ANTEPRIMA NON EDITATA
Ricordo 11
LA NUVOLA COCCODRILLO DI GIUSEPPE
Giuseppe aveva sei anni, o forse cinque, ma l’età, in certi momenti, non conta davvero.
Ci sono attimi che esistono fuori dal tempo, sospesi in un luogo dove la memoria non misura, ma custodisce.
Era un pomeriggio d’estate, uno di quelli che odorano di erba tagliata e di sogni che non sanno ancora come chiamarsi, che ancora non hanno una forma ben precisa.
L’aria era calda ma buona, piena di ronzii d’insetti e di luce che tremava tra le foglie. Il cielo si stendeva sopra di lui come un mare infinito, azzurro, profondo, senza rive.
Un cielo che non finiva mai, troppo grande per essere contenuto in due occhi di bambino.
Giuseppe era sdraiato sull’erba, con le mani intrecciate dietro la testa e il cuore che batteva lento, assorto in una pace che solo i bambini sanno abitare.
Guardava il cielo, ma non sapeva di guardare: non stava cercando nulla, e forse proprio per questo trovava tutto.
Era immerso nel silenzio dorato del pomeriggio, come se il mondo intero respirasse con lui, piano, senza rumore.
Poi, accadde.
Fu come se il cielo avesse deciso di parlargli, di farsi gesto, disegno, dipinto, segno, messaggio.
Tra mille nuvole che scorrevano leggere, una, più bianca, più viva, più coraggiosa, si staccò dal resto e prese a muoversi con grazia, come una creatura viva.
Giuseppe la fissò, incuriosito.
Aveva un muso allungato, un dorso arcuato, e una lunga coda che sembrava pronta a colpire da un momento all’altro.
E in un lampo di intuizione infantile, quella che non viene dal pensiero, ma dal cuore, Giuseppe la riconobbe.
Era un coccodrillo.
Un coccodrillo fatto di cielo.
Un coccodrillo che non strisciava nel fango ma volava, libero, luminoso, nell’azzurro più alto del mondo.
Giuseppe si alzò di scatto, con gli occhi che gli brillavano di stupore puro, incontaminato, ingenuo, come se avesse appena scoperto un segreto custodito dall’universo.
“Guarda! Guarda! Un coccodrillo che vola!” gridò, con la voce piena di meraviglia, tremante di gioia.
Gli adulti, distratti, si limitarono a sorridere.
“È solo una nuvola, Giusè!” disse qualcuno.
Ma per lui non era solo una nuvola.
Era LA nuvola. La sua.
In quel momento il mondo intero si raccolse in un solo battito: il cielo, la terra, il suo respiro, tutto vibrava insieme.
Giuseppe guardava e sentiva. Sentiva il cuore dilatarsi, come se non bastasse più a contenere tanta bellezza.
Il vento soffiava piano, e il coccodrillo sembrava muoversi davvero, aprire la bocca, scivolare tra le correnti come in un gioco silenzioso, sembrava inseguire qualcuno.
Giuseppe gli parlava a voce bassa, come si parla a un amico invisibile. Aveva paura lo prendessero per pazzo.
E per un istante credette che quella nuvola lo guardasse e volesse parlare con lui, scherzare, confidarsi.
Ma il vento è un pittore capriccioso, e la sua arte non resta mai la stessa. Pian piano, la nuvola cominciò a cambiare.
Il muso si ammorbidì, la coda si sfilacciò, il dorso si spianò.
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Il coccodrillo si sciolse nel cielo, dissolvendosi come un sogno che non vuole farsi ricordare. Giuseppe restò immobile, con il dito ancora puntato verso l’alto, mentre la figura scompariva. Non pianse. Ma dentro di lui accadde qualcosa: un piccolo nodo, dolce e misterioso, si formò nel petto.
Era la sua prima nostalgia.
La prima volta in cui scoprì che anche le cose belle finiscono, ma lasciano dentro una luce che non si spegne.
Quella sera, a casa, Giuseppe guardò ancora una volta il cielo dalla finestra. Le nuvole non c’erano più, solo il buio e qualche stella timida. Ma nella sua mente, sopra il tetto, il coccodrillo di vapore continuava a volare, tranquillo, eterno.
E lui, prima di addormentarsi, gli sussurrò piano:
“Buonanotte, coccodrillo del cielo.”
Da quel giorno, ogni volta che sollevava lo sguardo, Giuseppe cercava nel cielo forme familiari e faceva di tutto per dipingere con gli occhi e con un dito che mirava al cielo.
Un leone, un castello, un volto, un drago, ma nessuna nuvola era mai come la prima che aveva visto trasformarsi davanti ai suoi occhi, facendo nascere in lui una grande meraviglia.
Eppure, ogni volta, provava lo stesso fremito, la stessa dolcezza che pungeva il cuore.
Capì, anche se non sapeva dirlo, che lo stupore è un dono fragile, che vive solo in chi sa guardare con occhi puliti.
Gli anni passarono.
Giuseppe crebbe.
Le nuvole divennero “condensazione”, i coccodrilli “rettili o anfibi”, il cielo “un fenomeno atmosferico”. Eppure, in certi pomeriggi, quando la vita rallentava e l’aria sapeva ancora d’estate, gli capitava di fermarsi, di guardare in su, e di sorridere. Cercava il suo coccodrillo. Non sempre lo trovava, ma bastava cercarlo per sentirsi di nuovo bambino.
Un giorno, da uomo ormai cresciuto, con le mani segnate dal tempo e un bambino accanto a sé, si ritrovò in un prato.
Il bambino, correndo, alzò gli occhi e gridò con la stessa voce che un tempo era stata la sua:
“Papà! Guarda! Un coccodrillo nel cielo!”
Giuseppe era lì accanto, sdraiato.
Si voltò, e per un istante il tempo si fermò.
Lì, proprio sopra di loro, una nuvola allungata, curva, viva, galleggiava nel blu. Era lei. O forse era un’altra, ma portava lo stesso battito. Lo stesso incanto.
Giuseppe sorrise, senza parlare.
Lasciò che il bambino guardasse, che ridesse, che indicasse, che sognasse, che si meravigliasse.
Non si avvicinò e non gli spiegò nulla.
Perché aveva capito che lo stupore non si insegna, si tramanda in silenzio, come una luce che passa di mano in mano. E mentre il vento muoveva piano la nuvola, il bambino rideva, e l’uomo che era diventato Giuseppe sentiva dentro di sé la voce del bambino che era stato.
E allora comprese che la meraviglia è ciò che resta quando tutto il resto passa, che ogni “prima volta” è una ferita dolce che non guarisce, e che la vita, tutta la vita, non è altro che un lento, infinito, commovente cercare il proprio coccodrillo nel cielo.
Giuseppe tornò a casa felice, accese il suo computer e con il tremolio di una candela che disegnava ombre sui muri della camera da letto, scrisse ciò che per lui avevano significato quelle nuvole e quello stupore che, dopo anni, aveva di nuovo incontrato negli occhi di quel bambino.
Lo stupore della prima volta.
C’è un momento, nella vita di ogni essere umano, in cui tutto comincia. Un momento che non si può raccontare fino in fondo, perché appartiene a quella parte del cuore dove il linguaggio non è ancora nato.
È l’istante preciso in cui un bambino apre gli occhi sul mondo per la prima volta e per la prima volta, incontra lo stupore.
Non ci sono parole, non c’è memoria.
C’è solo luce, stupore, presenza. E in quell’incontro muto tra l’ignoto e la purezza nasce la meraviglia.
Il bambino non sa cosa sia “già visto”, non conosce la noia, né la fretta, né la distanza. Ogni cosa che incontra lo tocca, lo attraversa, lo scuote, lo spaventa, lo rende felice.
La prima volta che vede la pioggia, quella danza trasparente che cade dal cielo, non sa che fa parte della vita, non sa che bagna. Sa solo che esiste, che scende, che luccica, che canta.
Allunga la mano e sorride, come se toccasse un segreto antico. E in quel gesto semplice, fragile, c’è tutto il mistero del vivere: il desiderio di capire, e nello stesso tempo, la capacità di lasciarsi incantare, senza capire.
Lo stupore è un atto di amore, un modo di dire al mondo: ti vedo. E il bambino, nella sua innocenza, ama tutto ciò che vede, senza ancora sapere perché.
Ama la polvere che brilla in un raggio di sole, il battito delle sue stesse mani, il suono della prima parola, ama il colore azzurro, le gocce che cadono dal rubinetto, il sole, la luna.
Ama persino ciò che lo spaventa, perché ogni cosa, anche la paura, è una porta verso l’infinito. Per lui, ogni “prima volta” è un piccolo universo che nasce dal nulla.
Ogni cosa è nuova, viva, sacra.
E noi adulti, guardandolo, sentiamo dentro un tremito.
Perché nel suo sguardo ritroviamo qualcosa che abbiamo perduto. Un tempo in cui la vita non era un insieme di abitudini, ma un susseguirsi di miracoli.
In cui ogni giorno era un dono mai uguale, un cammino verso ciò che non si conosceva. Poi abbiamo imparato a dare nomi, a spiegare, a ordinare, a dominare.
Abbiamo creduto che capire fosse abbastanza.
E in cambio della certezza abbiamo smarrito la meraviglia.
Eppure, dentro di noi, lo stupore non è morto.
È solo nascosto, in silenzio, come un piccolo seme sotto la neve. Resta lì, in attesa di un gesto, di un odore, di una luce che lo risvegli, di un suono, di una nuvola.
A volte riemerge all’improvviso: davanti a un tramonto che incendia il cielo, a un bambino che ride senza motivo, al profumo di una pioggia d’estate che ci riporta indietro nel tempo, nell’ascoltare una canzone che avevamo rimosso ma che già dalle prime note iniziamo a cantare, meravigliandoci del fatto che non ci siamo mai dimenticati le parole.
In quei momenti, per un istante, il mondo torna a essere nuovo. E noi, anche solo nell’attimo di un respiro, torniamo a essere bambini. E sta proprio lì la vera magia: il riuscire a meravigliarsi ancora, fermarsi un attimo e, nonostante il nostro tempo e la nostra storia ci porti a correre, correre, correre sempre più veloce in un mondo che ci vuol sempre più veloci e scattanti, riusciamo a meravigliarci.
Forse la saggezza non è smettere di stupirsi, ma imparare a stupirsi ancora, dopo tutto. A guardare il mondo non con gli occhi dell’abitudine, ma con quelli del cuore.
A ricordarsi che nulla è scontato: non la luce, non l’amore, non la vita che scorre dentro di noi.
Lo stupore è la radice della gratitudine.
È ciò che ci tiene vivi anche quando tutto sembra uguale.
È il respiro dell’anima che riconosce la bellezza nelle cose semplici: un sorriso, un battito, una voce, una melodia.
E allora comprendiamo che crescere non significa perdere lo stupore, ma portarlo con sé in un modo diverso: più silenzioso, più profondo, più consapevole.
Perché ogni volta che un bambino scopre qualcosa per la prima volta, il mondo rinasce con lui.
E in quello sguardo che si apre, puro, tremante, infinito, c’è la memoria di ciò che siamo stati e la promessa di ciò che potremmo ancora essere: anime capaci di meraviglia, cuori che non smettono di dire, sottovoce:
“Guarda… quello lassù in cielo è un coccodrillo!”
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