L’altro neppure lo nota, preso com’è dalla lettura del giornale. Dev’essere un turista, almeno così sembra dallo zainetto rosso che tiene di lato infilato per i manici al braccio sinistro. La paglietta in testa e un paio di mocassini bianchi danno l’idea che abbia sbagliato stagione. È tutto preso dalla lettura e gli occhi sono calamitati sulla rivista che ha in mano.
L’uomo riabbassa la testa, riassume la posizione indifferente e prosegue aumentando leggermente l’andatura. Ormai da alcuni anni per lui i giorni sono sempre uguali, con lo stesso carico di angoscia e di indolenza. Le uniche novità sono partorite da attimi di terrore che lo pervadono dentro e lo allontanano dalla realtà, estraniandolo. Il tutto dura solo qualche minuto, poi ritorna a essere l’ombra che cammina.
Procede trascinando il corpo appesantito, non tanto dall’età quanto da una colpa che lo sovraccarica di pena e lo stanca fino a farlo ansimare in espressioni di panico. Il fisico macilento per gli stenti è nascosto da un cappotto logoro e sgualcito, almeno un paio di taglie più grandi del necessario, che maschera il deperimento del corpo. Sono poco più di tre anni che sopravvive nel capoluogo ligure. Una scelta fatta per caso. Solo perché il primo treno che partiva dalla stazione di Pisa era diretto in quella città.
Nel primo periodo ha pianto lacrime di disperazione. Mille volte ha maledetto il viaggio in Calabria che lo ha gettato in un inferno da cui non è riuscito a venire fuori. Più volte si è domandato se avesse lottato abbastanza per uscire da quella situazione. Non è riuscito mai a dare una risposta e forse può aver seguito un percorso inadeguato, visto i risultati.
L’unica soluzione che è riuscito a trovare e mettere in atto è stata la più semplice: fuggire. Ed è scappato lasciandosi dietro gli affetti, il lavoro e la casa. Si è convinto che così facendo avrebbe trovato la soluzione. Ha immaginato che la fuga dal mondo che lo circonda fosse il solo farmaco al dramma che lo divorava e l’unico capace di aiutarlo. Ha rifiutato da subito la nuova scansione della vita che la rivelazione di Pietro Condello ha generato, appesantito dal rimorso di essere stato indirettamente la causa della violenza subita da Angela e della morte di Nunzio.
È stato lui a rubarle la verginità che ha indotto Nunzio ad abusare della nipote – Tanto non era più vergine! – e zio Pietro ad ammazzare Nunzio perché aveva svirginatu a so niputeda Iangiulina. [Sverginato la nipote Angelina]
C’è stato un momento in cui ha maledetto di essere nato e vissuto appeso tra un passato e un presente che contro ogni volontà tagliava i legami delle sue origini.
A Genova ha conosciuto altri ultimi e ultime come lui. Persone che la vita ha marchiato con uno stampo senza appartenenza e quindi senza futuro. Con una di quelle ha anche instaurato, per un breve periodo, un misero rapporto e le ha confidato il suo dramma. Lo ha fatto come si fa tra degenti in una camera d’ospedale, non certo per trovare una soluzione, ma per lenirne il peso, cedendone una parte. Solo che in quel miserabile universo costituito dagli scarti della società benpensante il carico di disperazione che ognuno si porta addosso è già grande e faticoso di suo e non c’è spazio per altro dolore. Così piano piano si è isolato da tutto e da tutti diventando una piccolissima entità che rotea per inerzia intorno a un mondo che non lo vede. Si sarebbe anche accontentato di essere ignorato, perché vuol dire che almeno è stato notato e accantonato. Invece niente: la nullità assoluta ossia la delegittimazione della vita. Questo, per qualunque essere umano, è peggio della morte: un vivente mai esistito.
Col passare dei giorni le lacrime si asciugano e l’emarginazione innalza barriere invalicabili anche con gli apparentemente suoi simili. Diviene arido, perdendo, salvo rare eccezioni, l’angoscia che lo ha nutrito e, in qualche modo, ha mantenuto in vita la speranza di scoprire chi sia veramente.
Il calendario segna il 9 ottobre del 2014, anche se per quell’uomo può essere un qualunque altro giorno o mese di quell’anno. Ha camminato per l’intera giornata, lasciandosi andare dove le gambe lo portano. Quando sta per fare buio si accorge di essere parecchio lontano dalla Stazione Brignole dov’è abitudine passare la notte insieme ad altri disgraziati. Il cielo si è oscurato e di tanto in tanto fa capolino, tra i nuvoloni carichi di acqua, una luna piena, più luminosa del solito. Sembra si prepari una notte incantata in cui folletti e fate possono da un momento all’altro balzare fuori dai coni d’ombra e mettersi a danzare. Per quell’uomo che procede adunco quasi a nascondersi alla vista del mondo, però, il periodo delle fiabe è passato da tempo e forse non ricorda più neanche di averlo mai vissuto.
Quando riprende a piovere non ci fa caso: rientra nella normalità di una vita da barbone vivere in simbiosi con le intemperie. Poi la pioggia incomincia a battere con maggiore insistenza e raffiche di un vento freddo proveniente dal mare la schiaffeggia sferzandola ora a destra ora a manca, così da non lasciare scampo al malcapitato che si trova per strada. In un primo momento, l’uomo pensa di trovare rifugio nell’androne di qualche palazzo, ma i portoni sono tutti chiusi e allora riflette che non gliene importa niente di bagnarsi. Continua a camminare senza una meta fino a quando gli viene in mente di raggiungere l’argine del Bisagno e allora inforca la direzione più vicina. È inzuppato fradicio, ma non è la prima volta e certamente non sarà neanche l’ultima. Ormai da tempo la sua vita è quella e la vuole vivere fino in fondo. Passa il tempo, i rintocchi di un orologio battono le undici e trenta: due tocchi acuti seguiti da cinque gravi. In lontananza sente il brontolare dell’acqua del torrente che si avvicina scorrendo nell’alveo. Sembra l’ululare di una lupa che difende i piccoli, pronta ad azzannare. Improvvisamente avverte come un bagliore. Pensa a un riflesso della luna sulla strada. Gli pare strano che l’asfalto rispecchi la luce. Dà la colpa ai sintomi della fame e pensa di stare vaneggiando. Invece è proprio vero, i raggi si riflettono sulla pellicola d’acqua che piano piano sta invadendo il manto stradale. Il torrente ha esondato e come un secchio gigante pieno d’acqua si rovescia sulle vie adiacenti. Le strade vengono invase da un liquido melmoso che man mano s’innalza. Lo percepisce da alcune macchine che galleggiano. Le vede salpare dagli stalli dei parcheggi come tante navi senza comando. Prima scivolano veloci senza ostacoli, poi, a mano a mano che aumentano di numero, si incastrano tra loro: specialmente in prossimità dei tunnel pedonali e stradali. Dalle luci dei lampioni riesce a individuare la stazione di Brignole e in cuor suo è contento. Non ci fa caso, ma è da tempo che non prova un briciolo di sentimento.
A un tratto gli pare di scorgere alla luce della luna piena una mano che annaspa nelle acque torbide. Resta bloccato e non fa nulla per afferrarla e aiutare il malcapitato, neanche l’atto di spostarsi. Viene avviluppato da un forte desiderio di essere al posto di quella persona. Pensa che basti poco: semplicemente lasciarsi andare. Invece gli manca il coraggio e quello, se non ce l’hai, non puoi inventartelo.
Pensa all’annegato e si persuade che probabilmente il suo intervento sarebbe stato inutile e certamente proibitivo per un uomo debilitato e anziano qual è. Quello che gli rimbomba in testa, però, è che non ha mosso un dito. Lo ha visto trascinare nel tunnel tra via Canevari e la stazione Brignole ed è rimasto fermo. Forse lo ha scambiato per sé stesso e ha lasciato che le acque compissero la loro opera.
Improvvisamente le luci dei palazzi si spengono di colpo tutte insieme, come collegate ad un unico interruttore. Immagina che la causa sia dovuta a una serie di cortocircuiti causati dagli allagamenti delle cantine e dei piani terra: Probabilmente molti interruttori differenziali sono saltati.
In diversi punti l’acqua si è piano piano alzata e ha raggiunto il primo piano delle case. Le persone, non possono uscire in strada per paura di essere trascinate dalla forza dell’acqua e cercano rifugio nei piani superiori. Quasi tutte le auto parcheggiate nella via vengono spinte a valle dalla forza della corrente. Solo qualcuna, bloccata dal palo di un lampione, è rimasta a fare da ostacolo alle altre che arrivano trascinate da monte. In alcune ci sono persone bloccate all’interno dell’abitacolo che agitano le braccia contro gli sportelli che non riescono ad aprire per la pressione dell’acqua.
L’uomo sposta lo sguardo da quella tragedia e svolta verso destra dove la strada sale e può raggiungere la stazione ferroviaria per un percorso più lungo, ma più sicuro.
Quella notte, accovacciato nella rientranza del portone di un ufficio chiuso lungo il primo binario, non chiude occhio. I fantasmi nascosti che occupano il suo corpo prendono forma. Danzano davanti ai suoi occhi sprangati e lo deridono cantando la sua maledizione in una nenia…
Francesco Treolo, questo è il nome del vagabondo, apprende di tutta quella manifestazione di solidarietà leggendo la locandina del Secolo XIX esposta davanti all’edicola della stazione e gli scende una lacrima. Non ci fa caso, ma è un miracolo: i suoi occhi non piangono da oltre due anni. Un veloce ricordo, come una meteora, lo riporta a quando non ancora quattordicenne spalava fango a Firenze con i ragazzi della parrocchia accompagnati da don Peppino, il prete contadino. Erano altri tempi certo… una vita indietro.
Bisbiglia allontanandosi lungo un indefinito percorso quotidiano.
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