, bruciate voracemente una dopo l’altra. Quasi due ore. Due ore di lamenti che provenivano flebili dall’altra stanza.

Lamenti periodici.

Ritmici.

Con intervalli scadenzati.

Aveva girovagato nervosamente per l’edificio. Dopo l’ennesima sigaretta aveva deciso di attendere la conclusione nell’angusta stanza che aveva eletto a suo ufficio. Non vedeva l’ora di chiudere tutto e mollare quel posto schifoso. Lì c’era tutto quello che aveva odiato nella sua vita. Povertà, sporcizia, isolamento. La luce fioca, giallognola della lampada ad olio, adagiata sulla scrivania di legno scrostato, gli permetteva appena di rileggere con grande fatica i suoi appunti.

Un urlo più profondo, più lacerante, più lungo e più continuo gli fece alzare di scatto lo sguardo. Gli si stavano chiudendo gli occhi sotto il peso della fatica di quei giorni, ma quel lamento animalesco lo risvegliò. Forse ci siamo, pensò. Tese ancora di più le orecchie. Il lamento improvvisamente cessò, lasciando il posto ad un gemito, sempre di dolore, ma di un dolore più dolce, positivo. I gemiti erano ora più frequenti nel loro ritmo, più acuti.

Il colonnello scattò in piedi. Anche ad un uomo gelido come lui il cuore poteva battere a mille all’ora.

“E’fatta! E’ fatta! E’ fatta!” urlò il dottor Zykov catapultandosi nella stanza.

Lishin lo fissò gelido, nella penombra, riprendendo il controllo delle proprie emozioni.

“Mmm … tutto come previsto, colonnello Lishin!” Zykov cercò di ricomporsi, a fatica.

Il colonnello fece per chiedere spiegazioni ma un soldato, entrato come una furia, dopo un veloce saluto militare, si avvicinò allo scienziato.

“Presto dottore, venga di là, la dottoressa Levkova ha bisogno di lei. C’è qualcosa che non va … un imprevisto … sta succedendo qualcosa …”

Lishin si irrigidì.

Odiava gli imprevisti.

Zykov fissò Lishin. Per un attimo sembrò che le gambe gli cedessero, facendolo traballare. Il cuore prese a correre. Era terrorizzato all’idea di cosa potesse essere successo.

Senza dire una parola si girò e seguì il militare, ritornando nella stanza sull’altro lato dell’atrio centrale.

Per un’altra quarantina di minuti le urla si susseguirono, incessanti, in un’alternanza di tonalità. Di colpo calò il silenzio, tanto improvviso quanto atteso. Lishin tese le orecchie, cercando di cogliere qualche segnale di quello che stava succedendo.

Passò altro tempo prima che il dottor Zycov varcasse nuovamente l’uscio della stanza, senza bussare e senza salutare. Il passo era ora, oltre che sgraziato, anche affaticato. La fronte imperlata di sudore.

Lishin notò alcune chiazze sul camice dell’omuncolo, che prima non c’erano. Era un grande osservatore e non ci mise molto a capire che erano chiazze di sangue.  Subito dopo il dottore entrò nella stanza anche il solito soldato, mettendosi a guardia della porta.

Non disse nulla, aspettò che fosse lui ad iniziare.

Quasi tutto come nei piani…“

La voce era bassa e stanca, distorta dalla tensione.

“Quasi tutto?” lo incalzò il colonnello con tono rabbioso.

“Sì … sì … quasi tutto …” sussurrò Zykov avvicinandosi e parlandogli nell’orecchio, per non farsi sentire dal soldato dietro di lui.

Il colonnello fece un tremendo sforzo per sopportare il lezzo caldo ed umido del fiato del dottore sul suo orecchio.

Mano a mano che parlava, il viso del colonnello si contraeva sempre più in una smorfia, dimostrando il suo stupore per quanto stava sentendo.

Si sedette.

Si fermò a pensare.

Fu un attimo.

Con un cenno congedò il soldato, che lasciò la stanza, ed ordinò a Zykov di sedersi sulla sedia al di là del tavolo.

“Mi conferma che a parte l’imprevisto tutto il resto è andato come da piano? “

“Lo confermo! “

“E’ stato tutto documentato?”

“Tutto documentato! E’ anche per quello che sono arrivato tardi da lei“ cercò goffamente di giustificarsi.

Lishin si alzò dalla sedia, visibilmente sollevato.

Zykov era invece sul punto di crollare. La tensione accumulata stava ora lasciando il passo ad una sensazione di svuotamento. Il sudore sulla fronte aumentava.

“Può essere soddisfatto, colonnello Lishin! Questo è un giorno importante per la scienza, e noi ne siamo stati gli artefici.”

Zykov non udì alcuna risposta.

Il militare aveva preso a passeggiare per la stanza, dietro di lui. Quel silenzio lo preoccupava. L’omino cercava di stabilire un contatto, per capire cosa pensasse l’ufficiale e quale fosse il suo umore.

“Anche se con un imprevisto, abbiamo però raggiunto il nostro obiettivo” continuò lo scienziato.

La mancanza di un qualsiasi commento aumentò la sua preoccupazione, facendolo agitare nervosamente sulla sedia, asciugandosi il sudore della fronte con la manica del camice.

La porta si aprì ed una figura irriconoscibile alla luce fioca della stanza, probabilmente un altro militare, fece un passo all’interno rassicurando il superiore con un cenno del capo. Silenziosa come era entrata, la figura se ne andò, richiudendo la porta.

“Un imprevisto può generare un fallimento, non dovrebbe mai accadere. Ma un piano perfetto lo dovrebbe prevedere e gestire” sentenziò il colonnello, con il solito tono calmo ma deciso, avvicinandosi lentamente alle spalle dell’uomo, che di scatto si drizzò sulla sedia.

“Ma noi … lo abbiamo gestito cercò di giustificarsi lo scienziato, quasi balbettando.

“Sì, ma non previsto… e questo poteva mandare tutto all’aria.”

Lishin, estrasse silenziosamente la Tokarev TT-33 dalla fondina appesa al suo cinturone.

“E poi me lo lasci dire, la sciatteria della sua persona è indegna. I dettagli sono fondamentali. Chi non cura i dettagli della propria persona non può curare con successo i dettagli di un progetto così importante.”

Prima che il dottore potesse replicare, gli appoggiò la canna alla nuca, esplodendo un colpo, secco.  Il proiettile trapassò il cranio sudato dello scienziato, portandosi con se il suo ultimo respiro. La morte fu immediata. La testa crollò in avanti sul tavolo con un tonfo sordo.

“La sua nullità alla lunga poteva diventare un imprevisto. IO l’ho previsto e gestito! “

Con la pistola in pugno uscì, dirigendosi a passo deciso verso l’altra stanza. Il soldato di guardia si scostò e lui entrò.

Altri due spari, secchi, rimbombarono nello spazio semi vuoto. Tornò nell’ atrio.

“Prepararsi tutti per la seconda parte del piano” urlò ai soldati riunitisi intorno a lui. In totale erano cinque.

Ognuno di loro sapeva cosa fare.

“Dottoressa Levkova, è pronta anche lei?”

“Pronta!

“Allora partiamo ordinò perentorio.

Percorsero un lungo e buio corridoio che portava alla costruzione adiacente al corpo centrale della vecchia fattoria, presa in prestito per l’operazione. Una volta era stata una stalla, ma ormai era completamente priva di animali ed adibita a magazzino di vecchie cianfrusaglie. L’ambiente era stato riscaldato il più possibile, considerando che si trovavano in uno dei luoghi più freddi al mondo, in pieno inverno.

Al centro un camion militare con il motore acceso, grigio scuro e senza insegne, spandeva nell’aria il tanfo dei suoi fumi di scarico. Un giovanissimo soldato sedeva al posto di guida. Altri due caricarono sul camion alcuni cartoni che sembravano piuttosto pesanti. Aiutarono a salire anche la donna, passandole poi un altro grosso contenitore di vimini, coperto con delle pesanti coperte.

Una volta salito il colonnello Lishin, anche i due militari lo seguirono, sistemandosi sulle panche ai lati interni del camion, sul fondo. Il soldato rimasto a terra aprì il portone, consentendo al pesante mezzo di uscire all’aperto.

Aveva ripreso a nevicare con fiocchi grossi e ghiacciati. Il pesante mezzo si fermò ad un centinaio di metri dalla fattoria. L’ultimo soldato arrivò di corsa e montò al fianco del guidatore. Il camion ripartì scivolando in accelerazione sul fondo ghiacciato. Il colonnello si alzò a fatica, sbilanciato dai sobbalzi sul terreno sconnesso.

Scostò il telone.

Un bagliore rossastro illuminava l’interno della stalla. All’improvviso il tetto di legno iniziò a bruciare, rischiarando tutta la zona intorno, ed avvolgendo in pochi minuti l’intera fattoria. Lishin richiuse la copertura e si sistemò sulla panchina appoggiata alla cabina di guida.

Il camion traballò per circa un’ora, procedendo piuttosto spedito e con il rischio di uscire di strada ad ogni curva.

Odiava quella scomodità.

All’improvviso il passeggero in cabina bussò tre colpi sulla lamiera che la separava dalla parte posteriore del camion.

Il colonnello guardò attraverso lo spioncino di vetro e vide due luci in lontananza, sul lato sinistro della strada. Picchiò due colpi a sua volta, di risposta, sulla lamiera. Si alzò, estrasse la Tokarev TT-33 e sparò in rapida successione, freddando all’istante i tre soldati sul retro del camion, impreparati e rattrappiti dal freddo. Tre colpi precisi in fronte.

Il rumore assordante del motore ed i sobbalzi coprirono gli spari. Il camion rallentò dolcemente la sua corsa, per non slittare. Lentamente accostò verso il bordo destro della strada, bloccandosi in prossimità delle due luci.

Un uomo scese dall’auto nera parcheggiata sull’altro lato della strada. Vestiva anche lui un cappotto pesante. Non una divisa, con un colbacco calato sulla testa. Si avvicinò al conducente del camion e bussò alla porta. L’autista abbassò il finestrino. L’uomo posò il piede sulla predella della cabina, salendo all’altezza del finestrino. Non diede il tempo all’autista di salutare. Piantò due pallottole tra gli occhi suoi e del compagno.

Lishin saltò giù dal retro del camion, raggiungendo l’uomo che nel frattempo era balzato a sua volta a terra. Si salutarono con una stretta di mano, per quanto potessero permettere i pesanti guantoni che indossavano. Una pacca sulla spalla. Recuperarono il contenuto del camion e lo spostarono nel bagagliaio e sui sedili posteriori dell’auto.

Iliana Levkova si accomodò a sua volta sul sedile posteriore dell’auto.

L’ uomo aprì la portiera del camion e vi salì, scostando il corpo del militare ucciso per potersi sedere alla guida. Accese il motore, ingranò la marcia e molto lentamente avviò il mezzo, girando alla sua destra. Imboccò il piccolo viottolo nascosto tra la sterpaglia, largo giusto quanto il camion.

Pochi metri ed il mezzo si ritrovò su una gigantesca lastra ghiacciata, spessa quanto bastava per sorreggerne il peso. Proseguì molto lentamente, sino ad arrivare ad una cinquantina di metri dalla riva.  Il lago sotto la lastra, in quel punto doveva essere molto profondo e soprattutto gelido.

La superficie sembrava reggere.

Girò il camion in modo che i fari puntassero la riva del lago. Si fermò e spense il motore, lasciando le luci accese. Lampeggiò con alcuni colpi di abbaglianti.  Scese dal camion lasciando la portiera aperta. Saltò sul retro del mezzo, scomparendo sotto il telone e ricomparendo dopo pochi secondi.  Tornò a terra trascinando con sé una grossa tanica di benzina, che aveva già iniziato a cospargere   sotto il telone. Cosparse per bene anche la cabina. Il fondo del bidone lo destinò ad una striscia lunga un paio di metri dal camion. Prese dal cappotto una scatoletta di fiammiferi. Ne estrasse uno. Si girò verso il bordo del lago, lo mostrò alzando il braccio, lo sfregò e lo accese.

Un sibilò partì dalla riva.

Il ginocchio dell’uomo cedette, fracassato dal proiettile che lo raggiunse con estrema precisione, facendolo crollare pesantemente sulla lastra.

Un secondo colpo gli trapassò il braccio, tenuto teso verso l’alto. Lasciò il fiammifero che, ancora acceso, disegnò un cerchio nell’aria.    

L’uomo lo fissò con terrore, cercando disperatamente di recuperarlo al volo, con l’altra mano, senza farsi sfuggire un fiato per il dolore. Ma il ginocchio non lo aiutò nel movimento, lasciandolo impotente nel mezzo della scia di benzina. Seguì la traiettoria del fiammifero, frazioni di tempo che sembrarono non terminare mai. La sua mente anticipò i frammenti di quello che sarebbe accaduto se non fosse riuscito a fermare quel maledetto pezzettino di legno e zolfo. Il tempo di toccare terra e un lampo di fuoco si liberò nell’aria gelida, avvolgendolo e proseguendo la sua corsa silenziosa verso il camion.

Avrebbe voluto alzarsi e correre, ma il ginocchio fracassato ancora una volta glielo impediva. In pochi secondi tutto fu avvolto dalle fiamme. Si rese conto che le sue urla di dolore e di terrore non sarebbero state sentite da nessuno.

Il lago si illuminò a giorno.

La lastra di ghiaccio perse in breve tempo la sua consistenza per il tremendo calore, sino a creparsi e frantumarsi sotto il peso dell’automezzo.

Lishin restò immobile a guardare lo spettacolo, mostruoso ed affascinante allo stesso tempo. La palla di fuoco, che stava ormai divorando completamente il camion, iniziò a vacillare. In un Amen il camion ed il corpo dell’uomo scomparvero, inghiottiti dalla la gelida coltre di ghiaccio.

Il silenzio ovattato della nevicata inghiottì la superficie del lago. 

Sarebbe stato sufficiente ucciderlo una volta rientrato a riva, con un proiettile tra gli occhi, come per gli altri soldati. Ma non avrebbe avuto lo stesso effetto su di lui. Quella dimostrazione di potere e di crudeltà lo eccitavano, anche fisicamente.

Tornò all’auto.

Posò il fucile di precisione nel baule dell’auto, lo richiuse e diede un paio di colpi secchi sul tettuccio.

Il motore rombò, le luci si accesero e l’auto partì. Lishin passò sull’altro lato della strada e proseguì per alcuni metri.

Continuava a nevicare.

Si infilò per qualche metro in un sentiero sterrato. Nascosta tra gli arbusti c’era un’auto.

Scostò le fronde, curvate dal peso della neve, aprì un varco verso il sentiero, spalancò la portiera anteriore e salì.

Il sedile ed il volante erano gelidi. L’auto era parcheggiata lì fuori ormai da diversi giorni. Non si tolse né guanti né pastrano.

La chiave era nel cruscotto.

La girò.

Il motore borbottò per qualche secondo, imballato dalla bassa temperatura siberiana, ma alla fine si accese.

Non aveva fretta.

Si tolse un guanto e recuperò il pacchetto di sigarette dalla tasca del pesante cappotto. Prese l’ultima rimasta e se la infilò tra le labbra, sul lato della bocca. Recuperò una scatola di fiammiferi e l’accese.

Fece un paio di lunghe tirate, aspirando con gusto quel mix di nicotina e morte.

Con la sigaretta tra le labbra, si chinò sul volante.

Il fumo della sigaretta saliva verso l’alto, pizzicandogli gli occhi. Li strizzò per liberarsi da quel fastidio e passò sugli stivali un panno umido, preso da un porta oggetti sul lato della portiera.

Erano tornati quasi perfetti.

Tirò ancora una serie di profonde boccate, aspettando per qualche minuto che la neve ed il ghiaccio sul vetro anteriore evaporassero, come le vite di quei soldati, lasciando intravedere l’esterno.

Abbassò il finestrino, gettò nella neve quello che era rimasto della sigaretta e partì, nel senso opposto a quello di Miss Levkova e del suo prezioso carico.

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Maurizio Corti
Maurizio Corti nasce a Milano nel 1959, è diplomato in Maturità Scientifica con indirizzo informatico.
Da sempre impiegato nel settore tecnologico è stato uno dei primi in Italia ad occuparsi di Sicurezza Informatica, quella che oggi, con l’esplosione di Internet e dei “pericoli” connessi, ha preso il nome di Cybersecurity.
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