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C’era una volta a dicembre

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Tessa Bellini ha la vita da sogno che tutte vorrebbero, il carattere che tutte invidiano e l’intelligenza che tutti temono, eppure, assorbita completamente dal lavoro e dalle apparenze, inizia a rendersi conto di aver perso se stessa.

Quando la madre la informa della morte del padre, che le aveva abbandonate quando lei era adolescente, Tessa si ritrova a navigare nei ricordi riscoprendo emozioni che non provava da tempo. Complice del suo cambiamento la magia indescrivibile dell’amore e del Natale.

Tutto ciò di cui ho memoria è accaduto a dicembre: il mio compleanno, la mia prima volta (sì, quella), la prima laurea, il primo ragazzo, il primo tradimento e perfino il divorzio dei miei.

Da allora, è stato semplice odiare quel mese, così, mentre la gente nel mondo ogni anno si preparava a chili in più sul proprio corpo e a cose inutili da regalare, io pensavo a fare soldi per comprarmi una casa a Parigi. Mi ci avevano portato a sette anni, c’ero tornata a diciassette e a ventisette, e quella fu la volta della promessa: «Tessa, ti prometto una casa qui».

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Mentre i miei non avevano mai smesso di litigare dall’atterraggio a Charles de Gaulle, io sognavo la mia vita in Rue Galande.

«Hai capito cosa vuole tuo padre? Lo senti?»

«No.»

«Tessa, per amor del cielo, ascoltaci: tuo padre vuole che tu e quella tua sorellina, solo per quest’anno e sottolinea, solo per quest’anno, andiate a passare insieme le vacanze di Natale.»

In realtà stava parlando da sola, sembrando tanto alterata da disturbare l’atmosfera parigina, io invece continuavo a non sentirla, mi stavo auto promettendo il mio sogno e non avrei permesso a nessuno di interrompere il momento, nemmeno a mia madre.

A trentasette anni avevo un monolocale a Parigi, una sfilza di uomini che a turno si facevano prendere in giro dalla sottoscritta e una mole di lavoro che non avrei mai smaltito, non di certo per dicembre che era alle porte e, infine, una “sorellina” di cui mia madre aveva sempre sparlato con l’odio della gelosia, viveva da qualche parte nel mondo in attesa di conoscermi. 

Dai ventisette ai trentasette erano passati dieci anni esatti e fino a quel momento nessuno si era preoccupato di presentarmi mia sorella (che sarebbe rimasta “sorellina” per sempre). Probabilmente, in un’altra famiglia le cose sarebbero andate diversamente, ma nella mia il vincolo genetico non faceva eccezione alcuna nel perseguire il proprio successo.

Dall’aeroporto al CoCo

«Pensa che ci metteremo molto a raggiungere la destinazione?»

«Mi permetta, è quasi Natale e siamo a Parigi.»

«Giusto! Natale, la città che diventa più romantica del solito e tutta quella lista di cazzate che piace alla gente (illusa).»

«Esattamente. È così. È bello no?»

Senza dire una parola, rivolsi lo sguardo oltre il vetro del finestrino, magari aveva ragione il tassista, magari per una volta avrei potuto amare dicembre, magari no.

«Si mette a nevicare? Adesso? Proprio adesso?»

«Perderemo qualche minuto in più per via del cantiere che hanno appena aperto nella via prima della sua.»

«Anche i lavori…» Odiavo quell’inoltrarsi delle cose.

«Non torna a casa da un po’ a quanto pare» mi disse spiando i miei occhi dallo specchietto retrovisore.

«Io non amo perdere “minuti in più”.»

«Si goda l’inizio della nevicata, è il momento più bello… forse si chiederà “perché”? Be’, perché la neve ancora non sa a che ritmo andare, si adegua al mondo man mano che cade.»

Ascoltai come se ci credessi e, per un attimo, la mia concentrazione sembrava voler constatare se le parole del tassista fossero vere. 

WhatsApp

Dove sei?

Sulla macchina più lenta del mondo, con il tassista più cretino di Parigi

Cena fuori?

Dove mi vuoi portare?

Dove vuoi. Scegli.

«Devo lavarmi, cambiarmi e prepararmi per la mia cena: potrebbe accelerare? O chiedo troppo?»

«Non è colpa mia, le ripeto, si goda la neve lì fuori, arriverà in tempo per fare tutto.»

Non sembrava un uomo, sembrava un anziano che voleva imporre lezioni riprese dall’infanzia e mentre io avevo una vita che mi stava aspettando, lui era felice con una macchina e un po’ di neve. 

«Grazie. Il resto è suo.»

«Signorina, non lo voglio il resto, lo tenga per sé, le servirà per le sigarette.»

«Come sa che fumo?»

«Le è appena caduto un pacco vuoto sul sedile. Stia attenta la prossima volta, potrebbe perdere il portadocumenti.»

«Non perderò nulla, non si preoccupi. E tenga il resto. Lei piuttosto, con tutte queste chiacchiere badi a non perdere il lavoro.» E con occhi pieni di pazienza, scaricò la mia valigia fino al portone, congedandomi con un elegante: «Buona vita, signorina del Natale».

«Buona vita, signorina del Natale, a me?»

«Che male c’è? È solo un complimento.»

«Non credo e se così fosse, non mi piace.»

«Lei non sta ancora dalla parte del Natale, è evidente.»

«Io non sto dalla parte di nessuno.»

«Un giorno potrebbe non bastarle…»

«Cosa?»

«Non schierarsi, non essere dalla parte di nessuno, non prendersi le responsabilità dei propri sentimenti, anzi, prima delle proprie emozioni, poi dei sentimenti» rispose così.

Lasciai perdere, anche se in realtà una parola poco educata mi si era bloccata sulla punta della lingua.

Cercai disperatamente l’altro pacchetto, quello pieno e per fortuna era lì, già stato aperto per fumarne due.

Di nuovo il telefono, di nuovo lui, ma questa volta mi stava chiamando.

«Scusami, sono appena arrivata, dammi mezz’ora.»

«Va bene, tra mezz’ora sono da te.»

Non avevo voglia di uscire, né di uomini, però una cena di bentornata a Parigi, non me la sarei persa per nulla al mondo. 

«Lasci, l’aiuto io.»

«Grazie, Gérard, lei è sempre il mio preferito, questo palazzo non sarebbe lo stesso altrimenti.»

«Mi dica, il suo autista che fine ha fatto?»

«Oh, lasciamo perdere… ho dovuto prendere il primo taxi in aeroporto, un tale idiota…»

«No! Che tragedia… immagino… i soliti scansa fatiche, no? Ladri di prima categoria.»

«Più o meno sì, più o meno è così.» Anche se non era vero.

«Ringrazi il cielo che è arrivata sana e salva, ma la prossima volta non esiti a comporre il mio numero di telefono, qualcuno pronto a soccorrerla ci sarà.»

«Grazie, sarà fatto. La chiamerò.»

«Ladri, ladruncoli, ma non devo dirle io certe cose a una donna come lei…»

«Grazie, davvero, lasci pure, da qui so cavarmela benissimo da sola.»

«Ah se fossi più giovane… lei sa…»

«So, so…»

Gérard era stato un uomo di spettacolo prima e d’affari dopo (che volendo sono un po’ la stessa cosa). Aveva sfilato per l’alta moda, sposato la proprietaria del palazzo in cui vivevo ed era diventato ereditiere di una vecchia zia, praticamente la vita l’aveva premiato con tutto.

Erano sette anni che abitavo lì e quando non c’era il portiere, per me, c’era lui. Non avevo mai avuto bisogno di nessun altro, tanto da pensare seriamente alla storia che se fossimo stati più giovani, probabilmente, saremmo stati fatti l’uno per l’altra, ma trentacinque anni di differenza, non erano pochi. L’uomo grande fa comodo e la donna giovane piacere, ma non dura molto quando succede e io avevo altri piani.

«Amore, scendi.»

Un elegante bianco Armani mi copriva dal collo in giù. Non amavo cambiare firma in continuazione, una volta innamorata di un taglio, cercavo di mantenerlo per due o tre anni, così da poter permettere agli altri di riconoscere il mio stile.

Avevo sempre creduto che gli umori delle donne avessero bisogno anche dei loro vestiti, non si poteva essere hippie e indossare Chanel. No.

Un cappotto nero nascondeva il tutto, usavo fare sempre così prima di arrivare al ristorante, sapevo che una scollatura di troppo sarebbe stata solo l’ennesima sorpresa amata dagli uomini (tutti).

«Sei meravigliosa.»

«Lo so.» 

E con la mia risposta, mi davo quelle arie che mettono di buon umore una donna, quelle sicurezze che tutte vorremmo e che lui, sembrava apprezzare.

Dopotutto, mi ero vestita in fretta e senza nessuna cura per il make-up, ma, nonostante ciò, la parte maschile della sala mi fissava come se fossi l’unica Escort rimasta a Parigi. E devo ammettere che, come sensazione, non era male, forse leggermente scottante, ma di grande aiuto per l’autostima.

Il CoCo era bellissimo come sempre: con i suoi dettagli fondamentali, non mi sarei mai più alzata dal mio tavolo.

Jean Paul aveva fatto riservare il tavolo del nostro primo appuntamento, nell’angolo vicino a una decina di palme che andavano a creare un’oasi d’amore; credeva di aver fatto una gran cosa, ignaro che ormai fossi un habitué tra quelle lampade, ma non tardò molto a capirlo e senza che io aprissi bocca.

«Tessa, lei deve sapere che ogni qual volta io metta piede in questo locale, arrivo fin quaggiù, fino all’angolo delle palme, ormai lo chiamo così, nella speranza d’incontrarla.»

«Che gentile… non è da lei.»

«Non è gentilezza, è stupido corteggiamento maschile.»

«Lasci che le presenti Jean Paul…» i due si guardarono male, non potendo dirselo.

«Mi auguro per lei che non sia il suo fidanzato, avere una donna del genere a lato non dev’essere facile…»

«No, è vero, non lo è, ma devo dire che la nostra è una relazione solida.» Scambiarono qualche parola di cortesia, giusto per non cadere nella maleducazione: quello era un ambiente ricco dove, apparentemente, tutto va come deve andare, perfino le espressioni delle persone, perfino io.

Dopo qualche saluto, qualche incontro da lontano e da vicino, la nostra cena ebbe inizio e senza saperlo, anche la mia nuova vita.

«Non sapevo fossi diventata la regina del locale.»

«Non sai molte cose di me, mi sono assentata solo due settimane e tu due giorni: dov’eri quelli precedenti? Sono secoli che vengo qui… credevi che il nostro appuntamento fosse rimasto un caso isolato? No. Non ho bisogno di un uomo per andare a cena fuori, spesso ci vengo sola e poi, come per tutte le donne che bevono champagne in solitudine, arriva la compagnia.»

«Una compagnia sbagliata direi, se ancora sei qui con me e per fortuna!»

«Fino a ora… domani chissà…»

«Starò attento a non lasciarti sola più di un’ora.»

«Bene.» Mi piacevano le sue parole, le sue cure di gelosia; e anche se sapevo che non l’avrebbe mai fatto, mi bastava sentire quel pensiero, mi faceva capire che in quel momento gli piacevo tantissimo e che qualsiasi altro uomo avrebbe tentato un approccio nei miei confronti, non sarebbe stato perdonato.

«Cos’hai combinato in giro per il mondo?» domanda azzardata da fare, ma la risposta l’avrebbe soddisfatto.

«Solite cose: le modelle di Ale hanno bisogno di me, se ne andavano in giro a fare shooting di merda, come si può lavorare così? Si era messo in mani sbagliate e la campagna dello scorso anno gli ha fatto perdere molto.» E continuando a seguire una linea critica, cercai di illustrare il mio progetto.

«Cos’hai in mente?» come se chiamarsi Jean Paul potesse bastare a prendere spunto dalle mie idee. 

«Licenziare e cambiare protagoniste. Ho brand che amo alla follia e che ho intenzione di mischiare tra loro» gli dissi con sincerità, dopotutto era già un uomo di successo, il suo obiettivo non sarebbe stato di certo superarmi e comunque, qualora fosse rientrato tra i suoi remoti pensieri, non glielo avrei permesso. Piuttosto che dargli addosso, per una volta e a modo mio, avevo preferito dargli fiducia.

«Dai tuoi occhi sembrerebbe un lavoro mai visto.»

«Diciamo che sto sviluppando l’idea geniale che mi è venuta l’altra notte, devo solo costruire i modelli di famiglia che voglio portare in scena.»

«Che vuol dire?»

«Sarà una campagna pubblicitaria mai vista prima: i miei modelli interpreteranno il messaggio di Carine Dallas, sai qual è? Perché che tu sappia chi sia lei, non lo metto in dubbio.»

«Lei è la donna che ha rubato il marito al suo avvocato, giusto?»

«Oltre a essere questo, è una grande stilista; dopo il divorzio, ha mentalmente ripreso l’importanza di determinati valori e tutti visibili sugli abiti che disegna. Il suo atelier è pieno di rabbia, amore, maternità, follia, depressione, c’è di tutto e io, ho deciso di lanciare le sue creazioni con visi di modelli che andranno a sfilare per famiglia.»

«Fammi capire: fai i provini per selezionare modelli (adulti e bambini) che in passerella sfileranno per nucleo famigliare?»

«Sì. Una cosa del genere. Ancora devo definire tutto.»

«A quanto?»

«Le costerà parecchio, ma sai come si dice… “pagare, è regnare”, Madame de Girardin.»

«Sono sicuro che farai un ottimo lavoro.»

«Ne sono sicura anche io. Ho fallito rare volte, se fallissi qui di certo sarebbe famoso come evento, ma non ne uscirei mai più viva. A quel punto, Carine Dallas mi vorrebbe morta.»

«Una bella responsabilità accettare di lavorare per persone come lei.»

«Non hai momenti liberi, la tua giornata (nottata inclusa) è interamente venduta al progetto, la tua vita non esiste più, ma contemporaneamente devi esistere ovunque: social, hotel, sfilate, eventi, bicchieri di alcolici, nemici, amanti o amori, pezzi di famiglia (sporadicamente). Va così. A proposito di champagne: ci siamo già scolati una bottiglia?»

«Mi sa di si.»

«Fanne portare un’altra: stessa annata, stessa cantina. Mi raccomando.»

E lasciandolo al tavolo dopo aver passato la mia mano curatissima sul suo collo, andai in bagno. Durante una cena o l’inizio di una cena, è quasi obbligatorio fare così.

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Laura Toscano
nata a Messina il 19 Giugno 1988, è l’autrice di "Calendari senza cognome" (2014), "Educato disordine di vite" (2015), "Kikola" (2016), e "Anna Robinson sei a casa" (2020).
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