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Diari dai giardini del mondo

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Dalla Colombia all’Australia, da Torino al Canale di Panama: un viaggio attorno al mondo diventa l’occasione per scoprire se stessi e per imparare che il tempo è una moneta di scambio più preziosa del denaro. Chi si lancia in questo viaggio non è diverso da un marinaio, che durante la navigazione appunta emozioni e sensazioni sul suo diario di bordo. La meta finale di quest’avventura sono i giardini del mondo: che siano fatti di corallo, di mangrovie, di cactus o di frutta tropicale, permettono a chi si imbarca di capire se ciò per cui combatte è davvero quello che desidera.

INTRODUZIONE

Le storie narrate di seguito parleranno a chi ha vissuto l’isolamento e la tristezza di vivere in una società che respinge o rifiuta lo spirito di conoscenza, l’evoluzione personale, la buona volontà. Intraprendendo un lunghissimo viaggio verso l’ignoto ho scoperto di “ammirare” il Mondo e ho pian piano deciso che questa fosse l’unica “carriera” che volevo veramente. Dove l’essere umano non ha risposto o ha provocato traumi, il mondo mi ha mostrato nascondigli e carezze vitali. Dove la società mi ha detto no, io mi sono detta sì. 

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Con questo diario romanzato voglio dimostrare che anche senza avere sponsor o visibilità da programma televisivo si può andare lontano. Cosa è “lontano”? Per me lontano era ed è qualunque cosa distante dalla media di risorse che si possiedono al punto di partenza: può essere l’acqua, può essere un’automobile, può essere studiare, può essere viaggiare.

Condivido parti del mio viaggio per due ragioni. La prima: per ricordare a me stessa di come sia riuscita a cambiare un “destino” anche quando pensavo di non poterlo fare, di come abbia lottato contro il perbenismo nella solitudine della mia personale etica, di come ne abbia costruita una in risposta a ciò che mi mancava veramente, di come abbia risparmiato risorse ed energie e di come mi sia liberata dalla paura e dalla severità con cui mi tormentavo. La seconda: per offrire sguardi e ragionamenti sui modi di vivere, spesso appannati dal bisogno di approvazione, da una sorta di prigionia emotiva e dall’interpretazione ambigua di necessità e doveri.

ENTROPIA ALLA FERMATA DEL BUS

Sydney, marzo 2017

Il caffè venne fuori borbottando. Cercai il fornetto per riscaldare brandelli di cena promossi a colazione, ma il fornetto a microonde era sparito da sopra il frigo, dove solitamente stava.

Forse era il caso di chiedere spiegazioni al mio coinquilino, ma forse era anche piacevole non sapere che fine avesse fatto; era quasi comico rimanere impalata col naso all’insù, le braccia protese in alto con la ciotola in mano. Diedi una veloce occhiata intorno, per capire se il fornetto fosse finito da qualche altra parte, ma non trovai nulla. Neppure fuori casa vicino ai cassonetti dell’immondizia e neanche nella stanza del mio coinquilino. Mi ritirai nella mia stanza, interdetta. Se si fosse trattato di una cospirazione, costatarne l’evidenza non avrebbe giovato in alcun modo. Restai a crogiolarmi per un attimo in quel dubbio e pensai che forse la scoperta di tale mistero non fosse affatto interessante…

Era evidente che l’oggetto non possedesse organicità fra le connessioni delle parti. Non avevo precedentemente notato tracce di “spirali” in nessuna delle sue componenti e neppure negli schizzi che si verificavano quando si faceva esplodere qualche pietanza al suo interno. Non era, né era stato, vivo. Non era stato composto da un solo materiale, ma da una complessità enorme di meccanismi e materie. Ma mi interessava? 

Gregory Bateson non l’avrebbe messo in nessun pacchettino. E nessuno dei suoi pacchettini sarebbe finito dentro il fornetto. Fu curioso che proprio quella mattina mi svegliai cercando di ricordare un paragrafo di Mente e Natura che avevo conosciuto durante i miei anni universitari: un giorno Gregory Bateson aveva portato un granchio bollito ai suoi studenti di arte chiedendo loro di addurre commenti atti a sostenere che l’oggetto in questione fosse stato un essere vivente. Non era un anello, né tantomeno un tavolo, non era una pietra preziosa né una bottiglia, bensì una carcassa, qualcosa che tempo addietro aveva ospitato la vita. Mente e Natura era uno dei pochi testi che avevo letto svariate volte e Gregory Bateson, biologo e antropologo, era fra i pochi studiosi che non temevano di occuparsi di faccende apparentemente poco connesse fra di loro nel modo di pensare contemporaneo e lo faceva esaminando proprio le connessioni. Ci pensavo perché mi ponevo le sue stesse domande, solo che lui lo faceva in modo meno idiota del mio. Lui aveva un seguito, io no, lui veniva ascoltato e finanziato, io no. Mentre pensavo a queste differenze e alle loro cause, inevitabilmente mi venne in mente la frase di Bateson: “perché le scuole non insegnavano mai nulla sulla forma che connette?”, insomma, perché non ci viene insegnato a scuola come tutto sia collegato e in che modo? 

Feci un riassunto veloce di cosa ricordavo di quel paragrafo: in una classe di studenti artisti, Bateson aveva portato due sacchetti, in uno c’era il granchio mentre dell’altro, all’inizio della lezione, non si sapeva il contenuto. Aveva chiesto ai suoi studenti di esporre delle argomentazioni sulla presunta appartenenza dell’oggetto in questione a qualcosa di vivente o che aveva vissuto. Pian piano si era esclusa la simmetria, arrivando all’asimmetria; dell’asimmetria non si esplorava cosa è più rispetto a cosa è meno, commentando la grandezza delle parti, ma si saltava a constatarne la qualità, implicitamente, la struttura, fatta di connessioni simili fra una chela e l’altra, fra le gambe e le braccia di un essere umano. Si era arrivati alla somiglianza fra le connessioni e altre connessioni dove il sistema zampe-di-cavallo era simile al sistema braccia-gambe. Poi Bateson aveva aperto il secondo pacchettino, dove vi era una conchiglia di strombo, e aveva ricordato come la figlia una volta, guardando il retro di un opercolo e appurandone la spiralità, avesse riferito che doveva essere appartenuto a un essere vivente. Curioso fosse che la figlia avesse ragione, e difatti Bateson, escludendo la Via Lattea e pochi altri eventi relativi al vento e allo scontrarsi di liquidi, aveva dovuto necessariamente parlare di come la qualità di spirale fosse una qualità che parlava di vita. Non a caso vi era nata tutta una speculazione, ma anche una constatazione, attorno a quella che era stata una più o meno semplice scoperta fatta da Leonardo da Pisa in merito alla riproduzione dei conigli: era la fortunata serie di Fibonacci e si ritrovava in innumerevoli strutture in natura, dal reticolo di un girasole alla posizione delle foglie su un ramo, dal guscio di un gasteropode alla struttura di un ananas. Per enumerarle tutte occorreva comporre un catalogo con quest’unico obiettivo. 

Un pensiero si formò subito nella mia mente dopo essermi immersa in questi ricordi di interessanti letture e singolari definizioni, facendomi sorridere: la distanza incolmabile che separava la biologia dalla filosofia doveva avere la stessa struttura di quella che separava l’arte dall’astronomia. Mi interrogavo sulla correttezza del desiderio di conoscenza che con anticonformismo sbucava fuori dalla realtà soffocata di “ben fatto” e apparente logica, come un bisogno congenito di far fiorire anche ciò che corre verso la morte: questo alito di vita cerebrale spingeva a interrogarsi di più e ad assecondare il bisogno eterno e umano di perfezionare la realtà e imitare la maestra, la natura, che aveva già fatto nella sua perfezione caotica le cose a spirale e le cose non viventi. Per me non vi era ragione di esplorare le cose con cui si era già d’accordo, ma vi erano infinite ragioni per capire il senso di ciò che non piace, la paura e forse anche la noia, così come il pregiudizio e la staticità. 

Mi guardai allora attorno e cercai di capire il mio appartamento, visto che era statico e senza segni di serie o spirali mi sentii profondamente ignorante. Forse non conoscevo abbastanza quella letteratura per scoprirla nella realtà, oppure la realtà era ignorante a sua volta e io ci vivevo stupendomi di apprendere altre “diversità”. Eccola, era lì: come si viveva quando finalmente ci si faceva assumere da qualcuno ed esser pagato (nel mio caso questo qualcuno erano tanti, perché non ero stata così fortunata da avere un solo lavoro con cui coprire tutte le mie spese), una sensazione di “sicurezza” economica mai provata prima, in un appartamento silenzioso nel paese dei miei sogni. Una eco suonò nel mio cervello di qualcosa che non avevo pronunciato neppure. Io non avevo il coraggio di dirlo, ma lui aveva la sfacciataggine di ripeterlo. Che schifo, diceva. 

Qualcuno bussò alla porta del vicino mentre consumavo il mio pasto freddo, forse anche nudo, e mi accorsi dalla finestra che erano tre bambini e che mi osservavano insistentemente quasi chiedendosi se quella stanza sul ballatoio non fosse la stessa alla quale stavano bussando e chiedendosi stupiti perché non si aprisse. Con quell’impertinenza dell’osservare le vicende anche quando “si dovrebbe” distogliere lo sguardo (dovrebbe?, mi chiedevo), soprattutto mentre qualcuno consuma un pasto, i tre bambini stavano a fissarmi. Mi costrinsi a fissarli a mia volta masticando con insistenza quasi a combattere quell’assurda regola per cui non si debbano guardare gli sconosciuti per più di un certo lasso di tempo o addirittura non si debba masticare di fronte ai vicini di casa. Mi stupii del fatto che i bambini portassero una torta, forse un benvenuto al vicino e al nuovo appena nato (e che quindi i bambini sapessero chi cercare e di sicuro non ero io la persona di loro interesse) e che quando la porta si aprì comparve una mano che prese la torta ringraziando, mentre i fanciulli spiegavano la ragione della loro visita. La mano si ritirò dentro casa. Ma allora perché mi guardavano come se fossi io la causa della loro attesa sul ballatoio? Perché non li avevo mai visti interagire con quel vicino? 

Quella mano ingrata afferrò il dono e strisciò al di là della porta lasciando i bambini lì, a non prendere una scelta; quella di non dire “no” a un eventuale invito a entrare, perché l’invito non ci fu. Magari l’insulso vicino aveva reagito così perché era nudo o perché era stanco dopo una notte di schiamazzi del figlio appena nato. Ma non mi impegnai in quest’opera di riscatto del vicino. Volevo solo giudicare il malfattore e concentrarmi sul non concentrarmi per l’assenza di quel dannato fornetto a microonde da sopra il frigorifero. Gli avrei comunque “tagliato le mani”, visto che del vicino di casa non avevo mai visto il resto. Anche i bambini rimasero per un attimo sul ballatoio, turbati per la velocità con cui quel vicino aveva arraffato il dono lasciandoli di fronte a una porta chiusa. Poi presero velocemente le scale verso il piano superiore. Forse erano parte di quella numerosa famiglia che spesso sentivo. La madre di solito urlava disperata e tirava fuori da quella sua situazione piena di odio un repertorio alquanto vasto di volgarità, di quelle che fluiscono quasi naturali proprio verso le persone che si amano di più. Era il paradosso della gentilezza: le modalità lessicali più forbite erano spesso una conseguenza dell’ambigua educazione che si perpetrava da sempre nell’umanità e che si imparava principalmente per essere usata con gli estranei più che con le persone conosciute o amate. Da un lato vi era la bellezza di potersi permettere tante confidenze con i familiari, dall’altro vi era la ricercatezza del comportamento sociale, le due faccende separate da un oscuro, quanto ignobile, muro di convenzione. Mi ripetevo ad alta voce: «Non si è gentili perché si ha un animo gentile, non si parla in confidenza perché si è a proprio agio. Semplicemente, ci si suicida nel perbenismo da un capo e nel più gretto turpiloquio dall’altro. Chissà se comunicando si comunicava davvero…». Avevo spesso assistito a quella blanda pedagogia che si attua nel privato: i genitori, pessimi comunicatori per antonomasia, resistevano alle marachelle dei piccoli perché all’inizio non ne prevedevano il risultato, e poi si procedeva verso una premurosa e vuota decadenza dove il rimprovero era uno sfogo di feroce rabbia più che un tentativo di intendersi davvero. Era triste, ma era reale. Se non fosse stato per la graffiante energia con cui arrivava lo scurrile repertorio del piano di sopra, da giù avrei provato anche simpatia per una vicina tanto esasperata. Compativo la poveretta, che forse quando aveva desiderato una casa piena di bambini non si aspettava che gli stessi le avrebbero anche avvelenato l’esistenza, piangendo costantemente e promuovendo un eventuale suicidio di massa fra le quattro spoglie mura entro le quali se le davano e dicevano tutto il giorno. A volte, durante le giornate più silenziose, temevo che qualcosa di importante e assolutamente prevedibile stesse accadendo. Poi ricominciavano a odiarsi e mi tranquillizzavo. 

Le relazioni che vedevo erano indissolubilmente legate alla sofferenza, che spesso, senza volere, si voleva. 

Magpies australiane urlavano fuori in giardino producendo suoni che la gente considerava orribili e assillanti, mentre per me erano tanto buffi, come mattoncini che crollano uno sull’altro da un piano rialzato, come se qualcuno picchiasse una finestra col vetro plastificato. 

Mi trovavo in Australia senza sapere più il perché e mi sentivo leggermente schiava della mia mancanza di routine. La città immensa e il mio status di immigrata mi imponevano di adattarmi alle sfortune del giorno balzando da una offerta orribile a un’altra ancor meno eccitante. Così fra un lavoro spacca-schiena e uno monotono, preferivo a volte quello spacca-schiena pur di provare appagamento grazie al vai e vieni dei clienti e al daffare. La fugacità con cui si alternavano il bello e il brutto mi davano la soddisfazione del non costruire nessuna aspettativa longeva. In un lavoro con delle scadenze più lunghe, per quanto versatili, avrei sofferto della triste malattia di chi si trova a fare una cosa “importante” senza sapere minimamente la ragione di questa importanza. Tanto spesso mi ero chiesta il motivo per cui la lingua fosse così crudele, ma allo stesso tempo autentica nel sottolineare queste trappole. “È finito sui giornali” o “è finito a dirigere una grande azienda” erano frasi illuminanti, erano frasi che raccontavano tutto e niente, ma raccontavano la “fine”. Erano la dichiarazione dell’orgoglioso raggiungimento e del potenziale assestamento premorte che ogni stazione presagisce. La partenza e l’arrivo. Finire. Finito.

Più grande era il raggiungimento più si “finiva”. 

Ecco, io non volevo “finire”. Detestavo la “chiusura” delle saracinesche e nonostante mi piacesse artigianalmente il “ben fatto”, mi piaceva anche lasciare una sbavatura se questa poteva servire a riaprire un libro chiuso o mettere in discussione tutto, ancora una volta, per sempre.

A quei tempi “pagavo” la mia relazione a distanza a suon di messaggi, di pensieri propiziatori, di densa nostalgia e trasognata pianificazione. Ricevevo in cambio qualcosa di simile, o almeno così pareva. Ero sicura che proprio nella distanza e grazie a essa si forgiassero le vere “corrispondenze” e difatti mi imbarazzava se queste si sfaldavano proprio quando dovevano dimostrare il loro funzionamento: come era possibile che la gente considerasse veri o reali i sentimenti solo quando dati dalla coesistenza di due parti amanti? Era assurdo: per me era forse più chiaro che essi vi fossero proprio quando non si potevano dimostrare quotidianamente. Ma era comune pensare che fosse il contrario: “Ti amo tanto, ma solo se sei vicino; se ti allontani non ti amo più”. Le frasi del tipo: “Se siete lontani non avete una vera relazione” mi offendevano. Quindi smisi di parlarne. Io vedevo le amicizie e le relazioni in modo geografico e forse anche geologico: una corrente formatasi a ovest aveva una grande ripercussione a est, lo scioglimento di un ghiacciaio aveva i suoi effetti anche ai tropici. Spesso come un pinguino alle Galapagos non ero neppure consapevole da dove venisse la mia fonte di vita, ma c’era, era presente e lo dimostravo io vivendo, per quanto in un luogo comunemente considerato impossibile alla mia vita fuori dalla mia latitudine. Questo giudizio globale, armonico e sconfinato dei sentimenti sembrava non piacere a molti e finivo sempre in conversazioni spiacevoli a causa dell’orribile bisogno di possedere e confinare che vedevo nei miei interlocutori. Forse loro erano pinguini più consapevoli di me. Io comunque pensavo che scegliere di non amare fosse più faticoso che farlo e basta e che “possedere” la vita fosse un atteggiamento criminale, perpetrato dal capitalismo a proprio uso e beneficio (ci si esercitava possedendo animali, possedendo farfalle, possedendo tartarughe o serpenti, finché non si arrivava ben preparati e laureati al possedere gli esseri umani, peraltro giustificando la faccenda con un “ti amo”).

Mi sembrava che le emozioni più forti dovessero sempre essere imbevute di nostalgia e lontananza. Non davo troppo peso al fatto che alcuni fossero in grado di amare part-time e part-sight. Amare senza esser corrisposti faceva produrre più letteratura e musica di quanto non lo facessero le vittorie e le soddisfazioni: gli uomini lo sapevano da secoli che soffrire era più epico che gioire.

Il giorno scorreva tutto sommato freddo, la lavatrice rumorosa al di sotto della mia stanza, nella cantina, finì il suo ciclo e quasi immediatamente una donna comparve dalle scale con un cesto, pronta alla raccolta del lavaggio.

Tolsi un capello caduto sulla manica, lo feci rigirare vorticosamente prendendolo fra due dita: questo diede una decina di giri di spirale. Lo gettai dalla finestra in parte aperta. La chiusi, guardai una magpie australiana che corrispose lo sguardo inclinando la testa sospettosa. Fino a poco tempo prima, per me, caricare una lavatrice, o persino avere una lavatrice, non era una cosa così scontata. Era bello adesso vantarsi del lusso di poter andare in cantina, metter indumenti dentro e dopo un’oretta tornare e trovarli magicamente puliti.

Mi preparai per recarmi a lavoro. Un filo di rossetto? Neanche per idea… 

Era inutile truccarsi per tutte le occasioni. Mi piaceva truccarmi quando mi piaceva andare dove dovevo andare. E non era quello il caso. Anche pettinarsi era una pratica assurda. Perché “aggiustarsi”? In fin dei conti, il mio corpo odorerà di ali di pollo fritte e l’unto delle padelle si espanderà molto oltre le braccia che lo toccano... Darsi una sistemata sarebbe stata una dimostrazione di affetto per se stessi. Ma anche fare un lavoro che mi piacesse doveva rientrare nello stesso insieme affettuoso. Non facendo l’uno, non valeva la pena fare l’altro e cominciai ad abbandonare il mio corpo e il mio aspetto ottenendo il risultato appannato che una preparazione non troppo ponderata genera: vestiti monotoni, poco costosi, non troppo comodi. Così, mi facevo inghiottire pian piano da quella insana fortuna di badare a se stessi, procacciandosi denaro, un tetto, del cibo, senza effettivamente badare a se stessi.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Un testo che ispira. Un testo che fa “viaggiare” nel mondo e forse anche nel proprio mondo.

  2. (proprietario verificato)

    Non vedo l’ora di leggere interamente questo libro che già dalla sinossi mi ha rapito. Diario di bordo introspettivo dell’autrice, ma allo stesso tempo potrebbe essere la vita di ogniuno di noi. Quindi ci aspetta un’emozionante vortice di vita vissuta ed sentimenti che molto spesso un romanzo non può neppure immaginare. Attendo con trepidazione il libro ed auguro all’autrice di navigare in acque sempre migliore.

  3. (proprietario verificato)

    Nonostante non possa definirlo perfettamente, potrebbe essere stato un sentimento di vicinanza, di coinvolgimento, o forse un invito all’evasione ad avermi convinto dopo la lettura dell’anteprima, a leggere i “Diari dai giardini del mondo” di Giulia D’Angelo. Amo leggere e scelgo le mie letture proprio perché “le cose sono diverse da come appaiono (Haruki Marukami – premio Nobel per la letteratura)” e ben pochi sono in grado di parlarne. Ritengo quindi che Giulia sia una di questi interpreti che uno vuole conoscere, perché più sensibili e soprattutto capaci di cogliere dettagli allo stesso tempo insignificanti nell’apparenza e ricchi di riflessi.

  4. Diana Buscemi

    (proprietario verificato)

    E’ un libro meraviglioso. Ho gia’ letto i primi capitoli e sin da subito Giulia ti accompagna per mano verso i suoi luoghi temporali e geografici. Il confine tra Narratore e Lettore si abbatte, e improvvisamente ti ritrovi a nuotare con lei, sentire gli stessi profumi, rumori, sensazioni e suggestioni. Se leggendo, ti ritrovi persino a parlare da solo/a e rispondere alle sue domande come se ti stesse ascoltando, non preoccuparti, vuol dire che tutto va bene 😉

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Giulia D'Angelo
È etno-musicologa, scrittrice, musicista e viaggiatrice. Appassionata di antropologia ed ecologia, ha intrapreso un lungo viaggio in solitaria dall’Italia all’Australia, servendosi di poche risorse e sfruttando tutti i passaggi possibili via mare/oceano e via terra. Da quando è cominciato il viaggio in parte narrato in Diari dai giardini del mondo, non si è mai fermata nello spostarsi e nel portare avanti uno stile di vita autonomo, coltivando l’interesse per la diversità, lontano da sprechi e conformismi. Quando è in Italia lavora come docente e operatrice culturale e turistica, quando è all’estero come marinaia, project manager o volontaria, visitando luoghi dove intraprendere ricerche indipendenti sul campo, vivendo di scambio o poco più. L’autrice insiste nel rifiuto della parola “carriera”, concentrandosi su approcci non utilitaristici con il mondo che la circonda, rapporti profondi e ispirati al metodo della thick description dell’antropologo Clifford Geertz.
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