Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors

Sulla punta della lingua

Copia di 740x420-91
8%
185 copie
all´obiettivo
98
Giorni rimasti
Svuota
Quantità
Consegna prevista Agosto 2026
Bozze disponibili

Ci sono parole che restano sospese, ostinate nel loro silenzio. Sulla punta della lingua nasce da quel margine fragile in cui la voce si ferma e l’anima continua a parlare. È un viaggio nei territori dell’emozione e della memoria, dove i sentimenti si intrecciano al timore di dirsi, e la vulnerabilità diventa una forma di verità. Ogni pagina è un tentativo di attraversare la paura e di restituire luce a ciò che si è taciuto troppo a lungo.

Campana di nascita e toscana d’adozione, l’autrice insegna lettere ed è laureata in Lettere con indirizzo antropologico. Amante della musica in tutte le sue contraddizioni – dall’heavy metal al K-pop, fino alla classica – e pianista in erba, trova nella cucina e nella scrittura i suoi gesti più autentici. Oggi studia Psicologia e difende i diritti umani e delle donne. Sulla punta della lingua è il suo esordio letterario: una confessione delicata e ribelle, nata dal coraggio di dare finalmente voce a ciò che arde dentro.

Perché ho scritto questo libro?

Ho voluto descrivere in prima persona il difficile percorso di una persona che inizia ad affrontare un lutto e un trauma infantile repressi per esplorare il processo di guarigione. Il libro nasce dal desiderio di esprimere quel dolore bloccato, quel “peso del silenzio”, che impedisce di vivere appieno la vita: dare voce al dolore. Il racconto vuole mostrare come l’elaborazione del lutto e il recupero dei ricordi, anche quelli dolorosi, siano fondamentali. Sottolineare il potere dei ricordi

ANTEPRIMA NON EDITATA

1

La Prima Seduta 

La stanza era illuminata da una luce tenue, soffusa, che sembrava avvolgere gli oggetti in una patina di silenzio. Caterina sedeva sulla sedia di fronte alla scrivania della psicologa, le mani incrociate nervosamente in grembo, mentre il battito del suo cuore sembrava scandire il tempo in modo quasi doloroso. “Dottoressa, non voglio più vivere ma non voglio assolutamente morire.” La frase uscì dalle sue labbra come un pugno nello stomaco. Non c’era esitazione nella sua voce, ma la ferita nascosta si rivelava in ogni inflessione. La psicologa non si mosse, lasciò che le parole aleggiasse nella stanza per un istante, poi le incontrò lo sguardo con un’espressione calma, quasi familiare. “Oddio, mi sa che sono stata troppo precipitosa nel dirle questa cosa.” Caterina si ritirò nella propria incertezza, come un animale che torna nella sua tana subito dopo un’uscita avventata. “Non si è mai precipitosi quando si ha urgenza di esplicitare un malessere. Da quanto tempo ce l’ha sulla punta della lingua?” Un sorriso triste sfiorò le labbra di Caterina. “Credo da sempre. No, anzi, mi lasci riflettere. Ecco, da quando ho preso coscienza di esistere. Le è mai capitato di fermarsi a pensare che lei è lei, che… che i suoi pensieri sono i suoi, che il suo corpo è di Caterina e non di qualcun altro? La percezione di essere lei quella che è qui ed ora. E mentre lo pensa, il corpo le fa male, come quando si sveglia di notte dopo un incubo.” La voce si spezzò. La psicologa rimase immobile, attenta, con uno sguardo che invitava a continuare. Caterina cercò di proseguire, come se stesse camminando su un sentiero stretto, costeggiato da un baratro. “La prego, non mi dica che capita solo a me di sentire dolore pungente nei muscoli quando mi sveglio da un brutto sogno e il mio corpo torna alla realtà; perché, sa, comincio a dubitare della mia sanità.” “Non ho alcun motivo di pensarlo, non ora. Non sono qui per giudicare ma per ascoltarla, prima di tutto.” Caterina fece un respiro profondo. La tensione nel suo corpo sembrava sciogliersi appena, un filo alla volta. “Vede, io ho sempre creduto di non aver bisogno di… di… cioè, della psicologia in generale. Non si offenda.” “Lei non si offenda, ma non è la prima persona a dirlo,” rispose la psicologa, accennando un sorriso lieve. “Beh, in effetti suppongo che prima di varcare questa soglia in molti abbiano pensato di farcela o semplicemente di mettere da parte ogni pensiero penetrante. E che poi siano approdati a questa – mi permetta di dirlo – scomoda sedia.” Caterina rise, una risata breve, più vicina a un sospiro che a una reale espressione di allegria. Si voltò verso i divani indicati dalla dottoressa. “Petrolio” pensò “Adoro il color petrolio”. Un pensiero banale, forse insignificante, eppure in quel momento la rassicurò. Le sue mani smettono di tremare per un attimo. “Caterina?” La voce della psicologa la riportò alla realtà. “Dottoressa, scoprirà che sono un intricato coacervo di insicurezze, tragedie, ossessioni e… dica qualcosa di folle e sicuramente mi starà a pennello.” Si interruppe, guardandosi le mani. Poi, con un’ombra di ironia, aggiunse: “Non sono un animale raro, lo so, non sono inconsapevole. Nel tempo ho dato una mia personale definizione alla società in cui vivo: ‘le isole di disagio’. Credo che persino Pirandello apprezzerebbe.” La psicologa sorrise, ma non rispose. Lasciò che le parole di Caterina trovassero il loro spazio, si sedimentassero. “Dunque, vogliamo tornare brevemente alla sua frase d’esordio?” chiese infine con tono fermo. “Lei dice di non voler vivere ma di essere certa di non voler morire, giusto?” Caterina annuì lentamente. “Ecco, vorrei escluderle il fatto che io abbia tendenze suicide. Non ci ho mai pensato, neppure per un secondo, e anzi ho paura della morte proprio come concetto. Se dovessi dare un senso a questa affermazione, è che so di essere viva, ringrazio di esserlo, ma più che altro esisto, sopravvivo, sono qui. Ecco, questo è il senso, se un senso ce l’ha, non trova?” “Sì, certamente, non si preoccupi,” rispose la psicologa. Un silenzio cadde nella stanza, ma non era pesante. Era come se entrambe stessero respirando per la prima volta lo stesso ossigeno. “Non so se sono veramente pronta,” disse infine Caterina, abbassando lo sguardo. “In realtà, questa affermazione è nella mia testa così tanto che ci si è costruita una splendida stanza, anzi una casa e, anzi, guardi, facciamo una villa con piscina, dato che ci siamo. Tanto per farle capire che ha preso residenza con tutti i comfort e non credo abbia alcuna intenzione di andare via. E non lo so se voglio che vada via o semplicemente voglio imparare a conviverci o forse sperare che si trasformi in qualcosa di diverso. In questo momento penso di avere una tempesta tropicale dentro!” La psicologa si piegò leggermente in avanti, come a voler colmare la distanza tra loro. “Se riesce ad andare avanti, vedrà che si sentirà un po’ meglio, glielo assicuro. Proviamo a vedere quali saranno le sue reazioni una volta uscita di qui, e la prossima volta proveremo ad esplorare quella che lei chiama… isola del disagio? Giusto?” Dopo una lunga pausa, Caterina si passò la lingua sulle labbra, come a saggiarne la consistenza. “Sa,” iniziò a dire con un filo di voce, “ho spesso la sensazione che il mio dolore sia proprio lì, sulla punta della lingua. Lo sento, pungente, come una ferita appena aperta, ma non riesco mai a pronunciarlo tutto, tutto intero.” La psicologa rimase in silenzio, lasciandole lo spazio di cui sembrava avere bisogno. “È come se le parole si fermassero prima di uscire, come se dentro di me ci fosse un filtro che trattiene tutto ciò che davvero vorrei dire. Forse perché farlo significherebbe guardarlo in faccia. E io non voglio guardarlo, dottoressa. Non ancora.” Per un istante, le parve che l’aria nella stanza fosse meno densa. La seduta si concluse con un sorriso lieve da entrambe le parti. “Alla prossima, dunque. Ci vediamo mercoledì pomeriggio alle diciotto.” Quando uscì sulla strada, il freddo dell’inverno le colpì il volto, ma non lo sentì subito. Aveva la mente altrove. Si strinse nel cappotto, cercando di non pensare, ma i pensieri arrivarono lo stesso, come onde impetuose. E poi, improvvisamente, si fermò davanti alla sua macchina. Le lacrime le rigavano il volto, salate, inarrestabili. Non ricordava quando fosse iniziato questo pianto: davanti alla vetrina con l’intimo ammiccante o quando l’odore di cornetto riscaldato le era arrivato dal bar all’angolo? Salì in macchina, asciugandosi frettolosamente le guance. Mise in moto e si allontanò, decisa a razionalizzare tutto, a relegare l’emozione in qualche angolo nascosto della mente. Ma dentro di lei sapeva che quella era solo la prima crepa di qualcosa di molto più grande. Un vaso di Pandora stava per aprirsi, e la tempesta tropicale non sarebbe stata contenuta per molto. 

Continua a leggere
Continua a leggere

2

I ricordi di lei 

Era seduta di nuovo sul divano della psicologa, la sua voce tremava mentre parlava della morte di sua madre. Non era la prima volta che lo faceva, ma era una delle poche in cui le parole fluivano senza controllo, come se ogni suono fosse una nuova ferita. Era vulnerabile, come sempre in quei momenti, ma a un livello che non riusciva a spiegare neppure a se stessa. “Non riesco a sopportare che se ne sia andata, così presto… e che si fosse già ammalata, ancora prima. Prima che potessi conoscerla,” disse, un tono triste nel suo respiro. “Non ho avuto il tempo di conoscerla. Non dovrebbe mancarmi… Eppure per anni non mi è mancata affatto. Poi, boom! Mi manca, così tanto. O forse… forse vorrei che non mi mancasse. E ho paura che non sia così.” La dottoressa Bianchi, con il volto compassionevole, la guardò in silenzio per qualche secondo, prima di rispondere, quasi sussurrando: “Posso immaginare che sia difficile… ma è normale sentirsi così quando si perde qualcuno a cui si vuole bene.” Le sue parole furono un lieve conforto, ma non riuscirono a dissipare la nebbia di confusione che aleggiava nei suoi pensieri. Sentiva il peso del dolore, ma anche il peso dei dubbi, quelli che l’accompagnavano da anni. Come si poteva continuare a vivere con un tale fardello di emozioni non espresse, non comprese? La domanda le tornava nella mente, senza risposta. “Non so come ho fatto senza di lei… eppure non ho mai avuto bisogno di lei,” mormorò, quasi incredula della sua stessa affermazione. La dottoressa continuò a parlare con calma, suggerendo che avrebbe trovato modi per affrontare il dolore. Ma Caterina non riusciva a immaginare come. Non sapeva ancora se sarebbe mai stata capace di camminare senza il peso della madre, ma forse un giorno, piano piano, avrebbe imparato. Caterina sapeva che quella seduta era solo l’inizio. La sua mente lo ripeteva come un mantra, mentre il cuore le rimandava il ricordo di quelle parole – è l’inizio. Un giorno avrebbe potuto guardarsi indietro e dire che era stata la prima tappa del suo lungo cammino di guarigione. Ma non oggi. Non adesso. In quella fredda giornata d’inverno, tutto quello che sentiva era il silenzio che la avvolgeva, un silenzio che la stava schiacciando. La sua mente, di solito ingarbugliata, trovava finalmente una via per esprimersi. Le parole cominciavano a scorrere, ma erano come un fiume in piena che non riusciva a fermarsi. Il dolore per la morte della madre, che non la lasciava mai, si faceva acuto ogni volta che cercava di affrontarlo. Eppure, il vuoto che aveva sentito per anni, quel silenzio che l’aveva accompagnata, ora diventava chiaro: doveva affrontarlo. Non poteva più vivere nel buio dell’oblio. La dottoressa Bianchi, sempre calma e paziente, non la forzava mai. Ma le dava quello spazio che, a volte, sarebbe stato troppo difficile trovare da sola. Caterina, che per tutta la vita aveva trattenuto tutto dentro, sentiva una strana sensazione, come se avesse temuto che se avesse iniziato a parlare, non avrebbe più potuto fermarsi. “No, Caterina,” pensava tra sé, “ancora lacrime, no, non ora. E comunque, contegno, per la miseria.” Il profumo del mandarino e del pompelmo nella stanza si mescolava al silenzio che, lentamente, si faceva pesante. Le librerie intorno sembravano immutabili, ma quel profumo era per lei una promessa di qualcosa che ancora non riusciva a comprendere. Non poteva saperlo, ma quello sarebbe stato uno dei suoi ricordi più belli. Quando la psicologa le chiese di descrivere sua madre, una sensazione di smarrimento la invase. Non riusciva a ricordare niente di concreto, solo frammenti, voci di altri, parole pronunciate da chi cercava di tenerla legata a quell’immagine di donna che non aveva mai davvero conosciuto. “Mi hanno detto che era una donna forte, indipendente… Amorevole, presente, ma anche tanto… tanto altro,” disse, fissando le sue mani, ora tremanti. “Ma io non so. Non so chi fosse davvero. Quello che mi dicono sono storie di seconda mano… di mio padre, della matrigna, di amici. Di tutti, tranne che di lei.” Caterina si fermò, respirò profondamente, come se volesse scacciare il peso delle parole che si mescolavano dentro di lei. “Mio padre non mi ha mai detto nulla. Non mi ha mai parlato della sua malattia… nemmeno quando io avevo già più di trent’anni. E ho chiesto, sa? Gli ho chiesto di raccontarmi, ma… non è mai successo. Poi le voci si disperdevano, e io mi sono accontentata del nulla. Quello che più mi ha fatto male… è l’oblio.” Un piccolo silenzio. La psicologa non si affrettò a rispondere. “Lo sapeva che mia madre si sarebbe dovuta fare un pap-test di routine quando avevo tre o quattro anni? Da lì le cose sono andate a rotoli. Ma… è come se nessuno avesse mai pensato di raccontarmi davvero, di darmi una verità.” Il tono della sua voce si abbassò, come se l’aria nella stanza fosse diventata troppo densa. “Ho imparato a non fare domande. A non cercare risposte.” “E oggi, che cosa ricorda di sua madre?” domandò la dottoressa con voce calma, ma curiosa. “Posso… posso dirlo, ma non la vedo più come una figura concreta. Posso immaginarla, ma solo attraverso le foto che ho di lei… Alta, bruna, occhi scuri… Bella, formosa. Ma poi… quando è morta, la sua voce è svanita. E ho smesso di vedere la donna che avevo visto prima. Ricordo solo una donna magra, spenta. Emaciata da un dolore che l’aveva consumata. Con i capelli corti… Sale e pepe.” Caterina si fermò, gli occhi abbassati. “Non era quella la mamma che… che mi dava il resto quando facevo i dispetti o quella che… che mi dicevano si attaccava a me come una cozza,” disse con un sorriso triste, ma che sembrava più un battito di ali che un vero sorriso. 

3

Il peso del silenzio 

Caterina varcò la soglia di casa con passo stanco, il peso della sessione dalla psicologa ancora gravava sulle sue spalle. Le parole pronunciate in quella stanza silenziosa, come pietre gettate in uno stagno, avevano fatto affiorare alla superficie i fantasmi del suo passato, un passato offuscato dal silenzio assordante che aveva seguito la morte prematura della madre. Aveva solo sette anni quando se n’era andata, strappata via da una malattia inesorabile. Un evento traumatico che nessuno si era curato di spiegarle, lasciandola sola ad affondare in un mare di domande senza risposta. Il dolore, soffocato e represso, era diventato un’ombra che la seguiva ovunque, un peso invisibile che le impediva di vivere pienamente. Durante la sessione, la dottoressa Bianchi l’aveva incoraggiata ad esplorare quel territorio inesplorato, a dare voce ai sentimenti sepolti sotto strati di oblio. Le sue parole, come un balsamo delicato, avevano iniziato a sciogliere il ghiaccio che le incrostava il cuore. Per la prima volta, Caterina si era concessa il permesso di esprimere il dolore che per anni l’aveva tenuta prigioniera. Tornata a casa, si rifugiò nella sua stanza, l’unico luogo dove si sentiva al sicuro. Si avvicinò alla finestra, lasciando che il fresco profumo della sera accarezzasse il suo viso. Lo sguardo si posò sulla foto incorniciata sul comodino, l’unica immagine che le era rimasta della madre. Un sorriso dolce e luminoso, pieno di una vita che le era stata negata. Le lacrime presero a scorrere, ma questa volta erano diverse. Erano lacrime di liberazione, di dolore finalmente riconosciuto. In quel momento, Caterina comprese che il suo viaggio era appena iniziato. Un viaggio di scoperta e forse di guarigione, un cammino verso la luce che, nonostante il dolore, pulsava ancora dentro di lei. Con un sospiro profondo, si asciugò le lacrime e si alzò in piedi. Era ora di affrontare il passato, di fare i conti con i fantasmi che la perseguitavano. Aveva paura, sì, ma anche una nuova determinazione. La strada per la guarigione sarebbe stata lunga e difficile, ma era finalmente pronta ad imboccarla. Non era più sola. Aveva se stessa, la sua forza interiore e la guida preziosa della dottoressa Bianchi. Mentre si preparava per la notte, un senso di speranza si accese dentro di lei. Forse, finalmente, sarebbe riuscita a vivere pienamente, onorando la memoria di sua madre e liberandosi dal peso del silenzio che per troppo tempo le aveva impedito non solo di volare ma l’aveva obbligata a vivere tra gli errori e le ferite provocate da essi.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

Commenti

Ancora non ci sono recensioni.

Recensisci per primo “Sulla punta della lingua”

Condividi
Tweet
WhatsApp
Chiara Mangini
Campana di nascita, toscana per scelta, insegno lettere e cerco, nelle parole, la mappa invisibile dell’animo umano. Laureata in Lettere con indirizzo antropologico, ho sempre creduto che la scrittura sia un atto di coraggio: per anni Sulla punta della lingua è rimasto chiuso in un cassetto, finché non ho imparato che le paure vanno attraversate, non evitate. Amo la musica che vibra e contraddice — dall’heavy metal al K-pop, fino alla purezza della classica — e trovo rifugio nella cucina e nei tasti di un pianoforte ancora incerto. Studio Psicologia per capire meglio ciò che la parola svela e nasconde. Tra Han Kang e Dumas, tra il pensiero e la carne, difendo con voce ferma i diritti umani e delle donne, convinta che scrivere significhi, in fondo, resistere con grazia.
Chiara Mangini on FacebookChiara Mangini on Instagram
Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors