Uno spaccato di vita reale. Il mondo della boxe raccontato da un mancato campione con un carico di storie dure. L’infanzia difficile; il riscatto sul ring; l’ascesa e la caduta; i drammi familiari e sportivi. Un’avventura umana da leggere d’un fiato.
Perché ho scritto questo libro?
Dopo essere stato un pugile di grandi speranze e un professionista in altri settori, sono caduto nel baratro del carcere per colpe mie, dovute a situazioni create da altri.
Ho scelto di reagire. Ho voluto risollevarmi. Far capire a tutti che non ero quella persona e che ce l’avrei potuta fare. Com’è poi avvenuto.
Scrivere questo libro, con Flavio Semprini, è stato il primo passo per rileggere me stesso e per capire da dove e come ripartire.
ANTEPRIMA NON EDITATA
Genova, 2 settembre 1990. Diciotto anni ancora da compiere, vengo convocato dalla rappresentativa nazionale nord Italia. Selezione pre-olimpica Barcellona ‘92 Italia vs Algeria. Kg 63,500 Bellotti contro Amin (16 anni). Primo round: un inferno maghrebino mi travolge, una mitragliatrice araba mi riempie la faccia di pugni. Secondo round: il fuoco africano cede sul fiato; la legione italica tiene il centro del ring e avanza, secondo dopo secondo, guadagnando rispetto. Terzo round, parto subito: destro e montante al fegato. “Annibale” cede, si appoggia, tira, lacrima ed entra in preghiera. Insisto, trovo il bersaglio col gancio sinistro, Amin si aggrappa al collo e non molla. L’arbitro: break e richiamo ufficiale. Continuo ad avanzare. Schiero “legionari a testuggine e centurioni a cavallo”; trovo ancora il fegato del Mediterraneo d’Africa, non ne vuole più. Ultimo minuto, sento l’afa attorno alla gola, non respiro e sudo… Decido di arretrare per prendere un sorso d’aria. Campale decisione! Trovo l’angolo con la schiena, non uso il perno del piede per uscire, come tante volte mi hanno insegnato. No: mi appoggio sperando nel gong finale. Sbagliato sperare sul ring. “Il vento del deserto sahariano” fornisce al berbero la stoccata vincente. Entra col jab e chiude con destro chirurgico alla mia mandibola. Fine della storia: io ko steso, lui convocato dalla nazionale algerina. E quel giorno svanisce il mio sogno di entrare nel ritiro azzurro.
Ottobre 2016: si parte per Reggio Emilia, campionati regionali youth. Sono il tecnico federale di un piccolo Stato, convocato da persone interessate al pugilato di alto profilo. Vedremo…
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Operazioni di peso, il mio pugile, Diego, ferma la bilancia a 63,800 kg, l’avversario di casa pure. Dico al mio pugile che è una semifinale quindi già qualcosa di prestigioso per quel piccolo Stato, comunque vada. Inizia il match: il poulain di casa attacca senza sosta per capire le intenzioni del mio, visto già in passato e remissivo verso chi gli portava attacchi, quindi i suoi trainer probabilmente questo gli suggerivano.
Fine del primo round in equilibrio ma credo che preferenza sia stata data al reggiano, poiché in torneo, il pari non è contemplato, ovviamente. Secondo assalto, la trama è la stessa: uno attacca e l’altro si difende ma con più veemenza e colpendo di rimessa in gancio e montante destro. Si rompe il fiato cominciando a sciorinare jab su jab. Il mio è più alto e ha un allungo difensivo propositivo eccellente, frutto di tanto allenamento al sacco e della sua forte applicazione. Che per un diciassettenne, che ho iniziato ad allenare a quindici anni, è già molto, consideriamo che siamo in Italia (o quasi…). Non in Centroamerica dove la boxe è una religione.
Passiamo al terzo belli carichi, lo incito forte facendogli capire che un’occasione così non capiterà ancora. Siamo alla fine dell’anno agonistico e lui sta facendo i primi passi importanti. Andiamo al centro ring per la tornata finale. Monologo del pugile avversario. Il mio segue le indicazioni ma senza indietreggiare troppo, cioè aspetta alla media distanza per contrattaccare. Alla corta le leve, cioè le braccia, tolgono centimetri e cala la potenza esplosiva se tiri i colpi. Alla lunga il colpo è a fine corsa e più prevedibile. Il metodo giusto è: un passo indietro, mezza distanza e contrattaccare. Così è e cosi fa: scambio cruento, l’avversario punta largo al volto, Diego esce alla media, risponde di spinta, schiva, colpisce sotto, sale e chiude con due ganci sinistro e destro. Il secondo è letale: ko fulminante. Il reggiano rimane a terra, l’arbitro non inizia neppure il conteggio, ko e finalissima aggiudicata per il giorno dopo.
I giornali e i telegiornali parlano già di un argento sicuro e di un possibile oro storico per quel piccolo Paese. Non va cosi; la finale viene persa ai punti, dopo un match in sostanziale equilibrio. Ma il pareggio non è contemplato: oro a Parma e argento a San Marino. Butta via!
Come sempre rientro con gloria e visibilità mediatica. E’ il connubio vincente: boxe e stampa, boxe e tv, boxe e radio. Solo così si può rilanciare la noble art, solo così, imparando da quelli bravi, si può sperare nel ritorno ad alti livelli dello sport più vero, più duro e più angosciante del mondo…
Qualche tempo dopo: sono davanti ad un caffè che Totò mi ha fatto preparare, Totò e il tipo che in cella e in sezione la manda un po’ più degli altri. Io sono appena arrivato. Ho fatto un guaio: ho tentato di farmi giustizia da solo, ho fatto cadere, con un effetto domino, il bel castello che avevo creato attorno a me nel piccolo Stato. Proiettili e pistola in casa mia che la polizia recupera procedendo al mio arresto immediato. Mi hanno fatto promesse non mantenute, mi hanno defraudato impunemente, mi hanno tolto tutto ciò che amavo, mi hanno negato i miei soldi e mi hanno calunniato, diffamato, e portato via i miei pugili. Sono ferito nell’orgoglio e nell’onore, piazzo proiettili e mi armo: voglio punirli.
Invece punisco me stesso e mia figlia: l’unica innocente. Le viene tolta la possibilità di vivere suo padre liberamente. La amo alla follia perché è tutto quello che di buono ho. Non piangere amore mio papà ritorna, papà non ti lascia, tesoro mio hai subito indirettamente il risultato di una vita corsa ai mille all’ora. Ti chiedo perdono. Ti chiedo aiuto: solo il tuo bene mi salverà. Sono un egoista bastardo ma mi farò perdonare. Vivo per te e per la boxe. Ho distrutto e alienato tutto ma mi sono sempre rialzato e anche questa volta risorgerò dalle mie ceneri. Ho amato tua madre ma non capivo e non accettavo, spero mi perdoni pure lei. Ho amato la mia di mamma ma pure lei non capiva il fuoco che avevo dentro. Ha patito le sofferenze della mia vita, una vita strana che non avrebbe dovuto essere la mia. Cazzo, mio papà, l’unico maestro della mia vita, mi ha lasciato troppo giovane. Un tragico incidente stradale me l’ha portato via appena passato professionista, dopo 33 mesi e 71 combattimenti sostenuti sui ring italiani ed europei. Ero una promessa, una promessa non mantenuta però. Come quella che feci al suo capezzale. Papà non mi lasciare ho bisogno di te, ho bisogno della tua guida, non so come farò senza di te. Il tuo sguardo fiero, il tuoi capelli neri, i tuoi baffi autorevoli, la tua pelle olivastra al sentore di tabacco e whiskey invecchiato. Eri il mio mito.
Comunque, il braccio carcerario forniva celle da tre o quattro persone. Sudicie con le pareti verdi a pallini neri ma i pallini erano fossili di zanzare appiccicate con la ciabatta. Dice il ragazzo a Totò: “E’ arrivato o’ guaglione della pistola”. “Fallo accomodare e facciamo o’ cafè”.
Intanto nella mia cella mi stavano aiutando a fare il letto della branda. Francesco e Mauro: i miei erano attenti all’ordine, alle pulizie.
Però devo fare un passo indietro altrimenti non si capisce un cazzo.
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