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Accocchiamo

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Quattro ragazzi alle soglie dell’età adulta, sullo sfondo un’anonima città italiana. A legarli sono le connessioni dell’amicizia, ad accomunarli le corrosive catene della droga. Giovanni decide di scappare dalla sua quotidianità per non affrontare una scelta difficile e la propria dipendenza. Anche se questo significa abbandonare Vincenzo, il suo migliore amico, vittima della realtà in cui è cresciuto. In treno Giovanni conosce Chiara, anche lei in viaggio senza una meta precisa, ma con il forte desiderio di riuscire a superare un profondo dolore. Nel frattempo, sulla panchina della stazione della città di B., Vincenzo propone di “accocchiare” a Luca, che ha appena visto la sua amica partire per chissà dove. “Accocchiamo” è una parola che significa tante cose. A B. è una domanda alla quale molti adolescenti hanno dovuto rispondere. Spesso è un bivio. “Sì” è la risposta che ti avvicina al mondo della droga.

 

La recensione di Rocco Rossitto

Una storia di amicizia, di amore, di amore per la vita. Una storia che racconta la vita, con le sue tragedie, i suoi problemi, ma anche i suoi colori, i campi di grano, il cielo, le stelle. Una vita che a volta deve attraversare il dolore, l’umiliazione, l’annullamento, l’offesa per poter di nuovo sentire la gioia. Bella da vivere quando hai un amico con cui smezzare una Lucky Strike blu di notte e tacere, per dire quello che le parole altrimenti potrebbero solo svilire.

Giovanni, il protagonista, avverte con la sua sensibilità ed intelligenza quanto la vita sia gravida di pesi e contrappesi, bivi e scelte che possono rivelarsi fondamentali. Sente il peso delle aspettative e dei doveri, nei confronti della famiglia ma anche della società, ma sente più forte – e questa è per lui una fortuna – l’istinto a vivere secondo il suo modo di essere e capisce in tempo che è necessario tendere alla felicità. Tale consapevolezza gli è possibile anche grazie all’incontro con Vincenzo, suo migliore amico e compagno di avventure e Chiara, una ragazza all’apparenza fragile, ma di una forza travolgente, capace di rompere gli indugi di Giovanni. E poi c’è Luca, buon amico di Chiara, che grazie alla conoscenza di Vincenzo e alla sua curiosità conoscerà una fetta di mondo a lui ignota ed insieme troveranno conforto in questa nuova amicizia.

Un libro, Accocchiamo, che ci fa tornare ventenni, perché tutti ci siamo sentiti così, persi ma anche capaci di ogni cosa, e ci ricorda da adulti quale fragilità si cela dietro gli schermi e gli schemi, i silenzi, le assenze dei ragazzi. Di come tutto nella nostra vita sia sempre in bilico, ma anche come l’amore per la bellezza, l’affetto vero per chi ci sta accanto, possano sempre offrirci una chance e aiutarci ad essere liberi e felici. In fondo, basta poco: “Attraversarono un campo, tra il fruscio delle spighe gentili. Erano migliaia di carezze leggiadre, avanti e indietro, sfregavano piano le ginocchia, avanti e indietro, musicando dolcemente come infinite corde di arpa”.

 

 

Prologo

Il mio primo romanzo l’ho cominciato a scrivere così. Su un volo, in viaggio verso le lande selvagge della Malesia. Avevo quindici anni, una vita tranquilla. Potevo permettermi un viaggio spensierato.

Il mio secondo romanzo inizia così. Su un volo, in viaggio verso le tenebrose scelte che decideranno il mio futuro. Ho diciassette anni, una vita tormentata. Devo partire, fare questo viaggio attraversando le oscure alchimie nella mia testa. Ho bisogno di fare luce su ciò che voglio. Parto senza certezze, alla ricerca della felicità perduta. Io sono una di quelle persone che, per capire se stesse, hanno bisogno di scrivere, scrivere tutto ciò che rimbalza caoticamente nella mente. E ora scrivo. L’aereo che mi portò in Malesia doveva essere più arioso di questo. Lì avevo trovato lo spazio per poggiare il computer sul tavolino, accavallare le gambe e rilassarmi al ticchettio dei tasti. Ora, invece, sento la tastiera schiacciarmi le costole, le ginocchia premono contro il sedile che ho di fronte. E non è affatto piacevole sentire il petto comprimersi, piegare i gomiti alla maniera dei bambini che insultano altri bambini imitando le movenze di una gallina, e stare attento affinché il passeggero al mio fianco non sbirci curioso. È la mia testa, sono i miei casini. Non voglio intromissioni.

Cazzo, c’è una persona, solo una, che ha la chiave per aprirmi. Se lo facesse, vedrebbe il mio intestino, ormai vuoto da giorni, attorcigliato e ingarbugliato attorno al cuore. Se lo avesse fatto, probabilmente non sarei qui. Non sarei su questo aereo a cercare risposte lontano migliaia di chilometri da casa. A cercare un’altra casa. Anzi, voglio essere minuzioso: a cercare un luogo dove sopravvivere, perché di casa io ne ho soltanto una e nessun posto potrà mai sostituirla. Probabilmente andrò ad abitare luoghi dove un letto mi consentirà di dormire, ma non di sognare, cucinerò cibi memori della cultura culinaria di un italiano, ma avranno un altro sapore. Lo stesso che deve avere il veleno. E io l’ho provato, il veleno. Sono giorni che dentro di me gocciola un liquido nero, denso, che mi stordisce per pochi attimi. Ho iniziato a fumare. È un tranquillante bugiardo. Ti soddisfa, ti acquieta per qualche minuto. Ma in cambio si prende la tua libertà di farne a meno.

C’è una persona, solo una, che ha l’antidoto. Se lo usasse, capirebbe la mia tristezza. E io non sarei qui a desiderare l’atterraggio per accendere un’altra sigaretta. Magari ne fumerei un’altra, ma solo con quella persona. Al silenzio. Al buio. L’ho fatto. Ho ascoltato l’effimero scoppiettio della carta che brucia lentamente, mentre il barlume rosso vivo schiariva il mio profilo. E il suo profilo. Non riuscivo a scorgere un granché al chiarore rosso e balbettante della punta della sigaretta. Ma di una cosa sono certo. Avevamo entrambi un volto felice. Quanto vorrei essere lì, seduto al posto del conducente, nell’auto accostata al riparo dalla gente, con questa persona di fianco. Pagherei oro. Ne ho, ne ho abbastanza per vivere. Non so per quanto tempo. Ma abbastanza per vedere quella persona terminare la scuola, per scrivere qualche altro libro, vederlo tra gli scaffali di una libreria, sul comò di qualcuno, vederlo sporgersi timidamente dalla borsa di una donna. E se quella donna sarà una perfetta sconosciuta, avrò realizzato il mio sogno. Potrei definirmi davvero uno scrittore, uno scrittore di quelli seri, che vengono letti perché il loro libro sa tenere compagnia nei momenti di solitudine. È importante che quella donna, tuttavia, non mi conosca. Altrimenti nella lettura entrerebbero in gioco altre motivazioni, tra le quali la curiosità o, peggio, la pietà.

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Dunque questo viaggio non mi deve portare alla ricerca dell’oro. Assodato. Devo trovare la felicità, la pace. Solo quelle. Dev’essere bello sentirsi speciali. Sentirsi realizzati per aver fatto qualcosa di straordinario, nel senso di fuori da ciò che è ordinario e quotidiano. Laurearsi in un paese straniero, in un’università prestigiosa, dev’essere qualcosa del genere. E io ho provato, so che significa compiere imprese che ribaltano i pronostici della vigilia, che sbalordiscono, che ti fanno sentire una spanna sopra la normalità. È bello, ma non è ciò che cerco. In questo momento vorrei la quotidianità, la semplicità di un sorriso. Non ho bisogno di altro. Quanto tempo è che non sorrido? Non lo ricordo, il tempo l’ho fermato a periodi più sereni. Ho smesso, così, di contare i giorni.

Capovolgete la clessidra della vita; girala tu, gioia mercenaria, scomparsa tra la sabbia caduta; voltala tu, tempo infame, che tutto mi hai dato e ora tutto vuoi indietro. Vorrei tornare indietro. Vorrei rifare tutto da capo. Esattamente alla stessa maniera, ripeterei il periodo che va da quando quella persona mi ha aperto, con la sua chiave, la prima volta, a ieri. Lo ripeterei infinite volte. Ieri che non c’era il timore del futuro, ieri che il presente era meraviglioso e mi distraeva da tutto il resto. Ansia, non la conoscevo. Paura, non è mai stata così veemente e prolungata, così presente dentro e fuori di me. Ho avuto paura, ma non mi sono mai allontanato così tanto da essa da non avere più la facoltà di estinguerla. Ora sono lontano. Devo capire come fare a sconfiggerla, caricare le armi, tornare e abbatterla. Per sempre. E poi il sole tornerà a splendere.

Giovanni

Introduzione

«Come ti chiami?»

«Questo non ha importanza.»

«E allora dimmi… chi sei?»

«Hai del tempo?»

«Sì!»

«Siediti: è una lunga storia…»

1. Fai una

Silenzio. Tra le ragnatele di asfalto che asfissiano la città di B. non si poteva scorgere altro, se non il buio. Un velo di quiete avvolgeva palazzi e giardini. Non c’erano stelle in cielo, ma doveva essere notte. In caso contrario, Giovanni doveva essere impazzito. Le tenebre erano inequivocabili, ma può essere questa una ragione sufficiente a provare che fosse notte? Di certo non era mattina, eppure Giovanni si rifiutava di ammettere che fosse notte.

È possibile che l’assenza di una cosa implichi necessariamente la presenza di un’altra? O un dettaglio custodisca qualcosa di ben più grande? Sì, matematicamente è possibile. Se un numero, per esempio, non possiede sottomultipli, è inevitabilmente un numero primo. Oppure, se due angoli di un poligono sono concavi, quella figura piana non potrà mai essere un triangolo. Tuttavia non c’è nulla di più discosto dalla matematica del cuore. E se le questioni poste in precedenza sono vere per numeri e geometria, per Giovanni era tutto sbagliato. Il sole era tramontato da un pezzo, il cielo pareva essere intriso di pece, tuttavia per Giovanni quella cosa nera che si dipanava tutt’intorno non era una notte. Dov’erano le stelle? Cos’è una notte, se non il tempo per rivolgere verso le stelle i propri pensieri, proiettare lassù le proprie speranze e ritrovarle lì, in alto, ogni notte? Cosa, se non le stelle, può far luce sui sogni? Per Giovanni, quella non era una notte.

Scivolò via di casa senza far rumore. Nessuno si accorse della sua assenza, nessuno si sarebbe accorto della sua presenza. Passeggiava senza meta. È dolce partire senza sapere dove dirigersi, perché si parte per il gusto di partire, non di arrivare. I cammini si spianano camminando. Non c’è strada più bella di quella che tu puoi tracciare posando i piedi dove nessun altro li ha posati prima. È andando che si conosce. Così Giovanni andava. Percorreva le tetre vie voltando a destra quando il cervello gli suggeriva di girare a manca, svoltando a sinistra quando la strada alla sua destra pareva troppo ovvia.

A un certo punto, bighellonando per la città, scorse dritto davanti a sé una luce tenue e fioca: intermittente, tinteggiava di vermiglio quel punto lontano. Giovanni fu preso da un’improvvisa curiosità che, inevitabilmente, interruppe il suo andare a zonzo. Smise di voltare, ora tendeva dritto davanti a sé. Benché fosse attratto da quella torcia che scherzava con l’oscurità, il colpo di tosse di qualcuno lo intirizzì e Giovanni piantò i piedi nel bel mezzo di un incrocio. Non aveva considerato che il movimento di luce in fondo alla strada potesse significare che qualcuno aveva dimenticato un cero acceso e l’aveva accuratamente sospeso in aria, opzione più che improbabile; oppure che lì, a giocare con il chiarore scarlatto, doveva esserci una persona. Un altro colpo di tosse. Ora, con gli occhi che si erano abituati all’assenza di luce nel viottolo senza uscita, Giovanni riuscì a intravedere due sagome. Si diresse verso di loro, mentre un odore familiare, simile a quello della carne che cuoce sulla brace, lo inebriava. Procedeva ormai per inerzia: i polmoni, già saturi di quell’odore, ne chiedevano altro, sempre di più. Fu notato da quei due. Anzi, dovevano essere in tre, considerando l’ammasso di carne e pezze che giaceva sull’asfalto, celato da un cassettone per i fili elettrici.

«Avete una dieci euro?»

«Sì, tieni.»

«Ma sta bene quel tipo lì a terra?»

A questa domanda di Giovanni non seguì risposta. Allora si voltò e, dopo aver ringraziato, riprese il suo cammino. Mentre si allontanava, fu richiamato dal tipo. Giovanni non sentì o, con più probabilità, finse di non sentire. Stava realizzando di aver commesso un grave errore.

«Ora ti uccido» gridò una seconda voce, non udita nel breve botta e risposta di qualche attimo prima.

Giovanni proseguì, spingendo sulle punte dei piedi con un nervosismo mascherato che confluiva nei polpacci e induceva adrenalina e terrore nella sua marcia.

«Fermati, coglione!» sbraitò l’individuo che aveva minacciato di ammazzarlo.

Il sangue pulsava a ritmo convulso e pareva raccogliersi nelle tempie, gonfiarle come vele e poi svuotarle. Il ciclo si faceva incalzante, arrivando a coinvolgere le orecchie, che presero a fischiare per l’ansia. Non riusciva, Giovanni, a girare la testa per guardare ciò che stava accadendo alle sue spalle. Spinse i suoi occhi in alto, ancora una volta, in cerca di stelle. Poi vide due luci: erano due fari e si arrestarono davanti a lui. Giovanni sogghignò. Aggirò la carrozzeria della Mercedes che ingombrava tutta la careggiata e aprì lo sportello. Non poteva non riconoscerla: a B. solo lui ce l’aveva di quel grigio satinato, con il musetto truccato in stile auto da corsa.

«Attento!» sobbalzò il conducente urlando.

«Cosa c’è, Vince’? Ahi, cazzo!»

Giovanni fu raggiunto da un pugno sulla nuca. Ruzzolò con metà corpo sul tappetino interno dell’auto mentre le gambe ciondolavano giù, verso l’asfalto. Si tenne agganciato al sedile per non cascare del tutto. Vincenzo scese. Si diresse gonfiandosi contro il tipaccio che nel frattempo stava sbattendo violentemente la portiera della macchina, cercando di fracassare i femori del ragazzo disteso a pochi centimetri dal suolo. Aveva gli occhi iniettati di sangue e schiumava dalla bocca farneticando parole che, benché incomprensibili, lasciavano trapelare un senso d’ira. Giovanni, stramazzato, cercava di rimettersi in piedi, inutilmente, ed emetteva lamenti di dolore. Ma il brutto ceffo non fece in tempo a sbattere una terza volta la portiera che Vincenzo gli sferrò un calcio nei testicoli sbraitando: «Qua comando io, coglione!».

L’uomo si accasciò a terra in ginocchio. In quegli attimi Giovanni riuscì a strisciare in auto e a chiudere la portiera, mentre l’amico, digrignando i denti, sferrò un altro calcio, questa volta sul volto del malvivente, che non si mosse più. Ora c’era un silenzio totale. Vincenzo rientrò in auto.

«Che cazzo ci facevi qua e perché t’impicci con il Ferro? Sei diventato matto?»

«Metti la sicura!»

«Come dici?»

Un frastuono terribile frantumò la calma e il finestrino anteriore dal lato di Giovanni.

«Metti ’sta cazzo di sicura, porca puttana!»

Vincenzo inserì la retromarcia e schiacciò il pedale dell’acceleratore fino in fondo.

«Corri corri corri!»

«Chi cazzo sono?»

Giovanni non rispose. Piuttosto si preoccupò di inserire la sicura da sé a tutti e quattro gli sportelli. Vincenzo invece sterzò alla cieca sulla prima strada ad alta velocità che incrociò. Per fortuna era notte fonda e nel paese di B. la vita termina poco dopo il calare del sole. Le strade erano deserte. Dopo cinque minuti di folle corsa a cento chilometri orari per le vie cittadine, i due erano abbastanza lontani e al sicuro per ricominciare a parlare.

«Come stai?» chiese impensierito Vincenzo, avendo intuito dal silenzio dell’amico che era ancora sotto shock.

«Tutto a posto. Che ci facevi in giro da quelle parti?»

«Sta a me chiedertelo. Perché il Ferro ce l’aveva con te? Sei andato fuori di testa? Ti sei messo contro la merda…»

«N-non mi… mi ero accorto…» balbettò «non credevo fosse proprio lui. Ero lì per prendere una dieci euro. E l’ho presa. Poi ho fatto una domanda.»

«Giovanni, lo sai che non devi mai chiedere nulla a quei tipi.»

«Lo so, Vince’, ho fatto un grave errore» esclamò Giovanni, passandosi una mano tra i capelli e poi tastandosi la nuca. Controllò la mano, non c’erano tracce di sangue. Vincenzo vide la preoccupazione che attanagliava l’amico e si fermò una volta trovato un posto sicuro. Posteggiò l’auto in quello che somigliava a un grande autosilo svuotato da ogni sorta di vettura. In realtà si trattava della vecchia stazione. Vincenzo aveva parcheggiato l’auto sui binari ormai in disuso.

«Fammi dare un’occhiata.» Accese il faretto interno della sua macchina e, a mo’ di scimmia, cominciò a spulciare il capo del suo amico. Per fortuna non c’erano segni visibili di lesioni. Giovanni sembrava, però, ancora molto agitato. In realtà si stava arrovellando per il finestrino andato in frantumi.

«Te lo pago io» disse con sincero rammarico.

«Ma va!» lo interruppe Vincenzo. «Lo sai che mio padre vive di queste cose.»

Si fecero entrambi una grassa risata. Il papà di Vincenzo era il meccanico, carrozziere e tuttofare di B. Il più famoso. Si vociferava che gestisse traffici illeciti di pezzi di ricambio ricavati da automobili rubate, con i quali arrotondava. Anzi, probabilmente il racket delle vetture rubate e delle esportazioni nei Paesi balcanici di pezzi di ricambio originali, motori e altro costituiva la principale fonte di guadagno per lui e gli altri dieci nuclei famigliari che lavoravano in quella catena di saccheggio. In realtà, non era solo una diceria, ma verità palese agli occhi di tutti e resa legittima da frasi del tipo: “La mafia c’è dove lo Stato manca”, “Se ci fossero meno imposizioni fiscali…” o peggio “Per arrivare a fine mese devi essere illecito”. Sentenze ripetute un po’ da tutti quelli che coabitavano in quell’ambiente, dai sindaci ai poliziotti, dalle fiamme gialle ai grandi contrabbandieri. Quello della mafia è un ammortizzatore sociale, ed è molto più fruibile delle “social card” o altre cazzate varie, direbbe qualcuno. Sbagliando. Eppure la filosofia in voga al momento tra la stragrande maggioranza delle persone, che con tacita convivenza rendono possibile il dilagare di focolai mafiosi, è che evadendo un po’ di commi e di leggi si riesce a distribuire il pane dove rischia di mancare il cibo e la luce dove la bolletta della corrente elettrica sarebbe troppo alta per essere pagata.

«Avevi detto che eri lì per prendere una dieci euro, eh, Giovanni?»

«Sì.»

«E cosa aspetti? Fai una!»

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Commenti

  1. asiapaglino

    La grande premessa che voglio fare inizialmente, è che questo libro avrebbe meritato anche un voto alto, ma al suo interno viene presentata una scena che, da donna e da persona, non posso accettare e su cui non posso sorvolare.
    Sostanzialmente, in uno dei capitoli, la coprotagonista rimane vittima di uno stupro, cosa che però viene raccontata in un modo assolutamente errato, senza nessun genere di cura o di coscienza dei fatti.
    Voglio citare alcuni passi del testo per far capire di cosa io stia parlando.
    “Anteriormente Chiara non soffriva, non era più vergine […] Anzi, lo stantuffare delle dita del romeno genuflesso la distraevano dal dolore che provava per la dilatazione forzata dell’ano. Inconsciamente iniziò produrre versi di piacere mentre l’uomo, scovato il clitoride della ragazza e accortosi dei brividi di lei, cominciò a insistere su quel punto erogeno.
    […]
    Ogni tanto spingeva il glande turgido contro il ventre di Chiara, la quale era ormai in preda all’eccitazione e non faceva più caso ai contatti dei tre uomini, piuttosto avvertiva sensazioni erotiche che le causavano reazioni involontarie […] La ragazza era in estasi.”
    Non contesto la scelta di scrivere una scena del genere, quanto la retorica fortemente sessista che ne salta fuori, come se una donna stuprata riuscisse a provare piacere.
    La cosa che fa specie di più è che l’autore racconta il resto del romanzo con una meticolosità impressionante, dove sostanzialmente si legge la storia di due amici che temporaneamente dividono le loro strade, e dove gli argomenti principali sono quelli del ritrovare sé stessi, dell’utilizzo e, in seconda parte, dello spaccio della marijuana.
    Ecco, in questo romanzo possiamo imparare i vari tipi di erba e i vari modi con cui poterne fare utilizzo, l’autore ci insegna a “riconoscere” con diversi sensi dell’erba di qualità, imparare un sacco di vocaboli del campo, come approcciarsi a uno spacciatore e come non farsi fregare da quest’ultimo; in compenso ci viene detto che una donna stuprata prova estasi, cosa che nel 2019 è assurdo e inaccettabile anche solo a livello di pensiero.

  2. (proprietario verificato)

    Troppo spesso associamo l’idea di “autore esordiente” alle richieste pressanti da parte di un perfetto sconosciuto per avere un post o un po’ di visibiità per un libro autopubblicato, pieno di strafalcioni e ben lontano dall’idea di “capolavoro” con cui ci viene venduto. Troppo spesso, purtroppo, questo genere di comportamenti danneggia non solo il singolo autore, ma anche tutta la categoria degli esordienti, di quelli che hanno qualcosa da dire e che cercano il loro spazio nel mondo letterario di oggi.

    In questo mare magnum di presunti capolavori, ho trovato Felice Florio e Bookabook. Lui, Felice Florio, è persino più giovane di me: è un giornalista, pieno di sogni e di voglia di mettersi in gioco. Loro, Bookabook, sono una piattaforma su cui vengono lanciate campagne di crowdfunding per finanziare la pubblicazione di un libro. Ovvero: lo pubblichiamo, il tuo libro, sì, se trovi un certo numero di persone disposte a leggerlo.

    Felice Florio ha scritto Accocchiamo, che io neanche sapevo cosa significasse. E per carità, magari non vincerà il Premio Pulitzer, ma credo che Florio abbia scritto un libro bello, un libro che valga la pena essere letto.

    Accochiamo parla di droga – e lo ammetto candidamente, io con questo libro ho realizzato che di droga non ne sapevo nulla. A parte il “è brutta, è cattiva, fa male”, non ne sapevo nulla – e forse è un vanto, il fatto di non essere mai entrata nel mondo della droga, ma forse non mi consente di capire certi meccanismi, o di provare empatia verso i miei futuri ipotetici pazienti. E di dipendenze bisogna parlare – anche all’interno della formazione di un medico-wannabe come me.

    “Non dire stronzate Giovanni. Uno non si droga perché è troppo fantasioso o intelligente. Uno si droga e basta. E soprattutto, una persona sceglie di drogarsi. Almeno la prima volta, senza attenuanti della dipendenza che crea o del piacere che infonde. Un individuo, la prima volta che sceglie di drogarsi, lo fa consapevolmente. Lo fa perché un amico gli ha chiesto di “accocchiare”, è semplice e comune“.

    Accocchiamo parla di quattro ragazzi – due coppie che si intrecciano, essenzialmente. Da un lato Giovanni e Vincenzo, che appartengono al mondo della droga e ne conoscono le dinamiche; dall’altro Chiara e Luca, che invece – un po’ come me – di droga non sanno nulla. Chiara incontra Giovanni, Vincenzo incontra Luca – e i destini di questi quattro ragazzi si intrecciano tra città imprecisate e nuove esperienze.

    Luca, in particolare, è il personaggio che ci consente di capire, di entrare nel mondo di Accochiamo, di colmare le nostre lacune – perché Luca, come me, non sa nulla del mondo della droga – e perché Luca è spinto a imparare. Ed è così che anche noi conosciamo termini, modi, effetti, riti – con la stessa naturalezza con cui, in romanzi ben più leggeri, si seguono le vicende di una qualunque ragazzina alle prese con una storia d’amore.

    Vincenzo fa da mentore a Luca in questo mondo – e in questo mondo rimane invischiato, in modo forse un po’ prevedibile, ma in un modo che ci consegna un messaggio importante: non si gioca con i pezzi grossi, in questo mondo, per nessun motivo.

    Chiara e Giovanni, invece, fanno un percorso inverso: si allontanano dalla città, viaggiano, si conoscono, si piacciono. Fanno anche degli errori – errori per cui, a un certo punto, viene voglia di prenderli a schiaffi sonoramente – ma ci insegnano a rimetterci in piedi, a cercare i lati positivi anche nei momenti più bui, e a andare avanti, con un pizzico di coraggio e un pizzico di incoscienza. E alla fine ci affezioniamo, a questi ragazzi che stanno cercando il modo giusto per muoversi nel mondo, nonostante tutte le difficoltà.

    Tra l’altro, Accocchiamo è un romanzo scritto in modo ricercato, in uno stile che mostra tutta la passione di Florio per la scrittura. Anche quando la scrittura le vicende si fanno più cupe, anche nelle scene più difficili da digerire, Florio usa uno stile curato che ci riporta a galla, che ci da speranza in un lieto fine. Certo, tutto questo mi ricorda molto lo stile di Alexandra Kleeman, stile che è stato criticato perchè troppo artificioso, troppo costruito, troppo poco spontaneo – ma possiamo dire, con un piccolo moto d’orgoglio, che questo italiano ricercato piace eccome, e suona in modo ben diverso dall’inglese artificioso sfornato dalle scuole di scrittura americane.

    Insomma: m’è piaciuto assai!

  3. (proprietario verificato)

    E’ tutto vero. “Accocchiare” è un’usanza che va molto in voga da queste parti. Ed è una tendenza che va fermata.

  4. Vincenzo Enrico

    (proprietario verificato)

    Sfogliare quest’anteprima è stato come farsi una canna, senza fumare ma leggendo.
    “Questa canna è un sogno paranormale. E’ la fonte dalla quale si abbevera la fantasia quando i fiumi sono arsi. Sono secchi come la gola che ne chiama ancora dentro di sé. Non odo voce dal vento. Non odo, sento un bruciore che lento avvolge e strugge il cuore”.
    Questo periodo si trova nella lettera scritta da uno dei protagonisti, Giovanni. L’ho letto dall’anteprima su bookabook.it.

  5. (proprietario verificato)

    Ho iniziato a leggere le bozze e penso che non mi staccherò dal pc finché non le avrò finite. Non potevo immaginare che, ancora oggi, alcune città italiane potessero vivere certe vicende legate alla malavita. Sembra di tuffarsi nel dopoguerra, invece i protagonisti di questo romanzo hanno appena finito il liceo. Per fortuna si sono salvati. Per ora davvero coinvolgente, vediamo l’epilogo.

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Felice Florio
Felice Florio, classe 1993, è nato e cresciuto nella provincia di Bari.
Dopo la laurea in Lettere, ha frequentato la scuola di giornalismo Walter
Tobagi di Milano. Scrive per la Repubblica, il Sole 24 ore e il Giorno.
"Accocchiamo" è il suo secondo romanzo.
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