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A ciascuno la sua solitudine

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Gli incontri, i rapporti, l’eros, il tempo, i tumulti e le miserie della vita.
Undici racconti per sviscerare l’animo umano nel momento in cui la vita pone gli individui di fronte a cambiamenti e ostacoli che fanno perdere linearità al percorso. Tra dolori, affanni e viscerali passioni, i protagonisti di queste storie si analizzano per alleggerire la zavorra della propria solitudine, liberarsi dal grigiore e riconsegnarsi all’aurora, cercando, con uno sguardo al passato, la strada verso il proprio futuro.

L’ora X

Le era successa una cosa strana, poco spiegabile: aveva appeso alla parete di fronte al letto, per evitare di guardare continuamente quello del cellulare, un orologio analogico, da poco prezzo e dal design pretenzioso, che aveva sempre assolto il suo compito con discreta precisione. Ebbene, a un certo punto (Rebecca stava cercando di ricostruire esattamente quando) aveva cominciato a segnare l’ora in modo anomalo, casuale.
Dapprima aveva pensato che la pila si stesse scaricando e aveva provveduto a sostituirla. Nessun risultato. L’orologio si fermava, ripartiva, pasticciava.
Quando lo guardava, la lancetta dei secondi scorreva placida, sicura di sé, senza esitazioni, ma non appena si allontanava per qualche ora, sapeva già che tornando avrebbe dovuto sistemarlo, riportandolo avanti; e se la sua assenza si prolungava, capitava anche di trovarlo abbarbicato a un tempo incerto, di poco in anticipo sul futuro, o in terribile ritardo sul presente.
Pur amando la sua città, uno dei vertici del cosiddetto triangolo magico europeo, Rebecca non nutriva alcun interesse per i mondi paralleli, gli spiritismi della domenica e le pratiche paranormali. Era un distacco profondo il suo, incolmabile, una fede assente e di cui non sentiva la necessità.

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L’idea quindi che un oggetto potesse subire l’influsso di energie incontrollabili, fuoriuscire dal suo stato di “cosa” o organizzarsi secondo una logica diversa da quella razionalmente certificata era ipotesi improponibile anche se divertente.
Però il suo orologio era ugualmente impazzito, e su questo voleva scientificamente indagare.
Il quando, allora. La prima volta era stata sua madre a farglielo notare: Il tuo orologio è indietro, bimba, si starà scaricando la pila… Boh, l’ho cambiata da poco, ma magari era già un po’ cimita perché l’ho presa nel banchetto a un euro al mercato, aveva risposto stupita, domani le compro al supermercato e le cambio.
Aveva fatto esattamente così, l’orologio si era comportato bene il tempo di lasciarla uscire per andare al cinema con un’amica. Al suo ritorno, sbarellava già di venti minuti. È il contatto della pila, si disse. Lo pulisco, tanto devo rimetterlo a punto.
E nonostante l’ora tarda tirò giù dalla parete l’orologio, tolse la batteria, sfregò con un pezzetto di carta vetrata la lamella, la strinse in modo che non potesse scostarsi e interrompere il flusso di energia, rimontò il tutto, riposizionò le lancette sul quadrante, riappese l’orologio e andò a dormire.
La mattina aprì gli occhi colpita dal sole che si infiltrava nella tapparella, guardò l’ora e si stizzì: la lancetta dei secondi camminava imperterrita, ma le altre due segnavano le quattro e un quarto. O c’è stata una rivoluzione nel sistema solare, o il mio intervento non ha sortito alcun effetto, è evidente…
Che palle! Lo butto via, tanto a che mi serve se non me ne posso fidare? si era detta afferrandolo in malo modo. Poi ci aveva ripensato; le dispiaceva buttarlo perché quell’orologio era andato bene per un bel po’.
Gli do un’altra possibilità, decise, tanto, se so che può anche non essere a punto, basta che controlli col cellulare in caso di dubbi. Aveva fatto così per qualche tempo e, inaspettatamente, l’orologio sembrava aver ripreso il suo funzionamento normale. Rebecca ne era contenta, non amava la filosofia dell’usa e “getta non appena si rompe”.
Poi un giorno, mentre si stava preparando per andare dal parrucchiere con sua madre – Di nuovo c’è di mezzo mamma! sorrise –, sentì squillare il cellulare: era lei.
Dove diavolo sei, l’appuntamento è tra cinque minuti… Rebecca guardò fiduciosa il quadrante appeso alla parete. Ti sbagli sono le… si interruppe, ’sto cazzo di orologio, imprecò, arrivo, mamma, ma sono ancora a casa… Siamo a posto! avverto la pettinatrice… E mise giù contrariata. Rebecca si rivolse all’orologio: Okay, preparati lo spirito per finire in pattumiera appena torno, sibilò.
Non lo buttò nemmeno quella volta, e non sapeva spiegarsi il perché. O forse, pensandoci, sì. Un po’ era colpa di sua madre, delle storie che le raccontava quando, da piccola, doveva placarla nei suoi furori; le inventava sul momento e, in quei racconti, gli oggetti prendevano vita, avevano sentimenti ed emozioni: Mi ha fatto diventare un po’ animista, evidentemente.
E perciò faticava a eliminare un oggetto che pareva prendere delle decisioni in autonomia, sottraendosi all’imperativo tecnologico, rivendicando in quel modo silenzioso, ma ostinato, la sua diversità.
L’autodeterminazione di quell’oggetto la divertiva, e le sembrava un sopruso immotivato schiacciarla; inoltre questa decisione appagava il suo ego: Avrei il potere di annientarlo ma non lo uso, si glorificava sentendosi magnanima, buona, comprensiva…
Però un orologio funzionante le serviva e decise di acquistarne un altro, esiliando quello anarchico in soggiorno, pronta a esibirlo come una delle sue strampalatezze.
Ma continuava a investigare. Ripensandoci, c’era spesso la mamma di mezzo quando si trattava di lui. Anche il giorno in cui era andata a casa sua, annunciandole che aveva una notizia non tanto piacevole da darle, la prima frase che aveva detto era stata per l’orologio, memore delle ingovernabili imprecisioni dello strumento: È quasi giusto, aveva notato, forse si sta ripigliando… Mamma, che cazzo me ne frega dell’orologio, aveva risposto lei affannata, dimmi quel che devi dirmi.
Devo farmi operare, la colonscopia che ho fatto il mese scorso ha evidenziato un tumore, un tumore di merda in senso stretto, aveva ironizzato.
Quando l’hai saputo? Una settimana fa. E me lo dici solo ora? Volevo regalarti una settimana di tranquillità in più. Sara lo sa, vero? Per forza, mi ha accompagnato lei in ospedale quando mi hanno comunicato l’esito…
Sara era sua sorella minore; mamma e figlia vivevano vicine, al secondo e terzo piano dello stesso condominio, logico che l’avesse accompagnata lei. Quando era morto improvvisamente loro padre, di infarto, le era stato proposto di andare a vivere nell’alloggio accanto a quello di Sara, allora ancora affittato.
Ma lei aveva declinato l’offerta; conosceva la famiglia che lo occupava da tanti anni, immaginava che sarebbe stato difficile per loro andare via, e avrebbero dovuto sfrattarli. Ne sarebbero seguiti carte, avvocati, impicci e dispiaceri… Per carità! Non le sembrava giusto, tantomeno con così poco preavviso. Sua madre le era stata grata per quel gesto, e l’aveva aiutata ad acquistare il piccolo appartamento dove stava ora.
E comunque, a dirla tutta, Rebecca preferiva stare per conto suo, indipendente, più libera e lontana dai grovigli familiari: il cognato un po’ troppo maschilista e i due nipotini, adorabili ma appiccicosi come cerotti. Andava spesso a trovarli, non abitavano lontano, giusto qualche fermata di autobus, ma non avrebbe retto la quasi promiscuità che puntellava l’equilibrio tra Sara e sua madre.
Perché, allora, adesso si scopriva quasi gelosa della sorellina, come se le fosse stato precluso un privilegio cui le pareva di aver diritto? Si sentiva come se la salvaguardia del proprio tempo e del proprio spazio l’avesse impoverita, esiliandola dalla confidenza vera e importante; come se il rapporto tra lei e sua madre, che entrambe avevano coltivato nitido e razionale, avesse frapposto uno schermo tra loro, demandando all’ironia e all’intelligenza di compensare un’emotività che andava spegnendosi, e che invece tra Sara e la mamma era corroborata dalla convivenza stretta, dalla condivisione quotidiana, da quella consuetudine alla mescolanza delle loro vite… che lei non avrebbe sopportato nemmeno un giorno, in realtà.
Però saremmo potute andare insieme… e Sara avrebbe potuto telefonarmi, dirmi qualcosa… recriminò a sua madre. È colpa mia, mormorò lei, sono stata io a dirle di non parlartene, non so nemmeno perché, è che… volevo dirtelo io, da sole; non prenderla come un’esclusione, non è così… è che tu sei anche un’amica per me, mentre Sara è, e sempre rimarrà, solo una figlia, si giustificò.
Sì, capisco, scusami, anche io avrei potuto chiedere… sapevo dell’esame… sai già quando ti operano? Tra quindici giorni più o meno. E dopo cosa succede? Poi, se va bene, sacchettino o pannolone… Oh Dio! ma perché? Rebecca era riuscita a non piangere, ma le era costato uno sforzo immane.
Ma poi, capiva davvero? Cosa aveva voluto dire sua madre con quella distinzione che sembrava manichea, ma che improvvisamente le appariva sostanziale per comprendere il suo disorientamento? “Anche un’amica” contro “solo una figlia”.
La mamma non aveva negato la sua genitorialità, l’aveva amplificata: anche un’amica. Avrebbe dovuto sentirsi più importante, e invece le pareva di aver ricevuto una specie di contentino: non riesco ad avere un rapporto solidamente emotivo con te e quindi ti relego tra le amiche, con cui posso confidarmi e dalle quali posso accettare ma non pretendere aiuto, comprensione, solidarietà; era il suo modo di lasciarla libera, libera di amarla o meno. Invece con Sara era tutto più lineare, sicuro, forse meno profondo, ma più naturale…
Sara come ha reagito? domandò ancora. Per carità, non la smetteva più di piangere, eravamo ancora in ospedale e ho dovuto consolarla per mezz’ora, ero molto imbarazzata, pareva che ce l’avesse lei il cancro… è più fragile di te, lo sai.
Certo che lo sapeva, glielo avevano sempre detto che era lei quella forte; e Sara difatti si era sciolta in lacrime, non le aveva ingoiate a fatica come lei qualche attimo prima, aveva dato sfogo al suo dolore senza reticenze, liberandosi per lo meno dall’artiglio della sofferenza che invece stava sfregiando l’anima di Rebecca.
Tutto ciò era successo due mesi prima, giorno più, giorno meno. Poi l’operazione, la degenza, la convalescenza. Lei e Sara si erano alternate al capezzale della mamma, prima all’ospedale e dopo a casa sua; Rebecca era anche andata per qualche settimana a vivere da lei, per permettere a Sara di occuparsi della sua famiglia e stroncare sul nascere le recriminazioni del marito maschilista.
A un certo punto, però, la madre le aveva allontanate: Adesso basta coccolarmi, devo riprendermi da me e mi sento già abbastanza in forma, aveva sentenziato, torna a casa, Rebecca, ti ringrazio per tutto quello che hai fatto, ma adesso sono più contenta se torni a casa tua… so quanto ti manca la tua solitudine… e tu, Sara, ti sei già sbattuta abbastanza… e comunque, per tua sfortuna, se ho bisogno sei qui in un attimo… siete due figlie straordinarie, aveva concluso con un’ombra di commozione nella voce.
La realtà però, quella vera, cruda, che Rebecca non aveva potuto tacersi, era che la mamma stava ripristinando il suo equilibrio, e in questo equilibrio lei era una comparsa, gradita, amata, ma episodica, mentre Sara era il riferimento saldo, confortante, quotidiano. Rientrata nel suo appartamentino, Rebecca aveva trovato l’orologio fermo: Ti sei stancato di fare il pazzariello? lo aveva inquisito. Domani decido se buttarti o no, adesso sono troppo stanca…
La mattina dopo l’orologio aveva ripreso a funzionare, segnando un’ora di poco in ritardo su quella reale: Paura, eh? lo aveva irriso; ma era stata contenta, ancora una volta, di non doversene liberare.
E comunque la mamma aveva ragione: rientrare nel suo spazio, per Rebecca, era stato come ritrovare fiato dopo un’apnea prolungata. Aveva passato gran parte della mattina a letto, leggendo, cazzeggiando, giocando col cellulare; poi era uscita a fare un po’ di spesa, l’aveva riposta con cura, si era preparata da mangiare, ma a inizio pomeriggio aveva esitato a lungo, indecisa se andare a vedere una mostra appena inaugurata o restare a casa.
Alla fine aveva deciso di godersi ancora un po’ di solitudine e si era distesa in quell’anfratto spazio-temporale per recuperare a sua volta l’equilibrio che gli avvenimenti dell’ultimo periodo avevano come sospeso, congelato.
È strano, pensava, mi sembra di non essere mai andata via di qui, che il periodo passato con mamma sia lontanissimo e allo stesso tempo è come se le cose non fossero più le stesse, come se si fossero disvelate e non riuscissi più a riafferrarle… Cercava di evocarle nei loro modi consueti, di recuperarle dalla memoria come le aveva lasciate per ritrovarne il senso originario, ma improvvisamente le balenò l’immagine di sua madre sulla barella appena risvegliatasi dall’anestesia, il sorriso forzato e lo sguardo spaventato.
Il dolore la attraversò come una lama rovente e si ritrovò a singhiozzare disperata: Mamma, mamma… Anche Sara aveva pianto, certo, ma lei era sola, lei aveva preferito restare sola con la sua sofferenza senza condividerla, reprimendola dentro di sé fino a che non era esplosa, dilaniandola.
Non appena fu in grado, telefonò a Sara: Ciao, sono io… com’è? mamma? Ciao, abbastanza bene, grazie… mamma non so, non l’ho ancora sentita oggi… telefonale, le fa piacere. Sì, certo, magari dopo, è che… volevo parlare con te. Dimmi, Rebe…
In verità non sapeva cosa dirle, o meglio come fare a chiedere, a investigare su di lei per capire se stessa. Rebe? perché non parli? ma cosa c’è, stai male? non farmi preoccupare anche tu, eh! mi basta mamma… No, tranquilla, non sto male fisicamente, voglio dire… è che… non so come dirtelo, pensavo al tuo rapporto con mamma e… E? dai, dimmi… È che forse ti invidio un po’, tu sei il suo riferimento, io… io non riesco a farle capire quanto mi è necessaria, quanto… quanto le voglio bene…
Sentì la voce strozzarsi in gola, ma Sara si mise a ridere. Rebecca, sorella mia, stai male per mamma e stai farneticando. Io il suo riferimento? è esattamente il contrario: mamma ti ammira, dice sempre che sei come lei avrebbe voluto essere e come mai sarebbe riuscita a essere, nemmeno potendo…
Tu sei, non so come dire, l’emblema della sua vittoria come madre, non io, con i miei bambini viziati e il marito rompicoglioni… io sono la normalità, tu la straordinarietà, io sono la sua realtà, tu sei il suo sogno diventato realtà… sono io che ti invidio, sai, ogni giorno. Anche se sono contenta della mia vita mi piacerebbe sentire qualche volta mamma dire non solo: “Ah, se non ci fosse Sara!” ma anche “Sara, che bello che tu esista così come sei, anche se sei diversa da Rebecca!”.
Smettila, che mi fai piangere… Tu, piangere? non ci credo nemmeno se ti vedo, non ti ho mai vista piangere neppure quando eravamo piccole; anche se per me tu sei sempre stata grande, irraggiungibile… oh, merda! stanno arrivando i bimbi, scusami ma ti devo lasciare… passa, uno di questi giorni, se ti va, che ci consoliamo un po’. Anche per me la malattia di mamma è un macigno sul cuore, sai…
Rebecca riattaccò e alzò gli occhi, di fronte a lei l’orologio “normale” segnava il tempo implacabile, tranquillo, ma chissà cosa faceva l’altro, l’anarchico, in soggiorno… E se i due orologi fossero come lei e Sara? Uno imprevedibile e generoso, l’altro invariabile e tenace; uno sempre sull’orlo della scomparsa, l’altro impegnato a salvaguardare la solidità del confine; uno che si sceglieva il tempo da scandire e l’altro che governava il tempo consueto?

25 maggio 2019

Evento

Casa del Popolo. via Avezzana 24, Chieri (To) Presentazione della campagna di crowdfunding del libro di Luz Bisetti A ciascuno la sua solitudine Dalle ore 19.30 aperitivo condiviso (grazie se porterete qualcosa…) Dialogheranno con Luz Bisetti: Loretta Deluca e gli autori Claudio Bettarello e Franco Bellarosa Letture di Rosella e…musica … Presentazione della campagna di crowdfunding del libro di Luz Bisetti A ciascuno la sua solitudine
07 maggio 2019

Evento

Circolo Terracorta, via Togliatti 65, Collegno (To) Martedì 7 maggio dalle 21.00 in avanti, presentazione della campagna di crowdfunding del libro "A ciascuno la sua solitudine" di Luz Bisetti. Loretta Deluca presenta e domanda, Luz Bisetti cerca di rispondere, Rosella Satalino legge. Non mancate! Circolo Terracorta
11 maggio 2019

Evento

Cinema Politeama, via Piave 2, Ivrea (To) Sabato 11 maggio, dalle 17:00 in avanti, al cinema Politeama di Ivrea, via Piave 2, presentazione della campagna di crowdfunding per il libro A ciascuno la sua solitudine di Luz Bisetti. Reading e chiacchiere con l'autrice. Non mancate!
23 aprile 2019

Evento

Circolo ARCI Molo di Lilith, via Cigliano 7, Torino Presentazione della campagna di crowdfunding del libro A ciascuno la sua solitudine di Luz Bisetti. Chiacchiere, intervista all'autrice, reading e altre bazzecole; il tutto dalle 21.30 in poi, ma prima si può mangiare e bere a volontà, ché al Molo cibo e vino sono buonissimi e abbondanti. Presentazione a ciascuno la sua solitudine
27 aprile 2019

Evento

27 aprile, Circolo Arci "Fuoriluogo", corso Brescia 14, Torino, dalle ore 18:30 Presentazione della campagna di crowdfunding per il libro A ciascuno la sua solitudine di Luz Bisetti. Si può anche cenare, bere una birra o un bicchiere di vino, tutto in compagnia dell'autrice. Presentazione crowdfunding A ciascuno la sua solitudine
07 aprile 2019

Evento

Circolo Dopotutto, Via Montenero 4, Avigliana (To) Domenica 7 aprile dalle 17,30 in poi, chiacchiere e letture con l'autrice. A seguire aperitivo a ciascuno la sua solitudine circolo dopotutto
16 marzo 2019

Evento

Ex canonica di Pino d'Asti (At), via Maestra 53 L'Associazione Ansema presenta, nella sua sede di Pino d'Asti, la campagna di crowdfunding organizzata dall'editore bookabook per la pubblicazione del libro A ciascuno la sua solitudine di Luz Bisetti. Si inizia alle 17,30 con la presentazione del libro, reading, chiacchiere e domande, purché non troppo imbarazzanti, con l'autrice. A seguire apericena e musica. L'Associazione Ansema presenta a ciascuno la sua solitudine

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Non vedo l’ora di leggere il tuo libro Lucia! In bocca al lupo per il crowdfunding…

  2. (proprietario verificato)

    Un bel pomeriggio e una bella serata in Canonica con gli amici, Lucia e il suo libro: una piacevole rivelazione.

  3. (proprietario verificato)

    Lucia porta in sé il dono di comprendere, attraverso le parole intense danno vita a questi racconti, le molte sfumature dell’animo umano, con una particolare e rara profondità di pensiero nel saperne cogliere i più intimi recessi. Ma anche con quella leggerezza illuminante che mi piace tanto di lei.

  4. (proprietario verificato)

    Di cosa e di chi scrivere oggi, quando tutto si permea di un grigio scuro e sembra che al mondo quasi non ci sia più luce da raccontare? I personaggi di Lucia ci ricordano che una speranza esiste e forse sta nel cercare ancora un incontro, nel credere in un bacio, in quel trovarsi, insicuri, quasi vecchi e soli, come i protagonisti del primo racconto. Ma sperare ancora e sempre , che l’umano in noi, risalga la corrente fino alle labbra. Per trovare l’incontro tra due salive o le parole per raccontarlo

  5. (proprietario verificato)

    Lucia Bisetti scrive. Non può farne a meno. E una scrittrice anche quando non scrive. Scrivere è per lei una tensione critica, una modalità di esplorare il mondo e i suoi stessi sentimenti.
    Franco Rella

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Luz Bisetti
Maria Lucia (Luz) Bisetti nasce a Torino nel 1954. Vagabonda in Italia cambiando spesso residenza e lavoro per specchiarsi nel mondo. Ultimamente ha deciso di fermarsi e provare a riconoscersi. Ha capito che si piace.
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