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Centonovantatré giorni

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Stella è solare, ha un lavoro che ama e vive felice con suo marito e suo figlio Jaco. A volte però non tutto va come ci si aspetta. Un triste cambio di rotta, la morte del secondo figlio Ethan poco dopo la nascita, la trascina in un baratro di silenzi e solitudine, rabbia e impotenza. L’unica via di fuga è la scrittura, che Stella utilizza come ponte tra due mondi, ma che non sarà sufficiente per resistere alla malattia.

A raccontare questa storia è la madre, una donna dotata di grande forza, che scrive per uno scopo: essere una spalla per altre madri che hanno condiviso la stessa sorte. Affinché non si arrendano all’imprevedibilità della vita e non smettano di sperare, affinché ritrovino l’amore perduto e non si sentano più sole.

Il suo posto nel mondo

Diventò quello il suo posto nel mondo, l’unico luogo dove trovava uno “strano senso di vita”. Perfino la terra, che conosceva alla perfezione il perimetro e il peso delle natiche, le ginocchia piegate e i piedi incrociati, sapeva che la posizione che assumeva ogni singolo giorno era immutabile. L’angolatura del corpo in relazione alla lapide era sempre la stessa, in modo tale da ottenere la visuale perfetta per i suoi fermo immagine. 

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 Nel profondo del suo inconscio non perse mai la speranza di riuscire a immortalare con il telefonino qualcosa di differente, ma l’unica variazione nelle sue centinaia di foto fu il divario di colori e genere di piante e fiori. Non aveva mai amato queste delicate forme di vita, ne collegava la visione a infinite distese di lapidi. Detestava accettare la morte come prosieguo della vita e apporre uno o più girasoli sulle lapidi dei suoi cari ogni qualvolta ritornava nel suo paese natio, le infondeva la stupida idea di rendere vivo chi ormai non c’era più. Il girasole rappresentava per lei il fiore della vita e trovava confortante sovrapporlo alla morte. Il fioraio del paese la chiamava la ragazza dei girasoli dal momento che lasciava la scia sulle lapidi di famiglia. Una distesa di quei fiori gialli era la chiara testimonianza del suo passaggio, un’indiscutibile prova del suo arrivo per chiunque passasse per un bacio scoccato e un segno della croce. Uno dei vani tentativi di esorcizzare il dolore che la divorava era quello di curare il suo giardino personale. Non si trattava di uno spazio comune posizionato dinanzi al proprio ingresso di casa, ma di uno di quelli dei quali t’impossessi, dal momento che una parte di te è sotto le tue stesse scarpe, al centro di un campo numerato, il sei. Affascinata dagli ornamentali e maestosi alberi di cipresso sparsi tutt’intorno, che quasi formavano una barriera messa lì a separarli dai mortali, ne ricercò il motivo che li accomunava nell’inabissale silenzio di ogni cimitero.
Per nessuna credenza biblica o dantesca di una vita dopo la morte, di un’anima che lascia il corpo, di un Paradiso, di una connessione tra la vita e l’anima, ma per una sua personale forma di devozione, Stella venerava quel cancello vecchio ruggine con su un grosso catenaccio. Quell’entrata secondaria rappresentava l’ingresso dal suo inferno al suo posto nel mondo. Inquietanti angeli, arcangeli, madonne di rame, bronzo e legno sovrapposti a lastre di marmo imponenti di cui, dalla sua prospettiva e accompagnate dalla suggestione di quell’interminabile silenzio, riusciva a percepire i movimenti, mentre una bic blu sporcava le pagine bianche del suo quaderno giallo, giallo come il suo fiore della vita. Iniziò a scrivere il giorno del primo mese di assenza del figlio, e finì per sentirne la quotidiana necessità nei giorni a venire. Si accomodava al medesimo posto e sporcava un foglio immacolato che si lasciava sporcare. Non parlava, non consolava, non utilizzava frasi cliché. Era come se parlasse con lui, se gli raccontasse i pensieri nascosti, le parole non dette. Si illudeva che lui percepisse quanto lo amava e quanto gli mancava. Al suo arrivo bisbigliava un saluto d’amore, poggiava la borsa al suolo, eliminava i fiori secchi rimpiazzandoli con quelli freschi, innaffiava l’amato giardino, si accomodava con l’innaffiatoio ancora tra i piedi, rollava un po’ di tabacco, impugnava la bic che sostituiva la sua voce ed entrava a tutti gli effetti nelle vesti di mamma fantasma. Una volta alla settimana raccoglieva la distesa di mozziconi, spenti e abbandonati ai piedi della lapide provvisoria. Suo figlio avrebbe saputo che lei era stata lì anche quando si sarebbe svegliato e non l’avrebbe trovata. Era sempre accompagnata da un venticello che si alzava come in segno di benvenuto, da insetti e zanzare, e dallo scricchiolio di sassolini dei passi dei visitatori dagli occhi indiscreti. A rompere quel religioso silenzio era il gracchiare di una cornacchia in cima a uno dei tanti cipressi. Un ometto anziano con gli occhiali da sole, in sella alla sua Graziella, era oggetto di osservazione per Stella, che lo seguiva con lo sguardo mentre varcava il cancello, scendeva dalla bicicletta e, trasportandola a mano, percorreva il lungo vialetto fino al suo posto nel mondo, dalla sua amata perduta. Nello stesso campo altre madri come lei, riverse ognuna sul proprio giardino, farfugliavano frasi, scoccavano baci. Schiena contro schiena, percepiva le loro lacrime nascoste come le sue dietro enormi occhiali da sole e, senza mai sfiorarsi, la prima tra loro che faceva per allontanarsi emetteva un ciao. Non un comune ciao tra amici ma un ciao che celava una storia, un dolore, rabbia, amarezza, delusione, malinconia, tristezza, male, quel male che non ha voce, solo anime comuni. Non era necessario conoscersi, l’echeggiare di quei ciao nascondeva i loro frammenti di vita. Il trascorrere dei mesi e il continuo ritrovarsi alle prime ore del mattino la avvicinarono a Micaela, una mamma che seppe regalare a Stella l’illusoria idea che, quando non erano lì, i loro bambini trascorressero le giornate sempre assieme e che le loro caotiche risate rompessero ogni giorno il silenzio dei pensieri. Stella finì per amare quella stupida teoria. Rivedeva i suoi stessi gesti morbosi replicati da altre mamme, nell’allontanarsi dal campo: prima di varcare il cancello si giravano per due volte, si fermavano e restavano immobili con il viso rivolto ai loro bambini e, giunte all’automobile, temporeggiavano, il tempo di scrollarsi di dosso, ma non dal cuore, quel senso di abbandono. Spesso amici o clienti avevano voluto conoscere suo figlio attraverso i suoi racconti, le sue lacrime. Alle volte era confortante per lei sapere che passavano di lì lasciando fiori o qualche peluche. Su una piccola busta gialla attaccata a una foglia di girasole con una molletta, trovò un messaggio, “Per un piccolo angelo dalla vita eterna.” Fu pervasa da un’indescrivibile emozione che riuscì a strapparle un sorriso, mentre copiose lacrime le irrigarono il volto. Fu come se un angelo avesse percepito il suo dolore e, passando da lì, avesse lasciato traccia del suo nobile cuore. Faticò ad aprire la lettera, immersa in un pianto isterico, il cuore all’impazzata, le mani sudate e tremanti.

Ogni lacrima versata per te corrisponde a un attimo di vita vissuta… e tu, Ethan, continuerai a vivere in eterno perché queste lacrime non sono lacrime di dolore ma d’amore e si sa che la vita è davvero vissuta quando si ama e si è amati… e tu sarai amato per sempre… 

R.C. 

Due iniziali. Non capì mai chi fu quell’angelo.

2021-07-30

Aggiornamento

Un grazie speciale ad ognuno di voi che avete contribuito al raggiungimento del primo step dei 200 goal, fondamentale ( ancora di più lo è stato raggiungerlo in questa giornata particolarmente speciale per me) grazie davvero a tutti, mi avete regalato una stupenda emozione. Ora proseguiamo fino a chiusura campagna (70 e più giorni) per tentare il raggiungimento di altri traguardi. Un abbraccio e un bacio che vi avvolga tutti. Sira

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Commovente, bellissimo, emozionante.
    Si legge in un fiato e tiene con il fiato sospeso.
    Si sente fra le righe l’amore incondizionato di questa donna/mamma/moglie /figlia.
    Complimenti.
    Lo consiglio soprattutto a tutte coloro che devono trovare la forza di rialzarsi nonostante tutto.

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Sira Apicella
è nata a Cava Dei Tirreni nel 1985. Ha vissuto a Maiori fino ai suoi 21 anni, diplomandosi in estetica. Nel 2006 si è trasferita in Brianza, dove tuttora vive ed esercita la sua professione. È appassionata di lettura e scrittura, consapevole che spesso leggendo ci si possa ritrovare, rivivere il proprio vissuto e recuperare brandelli d’animo. "Centonovantatré giorni" è il suo romanzo d’esordio.
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