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Ho dato fuoco alla metro gialla

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Milano, 2019. In una società cieca e sorda ai bisogni dei più e alla sofferenza del pianeta, mandata avanti dall’egoismo e dalla distrazione come obiettivo quotidiano, tre universitari, stagisti usa e getta, decidono di farsi finalmente ascoltare, a tutti i costi.

Il modo migliore per attirare i riflettori della politica e dell’opinione pubblica? Dare fuoco alla metro gialla, nel giorno delle elezioni. Basta sottomissione, basta ipocrisie. Un sacrificio necessario, crudo e veloce.

Tutto procede secondo i piani,  fino a quando la Contessa, stagista-capo terrorista, viene scoperta dal suo tutor, Claudio, trentenne in crisi esistenziale, che passa il tempo tra cannette, limoni occasionali, citazioni di Brecht, attacchi di panico e musica indie. All’improvviso sente di avere una missione: deve fermarla. Salvare lei. Salvare Milano.

Ma un dubbio gli si insinua nel profondo… la Contessa ha davvero torto?

Claudio

Sono le dieci e mezza, starà sicuramente dormendo. O la chiama ora o mai più. Deve beccarla mentre non è ancora lucida, altrimenti lo sbrana.

Tuuu…

Tuuu…

Tuuuu…

Click.

«Ciao miciolina!»

«Nnnh… Cosa cazzo vuoi?»

«Andiamo a pranzo al Nabi oggi?»

«Claudio, tu non hai capito. Stavolta basta. Non si torna indietro.»

«Sì, sì, va bene, dai…»

«No, non hai capito. Basta. Sono stufa. Stu-fa.»

«Ti ho comprato una cosina…»

Tace. Funziona sempre.

«Sei veramente un pirla, Claudio. Sei anni buttati nel gabinetto.»

Aplomb milanese. “Gabinetto” le esce male, con la e meno trascinata del solito. Aveva in mente un’altra parola.

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«Non esagerare. Ero un po’ nervoso, però non essere ingiusta, su. Abbiamo vissuto un sacco di momenti carini. Dai, tipo…»

«Tipo un cazzo, Claudio! Tipo un cazzo! A che prezzo poi! Al costo di reggere sempre le tue sceneggiate, i tuoi sbalzi di umore, il tuo rimuginare, rimuginare su tutto!»

Claudio allontana il telefono dall’orecchio, gli sta sfondando i timpani. «Vai da una psicologa, io una scena così davanti ai miei… ti giuro, non farmici ripensare che mi viene il vomito.»

«Aaah, co’ ’sti tuoi. Io parlo di noi due e tu ancora fissata co’ ’sta cosa dei tuoi. I santissimi tuoi. Per una volta che mi esprimo…»

«Ti esprimi? Ti sei messo a gridare a metà cena che il mutuo è da ritardati e che loro non sono i tuoi commercialisti! Ringrazia che mio padre se ne è andato in camera! Sei solo una merda!»

«Non stavo gridando! Ma poi cosa vogliono i tuoi? Saranno cazzi miei se voglio stare in affitto a vita al posto di, di indebitarmi per stampare il mio nome su un citofono? Per essere sicuro di fare lo schiavo a Milano per sempre? I tuoi devono imparare a stare nel loro.»

«Che coraggio, Claudio, dopo che ti hanno trattato da principe! Fai schifo!»

«Ah, capirai… capirai… a Milano tutti ti trattano da principe. Basta che sorridi e dici sempre di sì. Dei gran lord…»

«Sei veramente uno stronzo, Claudio… Cresci! Devi crescere! Stai sempre a lamentarti! Licenziati e vai a fare il Peter Pan con qualche ronciona, così sei felice! Io non ti sopporto più! Levati dal cazzo!»

«Sai che c’è, Marta? Te lo dico in maniera cristallina. Vai a fare in culo, di cuore. Magari è il primo dei miei discorsi che riesci a capire.»

«Maleducato.» Click.

Cazzo. È davvero finita.

Claudio ripone il cellulare nelle lunghe tasche laterali del trench blu, si passa una mano tra i capelli neri, si appoggia al muretto di fianco alle scale che portano alla stazione di Porta Romana FS e chiude gli occhi, nerissimi anche loro.

Sente una brezza leggera salire dai piedi. Scorre lungo il trench, si infila sotto la barba e scivola sul suo viso olivastro, fino a raggiungere il naso, vagamente etrusco, le sopracciglia, dritte e poco curate, e la fronte, coperta da un ciuffo spettinato, che svolazza anarchico.

La brezza profuma di libertà, di andirivieni, di case di sconosciute, di nuovi nomi da imparare. Pensa alle possibilità, all’oceano delle nuove possibilità nel quale non vede l’ora di tuffarsi, nuovi posti da frequentare, nuovi gusti da scoprire, nuove compagne di giochi. Magari una nuova lei, stavolta mora.

Riesce a sentire il suono dei discorsi per conoscersi, lo schiocco delle labbra dopo i primi baci, il rumore del sesso vero, quello dei primi sei mesi, intenso, elettrico, percepisce l’odore del sudore, delle sigarette fumate nel letto e dei buchi sulle lenzuola. Sensazioni che non prova da troppo tempo.

Respira a pieni polmoni per assaporarle.

Marta, ti ricordi degli inizi?

Profumavate di estate, pinete e marijuana. Vi sfidavate, di continuo. Vi eravate conosciuti sfidandovi. Un incrocio di sguardi nei vicoli, due battute del cazzo sue, con quella erre impronunciabile, tu che lo sfotti, lui che passa il limite, ti guarda, ti sorride e ti schiaccia il bicchiere di plastica, provocando un’eruzione di granita sul tuo vestitino bianco, scoppia a ridere, tu lo insegui e lo prendi a pugni, lui si ferma di colpo, ti afferra per gli avambracci e ti bacia, tu ne approfitti per versargli l’altra metà della granita in testa, lui ride e ti sdraia sul cofano di una Panda Rossa, tu gli tiri uno schiaffo e gli dici che allora è proprio un pirla, che un pirla così non l’avevi mai conosciuto.

Quanto era bello essere due pirla, Marta.

Poi siete diventati seri. Vi siete innamorati. Avete iniziato a vedervi tanto, troppo. Vi siete abituati l’uno alla presenza dell’altra. Siete diventati una Coppia. Le sue stronzate non ti divertivano più. I tuoi discorsi lo annoiavano a morte. Le “vostre piccole differenze”, che all’inizio vi facevano morire dal ridere, si sono trasformate in crateri, vi hanno allontanati giorno dopo giorno.

Avete smesso di divertirvi, di flirtare. Non serviva più, del resto. “Le coppie si fanno i regali, festeggiano un mese, sei mesi e poi gli anni”. Mica flirtano. Due coglioni, Marta. Una noia mortale.

Claudio riapre gli occhi e si stacca dal muretto. Vorrebbe fare due passi, ma è pieno di pollini odiosi, una delle quarantadue sostanze a cui è allergico, meglio stare all’aperto il meno possibile. Aspetta l’autobus e scende dopo due fermate brevissime, in cerca di un caffè decente. Gli va male. Pure il Bar Plaza lo han preso i cinesi. Ma da quando?

«Buongiorno.»

«’Giorno. Un caffè, grazie.»

«Uno euro.»

Comunque la macchinetta è la stessa. Il caffè ci sta. Anzi, il cinese gli chiede pure se vuole un bicchiere d’acqua.

«Frizzante, grazie. A Milano non te la offre nessuno.»

«Io? Tanti anni a Bari, Puglia. Mi impararono lì. Il padrone di bar…»

Bruce Lee gli riempie la testa, Claudio non capisce una parola. Continua a pensare a Marta.

Cosa li teneva insieme, ormai? Affetto? Sicuro, tantissimo. Comodità? Anche. Paura di cambiare? Colpevoli.

«Grande, bella Bari. Pure io son pugliese. È meglio Lecce però. Alla prossima.»

Esce dal bar trottando. Addio Marta, ti ha amato tantissimo, ma è giusto così. Si sposino gli altri, per l’ansia di restare soli a trentun anni. Claudio Rizzi non accetta compromessi. A mai più risentirci.

Mai più… Cazzo, Claudio… è stata la vostra ultima telefonata.

Non la sentirai più. Mai più…

Cazzo.

Cazzo!

L’umore gli crolla di colpo. Non la vedrà mai più. Mai più. Gli sale una botta d’ansia. Afferra il telefono. Calma, Claudio, calma. 

Chiude gli occhi. Respira lentamente. Cerca una via di fuga dai pensieri negativi. Immagina una barca a vela, un gatto nero a prua, un libro nuovo e il mare aperto che li circonda.

Li riapre. Ha davanti l’asfalto di Milano, il cavalcavia di Corvetto e una domenica lunghissima in cui affogare nelle paranoie. Cazzo.

Pazza idea

«Contessa, ’sto volantino fa schifo al cazzo, manca di motivazioni politiche, si deve capire che: primo, lo facciamo contro i fasci di merda; secondo, chiamiamo a raduno i compagni nel giorno delle elezioni europee, domenica 5 maggio 2019.»

La Contessa scivola verso l’alto, spingendo il culo piccolo e sodo, da ex-atleta, contro il bordo della sedia. Il maglione largo da robbosa-radical-chic le facilita il movimento, azzerando l’attrito contro il legno. Si appoggia al tavolo con i gomiti, punta l’indice della mano sinistra contro la guancia e appoggia il labbro inferiore sul medio, fissando negli occhi Jeco, mentre con la destra fa roteare una penna tra le dita. Imprinting. Lo faceva sempre la sua prof di latino, prima di massacrarla.

«I fasci? Mi spieghi cosa c’entra la metropolitana coi fasci, Jé?»

«Figa svegliati!» Jeco tira una manata sul tavolo. Una pallina di cotone gli cade dalla barbetta roscia e sporca, piena di vuoti. Sembra che gli abbiano incollato dei peli pubici in faccia. Non sarebbe nemmeno così brutto se la tagliasse, è alto, viso regolare, fisico sportivo. Peccato che sia così coglione. Una massa bianchiccia e rossa con il cervello sempre impallato da qualche sostanza psicoattiva, che agita slogan. «La metropolitana la prendono i borghesini, chiaro? I borghesini sono quelle merde che si aggrappano con le unghie alle loro certezze, al loro pezzetto di successo, il posticino in azienda, la televisione grande, l’Audi. La paura li…»

«Te pure c’hai l’Audi, Jé» la Contessa lo interrompe. È il momento della domanda difficile all’alunno ottuso. Continua svogliata, sbiascicando lentissima le parole: «Io ho studiato Communications e sto a lavorà in azienda…» sospira profondamente «… che siamo anche noi fasci?».

Jeco sbrocca. Si gratta le narici e le ringhia in faccia punteggiandola di saliva: «Cazzo c’entra, idiota! Me l’ha regalata mio padre e mi serve solo come mezzo. A me non me ne frega un cazzo della macchina».

La Contessa si pulisce freneticamente col maglione, la saliva di un essere come Jeco le fa troppo schifo. Lo allontana con una spinta.

«Intanto ce l’hai! Guarda un po’! Sei un fascio? Perché devi sempre inscatolare la realtà in due macrocategorie? Che, stai alla scuola materna? Che c’entra quello che stiamo facendo col fascismo? C’hai capito qualcosa, zì? Una cosa, una.»

«Spiegatemelo voi allora! I cervelloni de’ noantri!» agita le mani in direzione della Contessa e del ragazzo con la felpa verde, intento ad allontanare con un foglio le briciole sparse sul tavolo. Gli si sono pericolosamente avvicinate, dopo le botte di Jeco alla superficie di legno, e minacciano la sua salute.

Sono briciole sporche, impastate di saliva, polvere. Si immagina miliardi di batteri che le cavalcano per attaccarlo. Non è in grado di seguire la conversazione.

«Ascolta, Jé. Se ti calmi te lo spiego. Noi vogliamo parlare. Comunicare. Scrivere una poesia con le fiamme. Far capire alle persone che stanno sprecando la loro vita. Che sono vivi oggi, solo in questo preciso istante e devono dare senso ai loro giorni, smetterla di svendersi. Che non hanno più scuse, perché potevano esserci loro in quella metropolitana. Per cosa sarebbero morti? Per pagarsi le rate del mutuo? Per due settimane di libertà all’anno in un posto figo? Per cosa stanno accettando di svendere la loro esistenza? Perché hanno smesso di lottare? Di cosa hanno paura? Delle botte degli sbirri?»

Gli occhi della Contessa brillano. «La morte fa più paura degli sbirri, Jé. Noi saremo una sentenza.»

Jeco la fissa muto, con la bocca spalancata. A lei ricorda una grossa cernia albina, pallida e confusa, con la vescica natatoria gonfia, dopo essere stata risucchiata da una lenza verso la superficie, catturata da una forza inarrestabile che non riesce nemmeno a vedere, figurarsi comprendere.

«Se mi permetti un appunto», finito il minuzioso lavoro di allontanamento delle briciole infette, GiamPaolo, felpa verde, ha iniziato a prestare attenzione ai due, «il tuo discorso è un poco una semplificazione… Molto teatrale, ma la chiave è un’altra. Non penso che il nostro ruolo sia essere dei giustizieri. Noi siamo più… come lo chiami… un megafono, sì? Saremo un megafono. Ci sono troppe storture in questa civiltà, Jeco, troppi umani consumati dal dolore. Noi saremo il canale espressivo. La conoscete l’agenda setting, sì?»

Jeco annuisce poco convinto, mentre continua a tormentarsi il naso. Non c’ha veramente capito un cazzo.

«Insomma, noi porteremo finalmente qualche discorso sensato sulle reti nazionali. Sui quotidiani. Nelle radio di tutto il mondo. A malincuore per i morti, non per ammazzare o punire qualcuno. I morti sono un effetto collaterale, servono per rendere l’azione notiziabile. San Gennaro li abbia in cuore.»

Ognuno ha una motivazione diversa. Stanno insieme per una serie di coincidenze, legati da una irrefrenabile volontà distruttiva.

La Contessa verso i suoi. Verso un padre che l’ha sbattuta a Milano perché potesse maturare e tranquillizzarsi, dopo che insieme a sua madre le aveva distrutto l’infanzia, l’aveva spinta verso l’autolesionismo, aveva nutrito in lei, con un perfetto dosaggio di anaffettività e mancanza totale di tatto, la sensazione di non valere nulla. Di essere un errore da cancellare. Li odia. Odia se stessa. Odia Milano, che avrebbe dovuto educarla, ingabbiarla, che l’ha separata da sua sorella, Flaminia, l’unica persona a cui era veramente legata nel mondo. Si sente sola, come mai nella vita, in una città fredda e spietata. Restituirà il colpo, con gli interessi. A Milano. Ai suoi. A questi stronzi con la camicia e una parlata insopportabile, che si sentono migliori di lei. Gusci pieni di valori materiali e privi di poesia. Credono di valere 5.000 punti, quando ne valgono al massimo 100, 115.

Per Felpa verde il rogo alla metropolitana durante le elezioni è l’occasione perfetta per incidere sulla società. Istruire finalmente con le sue teorie un’umanità disinformata e inesorabilmente diretta verso l’estinzione sicura. Le risorse non ci sono. Il lavoro non c’è. La giustizia non c’è. E intanto questi di che discutono? Degli equilibri della maggioranza? Di settanta poveretti da tenere in ostaggio in alto mare, come se la loro presenza potesse davvero modificare gli equilibri economici di un continente? Bisogna imporre temi più seri al mondo. In ogni modo possibile.

Jeco è molto più basico.

Esce fuori da un milieu culturale che sfornava esseri umani in serie, fissati con Vasco, gli 883, Discoradio, l’Honda SC, il mutuo a ventisei anni con convivenza inclusa, preferibilmente con la tipa del miglior amico del liceo. Non gli andava di diventare una fotocopia di suo padre e dei suoi amici. Ha cercato in tutti i modi un proprio spazio di diversità, un modo di vivere diverso da quello del Brianzolo dop. Un’identità.

All’università è sbocciato. Ha limonato in cortile con una napoletana aficionada al Leoncavallo che gli ha cambiato la vita. Macao, Cantiere, Tempio, Cox18, si è infilato in tutti i Centri Sociali e gli spazi occupati di Milano. Impazziva quando poteva fare bordello. Usare le mani, le bottiglie, i sassi: erano la dimostrazione che lui era serio, che c’aveva i coglioni, che anche se non capiva un cazzo della filosofia di Rosa Luxemburg, lui non faceva le chiacchiere, faceva le cose. Se ne fotteva se poi i compagni gli facevano un culo tanto. Godeva all’idea di essere diverso tra i diversi. Loro erano troppo morbidi, dei radical chic. Lui invece ’sto mondo lo spaccava, lo spaccava davvero. Lui avrebbe preparato a Milano una sorpresa che si sarebbero ricordati tutti.

«Va be’, filosofi, il volantino scrivetelo voi che io ’ste cazzate non le so fare. Ma invece, i soldi per la benza, poi? Come li troviamo? Figa, io non riesco a coprire tutto.»

La Contessa risponde cantilenante, sorridendogli: «Tranquillo Jé, ho aperto un progetto su Kickstarter».

Felpa verde si mette le mani nei capelli. «Oh, Valé, ma che dici! Potrebbero tracciare il nostro IP. Tu tieni la capa storta!»

«Giampà… ma secondo te ho messo davvero un attentato su Kickstarter?»

La Contessa inizia a ridere, i suoi occhi chiari, verdi ma un po’ blu, brillano ancora più forte, grazie al riflesso della luce sulle lacrime.

Le labbra rosse Kiko disegnano un sorriso impertinente, nascosto dietro al ciliegio tatuato sul braccio sinistro. Si passa le mani sulle guance per asciugare le lacrime, incasinando la frangetta nera e deformando il secondo tatuaggio, un piccolo cuore sul viso, sotto l’occhio destro. L’unico posto in cui i suoi le avevano chiesto di non tatuarsi.

Quo vadis?

Alle tre di pomeriggio, galvanizzato da una rarissima vittoria del Milan, Claudio prova a reagire. Sticazzi Marta. Finalmente una domenica libera dopo sei anni, senza il pranzo con i suoi, il giretto in Wagner, la cenetta a casa, i film di merda di Jason Statham, i bacetti a stampo prima di andare a dormire.

Claudio esce sul balcone. Brenta profuma di sole, feromoni, aperitivi da non perdere. Alle cinque e mezza incontra Simone, l’unico amico storico di Lecce rimasto a vivere a Milano dopo la specialistica, al Madama, Ostello Bistrot a quattro passi da casa.

Tre ore dopo è al quarto Spritz e balla sugli scalini dell’ostello incollato a un’americana. Allunga il viso verso le sue labbra. Lei arretra. Non si fida, gli italiani sono tutti stronzi. L’alcol rende Claudio sciolto: «Well, you will be in Florence in five days and then back to hunting grizzlies in Illinois, even if I’d love to, I don’t think that we have time to marry, sweetheart!».

L’americana ride. Iniziano a limonare sbronzi. La invita a casa. Lei ride sguaiata. «You are DEFINITELY running too much, honey… I have a boyfriend at home, you already made me do A LOT! I don’t wanna go to hell

Lui ricambia la risata. Brindano. «Well… then I’d better go away immediately.» Cerca Simone con lo sguardo. È lì a qualche metro – barbetta non curata, capigliatura alla Columbro, viso allungato macchiato dai segni dell’acne giovanile – che passa il telefono in mano a una moretta coi capelli corti. Claudio si divincola dalla Marylin dei poveri e gli sbuca dietro, abbracciandolo.

«Ueee, Simòòò.»

«Cugghiune! Cosa ci fai qua?» Simone spalanca gli occhi e inizia a indicare l’americana di Claudio con la testa, ticchettando ripetutamente verso destra. Solleva leggermente il pugno e inizia a muoverlo avanti e indietro.

Claudio la butta in machismo, così l’amico la smette di insistere: «No, dai, lascia perdere… compa’, c’ha ’sti fianchi che a circumnavigarli diventi Jules Verne».

Scoppiano a ridere e rientrano barcollando per prendere un altro bicchiere. Schema consolidato dei vecchi tempi. Appena uno prende il numero, l’altro lo aiuta a fuggire con una scusa. Un segnale di disinteresse fondamentale per la seduzione. Le tipe non se l’aspettano, specialmente se sono molto carine, abituate a battute continue, discorsi infiniti da disperati che cercano di fare di tutto per catturare la loro attenzione e portarsele a letto. Con una mossa del genere, i due guadagnano di colpo un valore immenso. Funziona sempre, da anni.

Escono fuori con due gin tonic. Dalle otto si passa di livello, è la regola. Si siedono sugli scalini esterni del Madama.

«Bro, facciamo un brindisi. Alla tua nuova vita da single.»

«Aaaah, cristo, Simò, proprio mo’ devi tirar fuori ’ste cose?»

«Tranquillo bro, non partire con le tue prese a male da lunatico. Continua a vivertela sereno.»

«Ma chi è sereno… Dai, offrimi una sizza.»

Simone lo fissa stupito, con aria giudicante. Arriccia le labbra sorridendo sornione. Sono quattro anni e mezzo che Claudio non tocca una sigaretta. A Marta faceva schifo l’odore e poi, alla fine, era una scelta giusta, le malattie, la forma fisica…

Lo fissa negli occhi e gli passa la paglia con un gesto lentissimo, allargando sempre di più il sorriso mentre la Marlboro Light si avvicina alle mani di Claudio.

«Dai, cogliò, ne fumo solo una mo’ che sono sbronzo, tranquillo.»

«Va bene, va bene, vediamo.»

«Comunque… Marta… sai che c’è, Simò? Alla fine, cioè, io penso che una parte di me la amerà per sempre… però… però compa’, tu la conosci… non so se era la donna… giusta… l’altra metà della mela, sai, queste cose…»

Simone sogghigna, «No.» Si ferma per enfatizzare la sentenza. «Non lo era.»

«Cioè, lei è fantastica e io giuro, in certi momenti, madonna, ci sono stato benissimo, ma…»

Claudio accende la sigaretta, con le mani leggermente tremanti. Inspira il primo tiro dopo quattro anni e mezzo lontani dalla nicotina. Il sapore fa schifo. Sembra carta bruciata. Espira velocemente, riprova con il secondo tiro. Leggermente meglio.

«Ma forse ci ho investito troppo… forse era finita tre anni fa, Simò. Cioè, dai, non eravamo credibili insieme. Lei biondina, perfettina, elegantissima, milanesissima, l’account manager modello. Lavoro e Temptation Island. Parlavamo solo di lavoro e Temptation Island ormai, cazzo…»

Al terzo tiro Claudio ritrova le note di tabacco. La sigaretta inizia improvvisamente a diventare piacevole.

«E io, cazzo… io… lo sai come sono io. Con un lavoro da sogno erotico di ogni bocconiano che a me fa cagare, trentamila dubbi esistenziali e i libri di Diego Cugia a casa. Non so, mi sembra di aver perso tempo.» Fissa il muro del consolato cinese davanti al Madama. Un altro tiro, ora la sigaretta è irresistibile. «Ma non solo per Marta, compa’, in generale. Mi sembra che vivo per lavorare e perdo tempo.»

«Mena bro, che te ne fotti. Cambia lavoro. Vattene se ti va. Parti per Londra. Mo’ pensa all’americana che domani ti svegli sereno, fidati di Simone tuo.»

«Ma lascia stare, quale americana… ho troppo casino in testa. Non mi va nemmeno di ficcare. Non lo so, non so neanche se me ne voglio andare. A Londra, poi? Fa freddo a Londra, cazzo. Poi pure che cambio azienda…. capirai… a te piace davvero lavorare?»

«Chiaro bro, sta tutto nello scegliere il lavoro giusto. Il lavoro è dignità. Non si può vivere senza.»

«Mah… a me fa schifo. Mi sembra di sacrificare la vita per far diventare qualcun altro più ricco. Ti giuro, vorrei solo restituire tutto quello che mi hanno dato, tornare indietro di otto anni, ricominciare a fare radio, rapinare un portavalori e passare le giornate a leggere libri, fare l’amore, parlare di politica e delle poesie di Hikmet con una criminale mora, nuda, bellissima, bagnata di gocce di anguria.»

Simone scoppia a ridere. «Ohimè, sinti sempre nu paesanu de merda. L’anguria! Ce si fessa

«Ma sì dai, Simò, seriamente… tu non ci pensi mai? A me sembra di aver vissuto per anni un gigantesco piano B della mia vita… Cosa ho ottenuto, compa’?»

Claudio spegne la sigaretta sui gradini del patio esterno del Madama, bruciandosi leggermente i polpastrelli.

«Uno splendido lavoro di merda, una carriera sfolgorante, una bellissima fidanzata educata e benestante… proprio un quadretto da metterci la firma… ma… ma in fondo, mi interessa davvero? Io, io non so se sono così. Mi sembra di aver vissuto per sei anni la vita di un altro.»

Simone alza il bicchiere. Aspetta il rintoccare di Claudio, il brindisi potente e acuto versa per terra gran parte dei gin tonic.

«A Claudio Rizzi allora. Bentornato!» Beve il primo sorso, poi si alza in piedi. «Ora basta paranoie ca me sta sfilacci lu cazzu. Torniamo dalle gringhe.»

Claudio rientra a casa alle undici e mezza completamente ribaltato, con il maglione vintage di Missoni fradicio di alcol e i capelli sfatti. Ha in bocca il sapore di lucidalabbra da quattro soldi all’albicocca e un succhiotto gigantesco sul collo. Cazzo, che roba da ragazzini. Crolla a letto felice, come non si sentiva da tempo. Chi ha deciso che a trent’anni la vita è finita? Col cazzo che è finita. Col cazzo.

Lunedì in pausa pranzo è dal barbiere. Recupera il suo vecchio napoletaglio che Marta odiava – rasato ai lati, con il ciuffo nero pece rigirato a destra –, si rade la barba per lasciare spazio a un paio di baffi girati all’insù da artista dannato. O da pornostar anni Settanta, secondo i colleghi.

Per tre settimane passa le giornate al lavoro su WhatsApp, cercando di assicurarsi il modo di uscire tutte le sere. Nasconde la nostalgia dietro a litri di alcol, pacchetti di sigarette, citazioni di Brecht e limoni occasionali.

Recupera il contatto di un vecchio amico che gli passava l’erba. Cazzo, è veramente buona. Si era quasi dimenticato il sapore.

Gira tutto. Gira tutto da Dio.

La vecchia ricetta da Sagittario, prendi il dolore, ammassalo sul fondo e chiudi tutto con un tappo di ottimismo ostentato, cazzate con gli amici e relazioni occasionali, sta funzionando. O almeno, sta funzionando come ha sempre funzionato.

Di merda.

Il quarto martedì inizia con una tremarella alla palpebra destra ormai ingestibile. Insieme alle cannette, ai drink, alle ragazzette, sono tornati le notti insonni e i tic nervosi.

La giornata continua con una lite al lavoro. Quello stronzo del Francese ha deciso di anticipare la riconversione dei vasetti di yogurt, dalla plastica al vetro, mandando a puttane sei mesi di pianificazioni e media buying. Bisogna risentire le agenzie e spostare tutto. Richiamare lo stampatore e anticipare la produzione dei materiali.

Alle otto di sera, ciliegina sulla torta, Claudio becca una story di Marta che ride dopo aver inquadrato due bicchieri in un ristorante pettinato. Due bicchieri? Perché due?

Prende un arancino dal siciliano vicino casa e gira una canna nel parchetto di piazzale Bonomelli, per rilassarsi.

Marta si sta rifacendo una vita, quindi. Bene, anche lui. Meglio così. Che sia felice. Lui lo sarà. Anzi, magari domani si licenzia e dice addio a tutti. Lei, il Francese di merda, Milano, tutti quanti.

Controlla il conto su Nowbanking. Col cazzo che si può licenziare. Crolla sconfitto sulla panchina, con la testa rivolta all’indietro.

Agevolato dalla postura, l’effetto dell’erba inizia a salire. I viaggi mentali aumentano di intensità. Sono viaggi grigi, sanno di solitudine. Sente le gambe dure e il petto pesante. Sfruttando l’autostrada emozionale aperta dal THC, una profonda tristezza inizia ad avvolgerlo, schiacciandolo sulla panchina.

Si rialza per tornare a casa. Cammina male, troppo rigido. Passo dopo passo, il respiro si fa più pesante. Sarà l’allergia, dai. Cerca un Robilas nello zaino. Allergia così improvvisa, però… strana. Che serata di merda. Asma allergica, dopo un arancino del cazzo mangiato da solo, mentre Marta ride e ordina del pesce crudo con chissà chi. Sarà sicuramente bellissima e radiosa, completamente sbronza dopo due calici di bianco. È questo il sapore della libertà? Ragazze inutili, rimpianti, un lavoro dal quale non può fuggire e una gigantesca nostalgia di Marta? Questa è libertà? Claudio, sei libero? Non sei libero, Claudio. Sei solo. Sei soltanto fottutamente solo.

Inizia ad agitarsi. La rigidità alle gambe sale agli addominali, poi al braccio sinistro. Il braccio sinistro, cazzo. Continua a respirare male, sempre peggio. Apre il portone e sale le scale dell’atrio di corsa, fino all’ascensore. Resta completamente senza fiato. Qualcosa non va. Il cuore batte troppo forte. Sì, sta proprio male. È qualcosa di grave.

Digita il 118 sul telefono. Si ferma, sta esagerando. Cerca il Ventolin nello zaino e lo ficca in bocca. Chiude gli occhi ed entra in ascensore. Preme a fatica il bottone del quarto piano, il braccio è sempre più duro. Un infarto?

Entra nell’appartamento e inizia a piangere, terrorizzato. Non può chiamare l’ambulanza, ha l’erba in circolo. Cazzo, cazzo, cazzo! Calma Claudio, calma! Sei fatto e stai sbroccando! Non è un cazzo, sei sano! Te li ricordi gli attacchi di panico? Sarà l’erba, sarà quest’erba di merda! Non fumavi da troppo. Strappa via il tappo dello Xanax e lo versa dentro una mezza bottiglia avanzata di Gewürztraminer. Liscio è troppo amaro. Poi una cardioaspirina, subito, contro la tachicardia. Ora passa. Si stende a letto.

Non basta. Non passa. Qualcosa lo avvolge intorno al collo, gli schiaccia i polmoni. Si rialza. Vertigini.

Tutti i sintomi di un infarto o di un attacco di panico.

Spalanca l’armadio per cercare il misuratore della pressione. Infila il braccio. Conta fino a trenta. Tutto regolare. No, cazzo. Non è possibile.

Un attacco di panico? Davvero? Dopo nove anni? Il ritorno di un incubo dal quale pensava di essere uscito. Claudio trattiene le lacrime a stento mentre raggiunge oscillando una bottiglia di nocino che la nonna gli aveva regalato per non fare brutta figura con gli ospiti.

Stappa. Incolla le labbra. Testa indietro. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto.

Un respiro profondo.

Nausea.

Sudore gelido.

Passi storti.

Ceramica bianca.

Vomito.

Nero.

01 giugno 2020

Libreriamo

Ho dato fuoco alla metro gialla è su Libreriamo - la piazza digitale per chi ama arte, fotografia libri e cultura!
Puoi leggere l'intervista qui: https://libreriamo.it/libri/siamo-davvero-liberi-risposta-libro-multimediale-carlo-bossi/

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Un libro intenso, verace, in cui ho sentito la forza rivoluzionaria che tutti noi cerchiamo sempre di seppellire, di cui abbiamo paura. Carlo, invece, questa paura non ce l’ha, anzi, l’ha presa e l’ha illuminata per noi, in una fantastica serie di pagine piene di scambi di dialoghi tra personaggi così reali che mi è parso di conoscerli da una vita intera. Un libro traboccante di emozioni, da leggere senza freni, che fa riflettere e ci aiuta a trovare il coraggio di cambiare. Il mondo, una città, un quartiere, noi stessi.

  2. (proprietario verificato)

    HDFAMG è un romanzo avvincente, una continua montagna russa che alterna momenti di quotidiana e ordinaria vita milanese ad altri in cui si sviluppano folli scenari, come se ci trovassimo in un film Hollywoodiano.
    Un viaggio da percorrere tutto d’un fiato, tra continui colpi di scena e momenti di forte disagio sociale, con la realizzazione del Piano Nero come unica via di uscita possibile.

  3. mirralessandro

    (proprietario verificato)

    Avvincente, fluido, sorprendente, non scontato. Il romanzo fa da cornice a interessanti spunti sociali, troppe volte sottovalutati, troppe volte calpestati dal ciclo veloce e continuo di un mondo che pensa solo ad “andare avanti”.

  4. (proprietario verificato)

    Recensisco per la prima volta in vita mia sentendomi tremendamente di parte, quindi a Carlo: missione raggiunta.
    Vivo in Corso Lodi, sono un giovane manager venuto dal basso tra gli schiaffi sociali e le lacrime, le inculate di falsi amici, le cannette paranoiche e la fatica di provarci ogni mattina.
    Questo é HDFAMG, una storia nostra. Corre forte perché non ti puoi permettere di svegliarti tardi ed ha il rumore sordo di chi urla rivalsa, di chi urla forte ma nessuno lo sente.
    Sono sicuro che tutti, hanno provato la sensazione del groppo alla gola. Qui c’è tutto, una centrifuga che separa all’esterno del libro i temi politici, sociali, relazionali, mischiando ad una suspence da Holliwood che ti tiene lì incollato.
    A certi libri puoi solo dire grazie, e a certi autori puoi solo aiutarli.
    CHE FIGATA

  5. (proprietario verificato)

    Un viaggio carico e intenso.
    Ho dato fuoco alla metro gialla si legge d’un fiato, complici una forma convincente, un linguaggio schietto e realistico, e una trama che ti risucchia fino all’ultima pagina. E in questo viaggio siamo chiamati a compartecipare alla continua ricerca dei protagonisti di un senso, di una realizzazione, dello squarcio sulla tela che sembra sempre inarrivabile. In questo viaggio si ride, si sorride, si riflette, si soffre e si ama forte insieme a Claudio, sullo sfondo di una Milano bella e maledetta, quella che ci fa dannare e innamorare ogni giorno.
    Un esordio croccantissimo, ancora complimenti!!

  6. (proprietario verificato)

    Una di quelle storie assolutamente non scontate in grado di fare nascere riflessioni su chi siamo oggi e su quali azioni possiamo mettere in atto “contro il sistema”.
    Si raccomanda la lettura in un ozioso pomeriggio domenicale perché la voglia di finirlo subito sarà assicurata!

  7. (proprietario verificato)

    Ho dato fuoco alla metro gialla è un romanzo moderno e coinvolgente, fatto di luoghi persone situazioni familiari a tutti. Approccia i temi sociali del XXI secolo con disinvoltura e spirito critico, senza risultare stantio.
    Una lettura senza dubbio appassionante e che lascia spazio a spunti di riflessione estremamente stimolanti!

  8. (proprietario verificato)

    Ho dato fuoco alla metro gialla è un romanzo avvincente dalla lettura scorrevole che ti cattura, pagina dopo pagina, accompagnandoti alla scoperta del Piano Nero, dei suoi personaggi e in primis di Claudio, il protagonista.
    Claudio, manager trentenne in crisi, é l’unico a conoscenza di quello che sta per accadere e l’unico che può intervenire… ma basterà e, soprattuto, vorrà bloccare il Piano? Ciò che resta da fare é leggere il libro e scoprirlo…

  9. ginevraharper

    Il primo aggettivo che mi viene in mente per questo libro è: CROCCANTE! Da leggere tutto d’un fiato, la scrittura ha un ritmo serrato e coinvolgente e le descrizioni, così ricche di particolari (ma senza esagerare, aspetto importantissimo), proiettano direttamente sulla tela dell’immaginazione la pellicola di un bellissimo film (mentale, come quelli del protagonista?). Mai un passaggio scontato, e questo, ne sono certa, costituisce la formula magica che renderà un successo quest’opera, che ha tutte le carte in regola per rappresentare un best seller dei nostri tempi: una fotografia cruda e romantica della realtà sociale di questi anni così assurdi e contraddittori. I miei più sinceri complimenti per l’esordio di Carlo come scrittore!

  10. (proprietario verificato)

    Vorrei definire questo libro “romanzo dark psicosociometropolitano”. L’ho letto tutto d’un fiato, tra parlata romanesca e dialetti del Sud snodati attraverso i luoghi di Milano. Ci ho trovato gli elementi che caratterizzano la società attuale: l’inerzia politica, il piattume aziendale, l’illusione dei social e il bisogno forte di rivendicare umanità. Tutto questo mentre un trepidante ” Piano Nero” incombe.

  11. (proprietario verificato)

    Un avvincente love-story revolucionaria alla Casa de Papel, dove i protagonisti ballano a ritmo di Indie in una Milano 2.0, frenetica e priva di scrupoli, fagocitatrice delle esistenze dei suoi abitanti. Claudio, 31enne fuori-sede “imbruttito”, vive in questo contesto secondo i paradigmi sociali del suo tempo, attanagliato dal senso di vuoto e attacchi di panico. Potra’ l’incontro con la pasionaria Valeria, giovane stagista radical-chic, cambiare il corso della sua abulica esistenza?

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Carlo Bossi
nasce a Milano nel 1987. Dopo aver trascorso infanzia e adolescenza tra Liguria e Salento, rientra a Milano nel 2006, dove si laurea.
I tredici anni vissuti a Milano da marketing manager milanese e studente fuorisede allo stesso tempo gli hanno permesso di scoprire il fascino e le infinite contraddizioni della città, raccontate nel suo romanzo di esordio,
Ho dato fuoco alla metro gialla.
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