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Alle tre del mattino, ora italiana

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Una mattina il mondo si sveglia senza parole. Nessuno è più in grado di articolare qualcosa di sensato, eppure tutto sembra procedere come al solito, senza caos, senza disordine. Il protagonista, un impiegato di banca che non riesce a smettere di stupirsi per le piccole cose, non si dà pace: vuole capire perché è avvenuto questo blocco della parola, che cosa lo ha scatenato.
In una sorta di pellegrinaggio per le vie di Torino, andiamo insieme a lui alla ricerca di qualcuno che si sia accorto del momento esatto in cui la parola è sparita, per trovare una verità forse irraggiungibile e riscoprire i gesti minimi e le piccole cose che ci circondano ma di cui, circondati dal rumore, non ci accorgiamo

 

Raccolte a tulipano le

cinque dita della mano destra,

altalenò quel fiore nella ipotiposi digito-interrogativa

tanto in uso presso gli Apuli.”
C. E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

A Mati e Ada,
andata e ritorno

CAPITOLO UNO

Poi uno cerca di ricordarsi quello che stava facendo, in questi casi.
Per esempio quando mia sorella ha telefonato per dirmi di andare a casa, che papà aveva smesso di respirare: Ma non correre, non respira più. In quel momento ero nell’ingresso di casa di mia suocera, erano le otto di sera, la televisione era accesa e stava passando uno spot della Opel con una ragazza bellissima che si lavava con la pompa dell’acqua e una canzone che diceva “Voglio solo te, in questo mondo”.

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Quando sono venute giù le due torri, l’undici settembre, ero in ufficio e vedevo in rete le quotazioni di borsa che crollavano e ho detto, credendo di essere spiritoso e arguto: Ma che succede, hanno rapito Bush? Poi la sera mia moglie in giardino rastrellava la terra su cui il giorno dopo avremmo seminato il prato. C’era il sole.
Quando mi ha telefonato un editore per dire che gli piaceva il libro che avevo scritto, che lo faceva ridere e lo commuoveva e per chiedermi se avevo fatto un corso di scrittura, No, perché? ho risposto, Perché hai un modo di scrivere i dialoghi, proprio come insegnano nei corsi di scrittura. Ero nel parcheggio di fianco al benzinaio Agip in corso Francia, al confine tra Torino e Collegno, era maggio ma non faceva ancora caldo, però io sudavo seduto in macchina e cercavo di registrare la conversazione con l’editore, schiacciando il pulsante sul lato del telefono, che era una cosa unica e non ci credevo tanto e allora volevo riascoltare, dopo. Poi il libro non l’avevano pubblicato.
Quando è successo, quel mattino, anche se sarebbe più giusto dire il mattino dopo, perché è successo nella notte, quando è successo, dicevo, è suonata la sveglia come sempre alle 6:15. Solo che, diversamente dal solito, emergevo da un sonno profondo,
come fosse ancora notte e la sveglia avesse suonato per sbaglio. Stavo sognando, non capita mai che sogni così avanti nella notte, quando è già mattino, quando sta per suonare la sveglia. Di solito alle sei mi sveglio e comincio a guardare i numeri rossi della radio, poi chiudo gli occhi e magari mi giro, poi due minuti dopo guardo di nuovo, poi chiudo gli occhi e penso alla giornata che mi aspetta, poi due minuti dopo controllo di nuovo l’ora e così via. Quando alle 6:15 la suoneria del cellulare parte, la spengo in meno di un secondo, perché sono già sveglio. Mia moglie tante volte non mi sente neanche.
Quel mattino no, stavo sognando. Sognavo che ero in macchina e stavo arrivando al casello di un’autostrada, o qualcosa di simile. C’era la coda e c’erano due caselli e non si capiva bene da che parte conveniva mettersi. Poi i due caselli diventavano uno e le due file di macchine si mescolavano un po’ e a un certo punto c’era un vigile, con gli occhiali, che fermava la macchina prima della mia, si arrabbiava, ma poi la faceva passare. Poi toccava a noi passare (dico noi perché ero in macchina con mia moglie e secondo me dietro c’era anche qualche figlio) e il vigile, che era ancora arrabbiato, ci fermava e diceva: No, no, così no! Adesso basta, adesso vi
fermate, adesso scenda. E io non capivo cosa voleva e cercavo di dirglielo, ma lui si spazientiva ancora di più e diceva:
Allora adesso basta, adesso mi spiega perché non ha la cintura e mi fa vedere la patente, e a quel punto mi accorgevo che non stavo guidando io, stava guidando mia moglie e la cintura me l’ero tolta perché, se mi aveva detto di scendere, come facevo a scendere dalla macchina senza togliere la cintura. Poi è suonata la sveglia.
Ho annaspato per cercare il telefono sul comodino e spegnere la suoneria e con fatica sono emerso dal sonno, come se cadessi fuori dalla macchina da cui il vigile voleva farmi scendere.
Poi i movimenti di tutte le mattine: tirare fuori le mutande, le calze, una maglietta pulita dal comò vicino al letto, aiutandomi con la luce del cellulare, pur sapendo che è impossibile distinguere i calzini blu da quelli neri e da quelli marroni in quel momento, e rimandando mentalmente a dopo l’eventuale cambio di colore. E come tutte le mattine sentire una punta di disgusto per la giornata che arriva, sentire che dal fondo di te qualcuno dice: Ma lascia stare, ma chi te lo fa fare, ma dormi, ma piantala lì. E ignorare quella voce, che tanto durante la giornata di solito passa, di solito mezz’ora e poi è passata.
Al bagno di sotto, cercando di non fare rumore, ancora i soliti gesti, quasi sempre nella stessa sequenza, cercando di non fare rumore, che mi piace pensare che gli altri dormano ancora un po’, qualche minuto.
Esco dal bagno e vado a chiamare Mafalda: una pacca, due pacche sul ginocchio; lei fa mmmm, io faccio mmmm, si alza.
Poi scendo in cucina, metto su l’acqua per il tè, apro le imposte, faccio uscire i gatti e metto i croccanti nelle ciotole (il fragore dei croccanti, come monete, nelle ciotole di metallo). Torno in casa, preparo le tazze per il tè, tutte in fila, e a quel punto di solito, quasi tutte le mattine, mi viene in mente la scena di Mouchette, di Robert Bresson, in cui lei versa il latte nelle tazze passando da una all’altra senza tirare su la bottiglia, rovesciando così un po’ di latte sul tavolo.
E i primi quaranta minuti vanno via così, tutte le mattine, un incastro di gesti e di tempi automatici che quella mattina ha subito delle battute di arresto, sì, dei tempi di risveglio un po’ più lunghi, ma che non si è fermato: il Rosso, che lo devo chiamare sempre due o tre volte, poi mia moglie, che dorme coi cani, poi Volpasso. A un certo punto abbiamo capito che c’era qualcosa di strano, ci siamo bloccati, poi ci siamo sbloccati. Abbiamo fatto colazione tutti insieme. E siamo usciti di casa: mezz’ora di ritardo.
Scendendo in auto dal paese alla città, al fondo della rampa, quel breve tratto di strada leggermente ripido che collega il paese al paese più vicino, in direzione della città, nel campo che si estende alla sinistra verso i muri del parco regionale, c’erano due ruspe che movimentavano grossi mucchi di letame fumanti, alti almeno sei metri. L’autoradio mandava musica classica, tutte le stazioni. Nel campo, oltre i mucchi di letame e le draghe, cento metri più in là, tre cinghiali correvano e grufolavano al bordo della strada.
A quel punto avevamo capito che c’era qualcosa di strano, anche perché avevamo dovuto salutarci a gesti, io e mia moglie
e i ragazzi. Ma avevamo fatto tutto il necessario per uscire all’ora di sempre, arrivare in orario a scuola e in ufficio, nonostante la
lingua curiosamente attaccata al palato e quei grugniti, quei gemiti che uscivano dalle nostre bocche. Un modo molto piemontese
di affrontare la questione.
A pensarci adesso, anche gli altri suoni di quella mattina hanno un rilievo diverso, come se avessero avuto un peso, una superficie,
una forma, un volume, da sentire non solo con le orecchie, ma con le mani, con la pelle, e da vedere, come se avessero una luce, un colore, come se si potessero muovere o comunque occupare uno spazio. Il cassetto del comò che scorre, legno su legno, e il suono soffocato quando lo chiudi, prima il cassetto delle mutande, tum, poi quello dei calzini, tum, poi quello delle magliette, tum. Il parquet che scricchiola sotto i piedi nudi. I pantaloni sulla sedia, con la cinghia lasciata nei passanti e la fibbia che tintinna quando li prendi. L’anta dell’armadio, con una vibrazione sottile quando si apre, e un suono più acuto e secco di quello dei cassetti quando si chiude.
Poi la porta del bagno di sotto, che fa una lieve resistenza a metà apertura e striscia contro il pavimento e produce un suono che mi ricorda quello dei vetri dell’auto quando vibrano insieme al motore, appena accendi. Lo scroscio della prima pipì del mattino, che cerco di direzionare in modo da non farla cadere dritta nell’acqua, ma di fianco, dentro la tazza, sempre per fare meno rumore, ma è un gesto irrazionale, visto il frastuono dello sciacquone un secondo dopo.
Tutti questi suoni, a pensarli ora, mi sembrano come una punteggiatura, le virgole, i punti, i punto e virgola, i due punti; come gli a capo in un testo scritto.
Mentre guidavo ogni tanto guardavo nello specchietto retrovisore a cercare lo sguardo di Mafalda, oppure mi giravo dalla parte del Rosso, per capire come si sentissero. Mi sembravano più che altro addormentati.
Al capolinea della metro c’erano capannelli di persone che cercavano di comunicare e quello è stato il primo contatto con gli altri, con gente che non fosse della famiglia voglio dire.
In questi capannelli ciascuno si sbracciava, si agitava, faceva dei versi, quella specie di gridolini striduli o quei muggiti bassi, quei mmmmm, hhhhhiiiiiii, ggggggghhhhhh, rrrrrrrhhhhhhh, a cui nel giro di poche ore, ma non lo sapevamo ancora, avremmo fatto l’abitudine.
I ragazzi, smartphone alla mano come sempre, si agitavano meno: l’agitazione sembrava aumentare in proporzione all’età delle persone.
E poi un gran chiamarsi a gesti, toccarsi, abbracciarsi. Una ragazza grassa piangeva con un libro in mano, vicino all’ascensore, ma forse per una cosa sua che non c’entrava niente con quello che stava succedendo attorno.
Quando siamo scesi nella metro i tornelli erano aperti e il fischio che precede la chiusura delle porte dei vagoni era costante, tanto che non sapevamo se salire o no. Siamo saliti.
Anche sui vagoni le persone cercavano di comunicare e facevano quei versi: a un certo punto, dopo che la metro era partita e aveva fatto due o tre fermate, un uomo dalla carnagione scura, con un giubbotto lucido, imbottito, mi ha afferrato per un braccio e concitato ha detto Hhhhhhhfffffffff! nel momento in cui si aprivano le porte e gli altoparlanti diffondevano la musica, le quattro note che accompagnano l’annuncio della fermata a cui sei arrivato. Ecco l’annuncio. L’uomo col giubbotto lucido voleva dire che c’era la solita musichetta, sol do re mi, le solite quattro note, ma non si sentiva la voce che annuncia: “Next station, Massaua”.
Niente.
Allora ho guardato meglio in faccia l’uomo col giubbotto lucido, per fargli capire che avevo capito, e lui ha annuito, sorridendo come chi vuol far capire che lui lo sapeva. Allora l’ho guardato come per dirgli Sai cosa, con quei denti sporgenti e quell’attaccatura di capelli? Ma poi ho pensato che non la finivamo più e ho lasciato perdere Lombroso, che non era adatto alla situazione, così ho detto solo Mmmmmm, poi mi sono girato e ho preso il libro nella borsa: non vedevo il motivo di non mettermi a leggere anche quella mattina, come tutte le mattine. Poi ho scoperto che un motivo c’era.
Hhhhhiiiiiii, ggggggghhhhhh, rrrrrrrhhhhhhh.

COSE CHE MI STUPISCONO SEMPRE
a) Quando bevo un bicchiere d’acqua naturale, fresca, subito dopo sento benissimo gli odori, come se avessi aperto il naso, anzi, come se prima non avessi mai avuto il naso e, dopo che ho bevuto il bicchiere d’acqua, avessi per la prima volta il naso.
b) Quando finisco il gelato ne vorrei sempre ancora un po’: Dai, solo più un cucchiaino. E mi viene in mente che, quando a diciannove anni ho iniziato a lavorare e avevo uno stipendio, compravo dei coni gelato grandissimi con tre o quattro gusti; oppure compravo un gelato, lo mangiavo, poi ne compravo subito un altro, lo mangiavo.
c) Dire che c’è “solo più” una cosa da fare, dire che si vuole “solo più” dormire, dire che è rimasta “solo più” una persona: non è italiano, è piemontese.

10 luglio 2019

Aggiornamento

"Alle tre del mattino, ora italiana" sbarca in libreria: 10 luglio - 18.30 - Libreria Trebisonda (via Sant'Anselmo 22, Torino). L'autore presenta il romanzo insieme al regista Daniele Gaglianone. Alle tre del mattino ora italiana torino

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Un parametro per valutare un libro, almeno per me, è il tempo che impiego a leggerlo. E questo l’ho letto in 2 giorni. Un altro è la sensazione che rimane quando lo finisci. Avrei voluto che continuasse, non tanto per la storia in sé ma per il piacere di una lettura fresca e divertente, piena di spunti di riflessione. Ho apprezzato il libro proprio per questo aspetto, la capacità di entrare con leggerezza nell’intimo fluire delle emozioni di un protagonista spiazzato da un evento inatteso e inspiegabile. Consigliato!
    Umberto

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Diego Finelli
DIEGO FINELLI è nato in Piemonte, dove vive in un piccolo paese vicino ai boschi. Scrive racconti, poesie e romanzi, tra cui: Primo: non entrare in banca (2005 - Stampalternativa) e Perché i matti (2016 - Neos Edizioni). È inoltre tra gli autori del Repertorio dei matti della città di Torino (2015 - Marcos y Marcos) e della rivista Qualcosa (2018 - Sempremai), a cura di Paolo Nori. Collabora saltuariamente, come blogger, con Il Fatto Quotidiano.
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