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L’estinzione della ruota

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2032. La crisi climatica ha superato il punto di non ritorno: non importa quanti sforzi facciano gli uomini per frenare la deriva, nel giro di qualche decina d’anni la Terra risulterà invivibile per l’umanità. Nell’indifferenza quasi generale che accoglie questa notizia, due attivisti vengono colpiti da una nuova consapevolezza, anzi due e profondamente in contrasto tra loro. Per Edward l’unica soluzione possibile per scampare alla terribile agonia cui è condannata l’umanità è estinguersi, attuando un piano di sterilizzazione controllata. Lise, invece, arriva alla conclusione opposta: le scoperte del futuro potrebbero smentire la condanna della scienza, quindi è bene fare molti figli ed educarli alle tematiche ambientaliste, poiché uno di loro potrà essere colui che cambierà il corso della storia.

Come potrebbero visioni così opposte convivere in un mondo ormai condannato? La ruota non può girare in due sensi. E un uomo che vive nel 2111 lo sa.

2111

Quell’uomo ha distrutto l’umanità e l’ha salvata. A questo scelgo di credere. Tanto. I miei parenti più giovani, ormai, comprendono il mondo in cui sono nato molto meno degli alberi che mi circondano. E agli alberi, a qualcuno dei sempre più rari uccelli che sorvolano la nostra valle chiusa, mi sento molto più legato che ai miei inconsapevoli nipoti e pronipoti, di cui invidio la memoria afona, che a differenza della mia non ha paura di morire con essi. Forse l’ultimo atto di protesta contro la degradazione umana sarebbe gettare via questi fogli mezzi laceri procurati con mille difficoltà e andare ad addormentarmi contro un tronco morto, finché i funghi non attecchiscano su di me e su di lui.

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Sono l’ultimo dei narratori, il più inutile, quello che davvero, al di là di tutte le finzioni letterarie, non avrà ascoltatori.

Non sono in grado di affermare quale fosse la strada giusta. Allora ero troppo giovane per distinguere, ora sono troppo vecchio per credere che abbia un senso farlo.

Un’ambizione claustrofobica mi porterebbe a sperare che proprio nel mio cervello si giochi l’ultima partita, terminata la quale, indipendentemente dal risultato, l’interminabile chiacchiericcio con cui abbiamo ammorbato la Terra sarà finalmente spento.

Ma ci sono altre due parti in quest’uomo frantumato, una che teme e l’altra che spera che nei miei giovani parenti qualcosa di analogo ai moti della mia mente possa ancora avvenire. Qualche giorno fa per esempio, come se invece che alla fine mi trovassi ai primordi della mia specie, li ho visti tutti intenti a levigare con una selce un grosso sasso e infine scoprire la ruota. Mi è sembrato un atto di guerra. Ma forse quella pietra malamente arrotondata la useranno per rompersi la testa a vicenda.

Con loro non voglio scendere a patti più del necessario. Accetto di esprimermi nella loro lingua mista di gesti e smorfie quel tanto che basta per le comunicazioni indispensabili, per il resto me ne sto da solo, protetto da quel po’ di rispetto che mi dimostrano, a cui però qualcuno dei giovanissimi sempre più di frequente si diverte a contravvenire.

Voglio morire umano, come sono sicuro avrebbero preferito sia i miei genitori, che in nome della loro visione dell’umanità hanno lottato, sia colui che dell’umanità si è fatto curatore fallimentare, accettandone mestamente le conseguenze. Di tutti e tre, nella cappelletta laica che tengo in ordine ogni giorno dentro di me, ho sistemato i ritratti. Appaiati, alla stessa altezza, tanto che a volte mi domando quale dei due uomini sia mio padre. Che altro potrei fare? chiedo al me stesso che in questo silenzio finale riesce ancora a trastullarsi con pensieri di rancore e di vendetta. Sarà che in sogni di ribellione e di rivalsa sono stato cresciuto.

La nausea che provo a scrivere troppi “io” e “miei” e prime persone singolari è un buon segno. Forse sto diventando un albero.

2032

 

“Per anni, insieme a tanti colleghi, ho impiegato tutte le mie forze per far comprendere alle popolazioni e ai governi il danno irreversibile che stavano causando al pianeta, senza rendersi conto che lo causavano a loro stessi. È agevole non pensare alle conseguenze di un’azione, se queste non si manifesteranno che dopo la nostra morte e quella dei nostri figli. E questa mancanza di visione, questo rifiuto spesso ipocrita e interessato, è presente nelle singole persone non meno che nei governi e nei grandi gruppi industriali.

Ho messo al mondo dei figli con molta riluttanza, perché già allora, più di dieci anni fa, ero ben consapevole di come l’aumento della temperatura media del pianeta, con tutte le sue imprevedibili conseguenze, fosse a un passo dall’essere irreversibile.

Ora lo è. La conferenza straordinaria sulla crisi climatica, svoltasi nell’assoluta indifferenza generale a Berlino una settimana fa, non ha fatto altro che ratificare una realtà nota da tempo al mondo scientifico e, per quanto esso possa negarlo, anche a quello politico. L’ecosistema è condannato e con esso l’umanità, che quella condanna ha emesso. Ogni stima su quanto tempo rimanga prima che la Terra diventi invivibile è ormai un mero esercizio accademico, in ogni caso non più di cinquanta o sessant’anni. Ma la cosa non riguarda più né me né, soprattutto, i miei figli”.

Comincia con queste tragiche parole la lettera d’addio che il professor Ruben Thomassen, noto studioso dei cambiamenti climatici, ha inviato via mail ieri, 13 ottobre, un momento prima di suicidarsi portando con sé la moglie e i figli, al quotidiano Der Spiegel. Dalle prime ricostruzioni pare che la donna e i tre bambini siano stati soppressi nel sonno dall’illustre scienziato e non si siano accorti della morte che sopravveniva, anche se alcune ecchimosi sul corpo di Jonas, otto anni, non possono far escludere scenari più inquietanti.

Inquietante di certo è la motivazione che si intravede dietro queste morti, che si ricollega alle conclusioni della conferenza tenutasi a Berlino la settimana scorsa. Il mondo, riferiscono gli studiosi avvalendosi di solide documentazioni, avrebbe superato quel punto di non ritorno al di là del quale ogni tentativo di frenare le derive apocalittiche dei cambiamenti climatici, spesso prospettate dalla comunità scientifica negli ultimi decenni, sarebbe ormai inutile.

Nella sezione di Rotterdam del Partito per la Difesa della Terra, vista la cronica carenza di fondi, l’unico modo per seguire le notizie era una serie di vecchi tablet. Non si trattava però di una mera questione di difficoltà economiche. La linea del partito, infatti, rifiutava con forza gli Smartglasses. Meglio i vecchi ma meno lobotomizzanti smartphone. Il prezzo di questo rifiuto erano le frecciatine ironiche e le accuse di passatismo, tanto che alcuni membri del partito, incapaci di resistere alla possibilità di visualizzare i contenuti, Internet, chat, tutto, direttamente sulla retina, ne avevano comprato un paio che usavano in segreto.

Anche Edward, malgrado i sensi di colpa, avrebbe voluto procurarseli, ma per fortuna o purtroppo il suo stipendio da vicesegretario circoscrizionale del partito gli permetteva a malapena di vivere in città.

Finì di leggere per l’ennesima volta l’articolo e si guardò intorno, in cerca di qualcuno con cui scambiare qualche commento. Era talmente sbigottito che non sapeva come reagire. Sentiva di non essersi ancora ben reso conto.

Eppure era sempre stato molto bravo a rassegnarsi agli eventi negativi. Quando, dieci anni prima, era stato rifiutato dalla facoltà di Scienze Sociali dell’Università di Leiden gli erano bastate poche ore per convincersi che tutto sommato era meglio così.

Questa conclusione si era ulteriormente rafforzata un mese dopo, quando, mentre passeggiava nel Park Schoonoord, aveva incontrato Gretchen. Era evidente che l’unico interesse di quella ragazza fosse invogliarlo a entrare in un gruppo per la lotta all’inquinamento. Ma Edward non aveva potuto fare a meno di sconnettere l’udito, rispondendo sì a qualunque cosa gli dicesse quella splendida bocca, alla quale non sarebbe mai riuscito ad avvicinarsi a meno di venti centimetri. Quando infine aveva compreso cosa lei gli stesse proponendo, si era sentito sicuro di sé come non mai.

Non era nuovo, infatti, al movimento di protesta per il clima. Ricordava ancora il suo primo sciopero, a diciassette anni, quando per non essere da meno degli altri si era fabbricato da solo un grande cartello che raffigurava la Terra. Ci aveva inserito più dettagli possibile, così che più che un’immagine simbolica assomigliava all’opera di un cartografo dilettante. In seguito si era pentito di tanto zelo, perché il cartello pesava un’enormità, e reggerlo in alto comportava uno sforzo che gli aveva reso impossibile unirsi ai cori, così che di quella manifestazione ricordava solo un gran male alle braccia durato giorni.

Purtroppo, il suo gramo curriculum di attivista non sembrò impressionare più di tanto Gretchen, che oltre a possederne uno ben più corposo doveva conoscere altri che si erano distinti più di loro due messi insieme. Era chiaro che non l’avrebbe conquistata con le referenze.

Posò il tablet. I membri della direzione provinciale si stavano riunendo in capannelli, per nulla ansiosi che i ritardatari arrivassero per poter cominciare finalmente la riunione.

Si respirava quasi una certa allegria. Esacerbati da anni di infruttuose battaglie, circondati da indifferenza e fastidio, i militanti per il clima si erano abituati ad accogliere con gioia qualunque notizia che confortasse le loro opinioni e facesse apparire come indiscutibilmente giusta la lotta che conducevano.

Di fronte a quell’annuncio sconvolgente, la preoccupazione per i destini del mondo passava involontariamente in secondo piano. A prevalere in loro era una soddisfazione analoga a quella che il pensionato della scala B prova nel sorprendere l’inquilino del piano di sopra che spaccia droga ai ragazzini nel cortile. L’aveva sempre detto, lui, che in quel tipo c’era qualcosa di losco.

Il pensionato della scala B, però, può basarsi su un dato che nessuno si sognerebbe mai di sottovalutare: lui si mette a gridare, le luci degli appartamenti si accendono, il portiere accorre, le finestre si spalancano e chiunque può vedere l’inquilino del piano di sopra colto in flagrante. Chi potrebbe sostenere che lui non sia lui e che la polvere che ha in mano non sia droga e che quelli a cui la sta vendendo non siano degli innocenti tredicenni?

Con la Terra le cose non erano così semplici. Che fosse malata lo si sapeva da tempo, tanto che molti ormai non speravano più in una guarigione. Non volendosi impegnare in alcun modo per salvarla in extremis, si erano quindi rassegnati a vederla spegnersi poco per volta, dimenticando che un tempo era stata in piena salute. Coloro che si sforzavano di mantenersi lucidi, richiamando costantemente l’attenzione sul problema, assomigliavano agli occhi della maggioranza all’infermiera della nonna malata, che ogni volta che incrocia i parenti della vecchina nell’atrio della casa di riposo, non perde occasione per apostrofarli: «Povera signora Flaminia, oramai fa fatica persino a fare le scale. Io le chiedo sempre “Ma signora, i suoi figli, i suoi nipoti? Non la vengono mai a trovare?” e lei mi risponde con un mezzo sorriso e cambia discorso, ma io lo vedo che ci sta male». Non le si dà ascolto, tanto, anche se la nonna muore, il peggio che potrà capitare sarà che l’infermiera vi guarderà un po’ storto al funerale, dopodiché non la vedrete più in vita vostra.

Il mondo è sempre stato un condominio, ma in questo condominio tutti, chi più chi meno, spacciano droga ai ragazzini in cortile. Così il pensionato della scala B rimane sempre più solo, e se prende la parola alle riunioni più che prestare attenzione a lui si guarda platealmente l’orologio. E proprio per questo tanto maggiore sarà un giorno la sua contentezza quando la polizia verrà ad arrestare tutti, fosse pure l’ultima cosa che riesce a distinguere prima di avere un infarto per la troppa gioia!

Così, nella sede del partito, i membri della direzione e i militanti si passavano eccitatissimi i tablet che riportavano la notizia delle conclusioni degli scienziati e del suicidio di Thomassen.

«Vero che è fantastico?» esclamavano. «Guarda, dice proprio così, “irreversibile”! E poi si è ammazzato, che grande! Ora che c’è il morto non potranno più ignorare la situazione, dovranno darci ascolto, dovranno fare qualcosa!» L’euforia era tale che pareva quasi incongruo che nessuno avesse ancora stappato una bottiglia di spumante all’annuncio dell’inevitabile condanna dell’umanità.

Edward stesso non aveva potuto fare a meno di lasciarsi coinvolgere, in un primo momento, dall’eccitazione generale. Da quel giorno al Park Schoonoord, la passione per la politica si era impadronita profondamente di lui, e uno degli aspetti più gratificanti era potersi trovare sempre fra persone che la pensavano nello stesso modo, con cui poter condividere vittorie e sconfitte, queste ultime purtroppo molto più frequenti.

Gretchen gli comparve a fianco e si rivolse a lui con le lacrime agli occhi dalla felicità: «Ti rendi conto, Edward? Ci sono i dati, questa volta è certo!».

Un brivido lo costrinse ad appoggiarsi alla spalliera di una sedia. Come tutto quell’orrore fosse rimasto nascosto per tanti minuti, negli anni a venire Edward non se lo sarebbe mai spiegato. Vedendo che lui non rispondeva al suo sorriso, e anzi la fissava come se lei volesse rovesciargli in faccia un bicchiere di acido, Gretchen lo prese per le spalle e lo scosse. «Edward, ma ti rendi conto?»

Il sincero stupore di lei trovò un gemello in lui, con la differenza che Edward non fu in grado di restituirle la domanda. Era evidente che lei non si rendeva conto, nessuno di loro si rendeva conto. E il perché si presentò alla sua mente prima ancora che potesse domandarselo. Aspettavano quel giorno da troppo tempo. Di più. Si erano identificati con l’avvento di quella catastrofe, l’avevano annunciata per anni, erano stati educati a diffonderla, a “sensibilizzare”. Quella parola d’altri tempi si fece largo nella mente di Edward come un comico da cabaret di settant’anni ridotto a fare la parodia di se stesso.

Si sedette in un angolo della stanza, fingendo di immergersi anche lui in un tablet. Ormai i suoi compagni erano il perfetto contraltare delle persone ignare e infastidite a cui per anni avevano tentato di far aprire gli occhi, finendo per chiuderli anche loro.

Per comunicare un’immagine, un’idea, e fare in modo che attecchisca nella mente dell’interlocutore, questa deve essere potente, a colori vividi, esagerata, se serve, portata all’estremo, resa appetibile, intrigante. Catastrofi ambientali, guerre per le risorse, sconvolgimento delle stagioni, migliaia di chilometri di coste sommersi per sempre dall’acqua. Come si poteva pretendere che la gente prestasse attenzione a tutto questo se non presentandoglielo come una sorta di film d’azione? E loro stessi, gli attivisti, che quel film l’avevano scritto diretto e interpretato, una volta giunti a fine lavorazione si erano persi a guardarlo e riguardarlo, ancora e ancora. E quei pochissimi, specie fra le persone dotate di influenza, che avrebbero potuto cambiare non solo le proprie abitudini ma quelle di molti altri, l’avevano snobbato, preferendo dedicarsi a diffondere visioni della realtà ben più remunerative.

Così, ora che quella pellicola era in uscita in tutto il pianeta entro pochi anni, pareva che i compagni di Edward non stessero più nella pelle. Non riuscivano a vedere la realtà perché per loro, come per tutti, la crisi climatica ormai non era altro che un film. E se l’obiettivo che li aveva mossi all’inizio era stato salvare il mondo, ora, dopo anni di tentativi frustrati, non desideravano che aver ragione.

Una necessità più che vitale si impadronì di lui, trovare qualcuno che fosse riuscito ad andare oltre il primo momento di eccitazione e si fosse reso conto di quella realtà. La Terra, o perlomeno l’umanità, era condannata nel giro di poche generazioni. E non sarebbero state nuove politiche energetiche o di risparmio delle risorse a modificare di un’oncia la situazione. Si sedette, rinunciando in partenza all’idea di scuotere qualcuno dei suoi compagni chiedendogli che avesse da ridere. Sentiva che se si fosse alzato in piedi il vuoto alla bocca dello stomaco lo avrebbe costretto a piegarsi in avanti dal male.

L’inutilità lo afferrò alla gola. Fu come se gli sguardi ironici che aveva dovuto sopportare da quando aveva deciso di fare della politica il proprio mestiere, e che da tempo non gli facevano più effetto, risorgessero tutti insieme a dirgli amichevolmente che aveva sprecato la vita. In un supremo sforzo di autodifesa, però, riuscì a dirsi che la sua vita ormai non era più l’argomento principale, quella di nessuno. Anche se a ventiquattro anni avesse accettato l’offerta di quell’agenzia pubblicitaria, o più tardi quella di lettore di olandese in un’università spagnola, non sarebbe cambiato niente. L’annuncio di Thomassen lo avrebbe raggiunto in qualunque esistenza alternativa.

Era sicuro che presto avrebbe trovato qualcuno con cui confrontarsi. Ma per il momento tutti gli altri nella stanza si comportavano come dei tifosi la cui squadra avesse appena vinto il campionato, o come delle persone sommerse dai debiti a cui all’improvviso brucia la casa e che non stanno nella pelle al pensiero del ricco premio dell’assicurazione.

Impossibilitato a esprimere il suo orrore, il cervello di Edward rispose con una procedura d’emergenza mai applicata fino a quel momento. Desiderò morire.

C’era qualcosa di nuovo in Lise, quella mattina. Al telefono gli aveva detto «Buongiorno, Karl» con una voce troppo diversa, per poi mettere giù quasi subito dicendo che stava entrando al lavoro.

L’aveva tradito. Fu il suo primo pensiero, talmente fulminante da incenerire ogni altra ipotesi. Non si erano visti la sera prima, lei doveva andare all’incontro del gruppo per il riciclo, dove ormai erano in pochissimi. Si riunivano una volta alla settimana, a volte due. Per i primi dieci minuti qualcuno relazionava sugli ultimi dati dell’inquinamento da plastica, con percentuali che non finivano di scandalizzarli. Poi aprivano il dibattito e cercavano di escogitare nuovi mezzi per convincere più persone possibile della necessità di impegnarsi nella raccolta differenziata. Questa, dopo il suo momento d’oro all’inizio del secolo, era ormai una pratica in disuso di cui gli Stati non si occupavano quasi più, affidata unicamente alla buona volontà dei singoli.

Karl li ammirava, certo. Ma nonostante le quotidiane insistenze della sua fidanzata, si era sempre rifiutato di prendere parte a quelle riunioni. Gli sembravano onestamente inutili, e quanti finti impegni di lavoro si era dovuto inventare per non confessare a Lise quella verità!

«E se anche lei mi stesse nascondendo qualcosa? Io le mento ogni settimana, dopotutto, perché non potrebbe farlo anche lei? Forse che trovare scuse per non andare dai riciclatori è meno grave che trovarne per andare da un amante?» disse, mentre si rialzava dal water.

Per qualche anno si era sforzato di non parlare da solo. Era da matti, si diceva – ad alta voce – e lo faceva sentire in imbarazzo con se stesso. Poi aveva semplicemente smesso di tentare e ormai i suoi soliloqui non si vergognavano più di espandersi fino a diventare vere e proprie conversazioni, dove i punti di vista potevano a volte essere anche tre o più.

Tutto era possibile. La saletta dove si riunivano era dall’altra parte di Bonn e Lise avrebbe potuto confidare nel fatto che lui non sarebbe mai capitato lì per caso.

Si sferzò la faccia con l’acqua gelata per togliersi dalla testa l’immagine di lei che faceva sesso con un energumeno di due metri, o peggio con qualcuno che somigliava a lui, solo più sicuro di sé. O magari era un membro dello stesso gruppo, che l’aveva affascinata con le sue forti convinzioni a proposito della necessità di abolire la plastica per salvare gli uccelli marini. E dopo essere andati insieme qualche volta a distribuire volantini o a raccogliere materiale riciclabile nelle discariche per portarlo al Centro Autogestito di Salvataggio e Riuso, forse si erano fermati sotto casa di lui e si erano guardati negli occhi.

«E lei allora non ha potuto più negarlo a se stessa!» esclamò Karl appallottolando il filo interdentale.

Gli capitava abbastanza spesso di essere scosso da terrori analoghi. Lise era una donna molto bella, più che naturale che fosse sottoposta ogni giorno a numerose tentazioni. In certi momenti Karl aveva persino concluso che sarebbe stato assurdo da parte sua pretendere che lei gli restasse fedele. Tanto più che non abitavano insieme. Tutti i tentativi di lui per invogliarla a fare quel passo erano stati un miserando fallimento. Come se non bastasse, Karl era dotato di un’attivissima immaginazione. Quando gli capitavano quelle crisi ricorreva di solito all’enumerazione di tutte le donne che nell’ultimo anno avevano provato a sedurlo, non troppo alto ma comunque dignitoso. Subito dopo si ricordava la ragione per cui Lise si era messa con lui, ovvero il suo posto da dirigente in un’azienda che produceva auto elettriche. Dopo tre anni, sorrideva ancora al ricordo del loro primo appuntamento, un capolavoro di reciproco imbarazzo fino a quando Lise non aveva deciso per disperazione di porgli la domanda più banale del mondo: «Che lavoro fai?».

Del resto, benché fosse ormai quasi vicedirettore, la sua era tutt’altro che una posizione di prestigio. Dopo le nuove leggi pro-carbone e le grandi proteste contro i biocarburanti, accusati di togliere terreno alle coltivazioni, anche l’elettrico aveva gradualmente smesso di essere un business di punta. Rispetto a dieci anni prima, naturalmente, il numero di auto elettriche in circolazione era molto più alto, ma le entusiastiche previsioni di allora apparivano ormai come imbarazzanti castelli in aria.

Agli occhi di Lise, però, un uomo che avesse potere decisionale in un’azienda che lei considerava, data la situazione, quasi al pari di una ONG, doveva apparire come una specie di partigiano. In fondo anche Karl si vedeva così nei giorni buoni, quelli in cui il sole splendeva e lui andava al lavoro col sorriso sulle labbra. Ma quel pensiero gli era utile soprattutto nei giorni cattivi, quando aveva un disperato bisogno di convincersi che se si alzava dal letto per andare in quel posto, un motivo che non fossero i suoi due euro di stipendio c’era.

Non poteva nemmeno rifugiarsi nelle notizie, come era solito fare nei giorni di abbattimento. Si attaccava alle peggiori, guerre, attentati, quella nuova epidemia che aveva colpito il Ruanda. Le tragedie lo calmavano, fornendogli una misura delle cose. Quella mattina teneva banco il suicidio del climatologo che aveva massacrato la sua famiglia. Non gli fece né caldo né freddo. Lo giudicò un cretino. Aveva creduto di compiere un beau geste per attirare l’attenzione sulla conferenza sul clima e invece l’aveva messa in secondo piano, come se uno volesse sfoggiare un nuovo taglio di capelli e uscisse per strada nudo. Un esibizionista, un frustrato.

«È questo il problema con loro, ne fanno una questione personale.»

Karl ridacchiò, guardandosi istintivamente intorno. Non era certo uno di quelli che se ne fregavano della crisi climatica, ostinandosi a credere che fosse un’invenzione o un’esagerazione degli attivisti. Ma in cuor suo pensava che in molti, specie dal 2023-2024 in poi, avessero approfittato del precipitare della situazione per farsi pubblicità. Naturalmente c’erano state singole figure, anche poco note, del Movimento per la Terra che avevano lasciato una grande lezione di umanità e disinteresse. Ma per la maggior parte, pensava Karl, quei baldanzosi eserciti di attivisti, che avevano riempito le strade con manifestazioni e flash mob per quindici anni, gli sembravano solo alla ricerca di affermazione personale, e in definitiva avevano allontanato più gente di quanta ne avessero coinvolta.

In ogni caso, concluse, non importava che Lise avesse una storia con qualcun altro, purché lui non venisse mai a saperlo. «Ma se davvero sta arrivando la fine del mondo» si chiese Karl immettendosi nel traffico «lei con chi sceglierà di passare gli ultimi anni, con me o con lui?»

Gli erano sempre piaciuti i cimiteri. Da quando una lunga lista di celebrità aveva sottoscritto il manifesto Le nostre ceneri fertilizzino la terra, c’era stato un boom di adesioni al movimento per la cremazione universale. Alcuni paesi, fra cui Norvegia e Svezia, avevano reso illegale la sepoltura, aprendo alla dispersione delle ceneri, e quasi tutti gli altri li avevano seguiti. I motivi, al di là delle vaghe idealità, erano principalmente economici, oltre che di risparmio del suolo, visto che si era ormai quasi nove miliardi. Come conseguenza, molti cimiteri erano stati chiusi, esumando le salme e cremandole. Solo quelli storici erano stati risparmiati, ridotti a musei a cielo aperto dove ormai non andava quasi nessuno.

La madre di Edward, già malata, non l’aveva presa bene. La futura sua tomba era sempre stata uno degli argomenti che prediligeva. Forse era un modo per abbellire il pensiero della morte, abituandocisi un poco per volta. Quando fu necessario prendere seriamente in considerazione il tema, la sua mente era a tal punto obnubilata dalla sofferenza che non era più possibile discuterne con lei. Accettava solo un dosaggio minimo di antidolorifici. Se quel travaglio fisico doveva essere la sua ultima esperienza, diceva, voleva viverla appieno. Il tormento di Edward, al pensiero che le parole di speranza che scambiava con lei non erano che pietose illusioni, era mitigato dall’esasperazione per quella discussione infinita. Non sarebbero mai riusciti a farle capire che, fra disincentivi fiscali e tariffe esorbitanti, un posto in un cimitero era al di là delle loro possibilità. Il padre di Edward, che non la lasciava mai, tanto che le sue condizioni si aggravavano parallelamente a quelle di lei, non si era mai interessato alla faccenda. Sua moglie morta non lo riguardava. L’avrebbe seguita di lì a poco.

Edward sapeva che l’avrebbero fatta cremare. Era ovvio. Già le spese per mantenerla in vita a forza costringevano lui e i suoi fratelli a risparmi al limite dell’insensatezza. Quando era arrivato il giorno, coi suoi ultimi istanti di lucidità, lei gli aveva fatto promettere che avrebbero trovato il modo di seppellirla. Nella disperazione del momento, Edward aveva detto di sì, assolvendosi più tardi con la motivazione che le promesse fatte a un moribondo in preda al delirio non valgono. Avevano collocato l’urna sullo scaffale più in vista della libreria ed era finita lì.

Da quel momento, però, aveva cominciato a frequentare i cimiteri. Soprattutto quello di Crooswijk, dove sua madre era andata per tutta la vita a trovare la propria, ripetendo che un giorno avrebbe tanto voluto riposare accanto a lei e costringendo Edward ragazzino a trattenere le risa. Gli pareva così ridicolo che qualcuno potesse perdere tempo a indugiare sul pensiero della propria morte. In quei momenti, un po’ per non sghignazzare in faccia a sua madre e un po’ perché sopportava a fatica quell’atmosfera luttuosa e opprimente, si metteva a correre, riparandosi dietro le lapidi come su un campo di battaglia.

Anche quel pomeriggio si ritrovò lì. Ormai il cimitero era aperto solo un paio di giorni a settimana, in attesa che scadessero le concessioni delle sepolture che ancora avevano dei frequentatori. Ma Edward si era fatto amico il custode, che gli permetteva di entrare quando voleva.

Forse erano state le lunghe chiacchierate con i morti, in tutti quegli anni, a permettergli di mantenere una qualche forma di lucidità. La quasi certezza di non incontrare un essere umano aveva un che di tranquillizzante, come nascondersi sotto la trapunta quando un brutto pensiero ci perseguita. Normalmente di fronte ai monumenti degli sconosciuti del passato si sforzava di provare gratitudine, venerazione o semplicemente di porsi in ascolto. Ma quel giorno l’invidia era insopprimibile. Quelle lapidi corrose dal tempo avevano ai suoi occhi l’aria di ville di lusso, e quanto più erano antiche, quanto più illeggibili i nomi e le date, tanto più il destino dei proprietari gli pareva meraviglioso. Quella gente era morta dando per scontata l’acqua, o potendosi addirittura permettere, con una spesa modesta, di recarsi in luoghi dove l’aria era solo in minima parte contaminata. Si scosse, assalito dall’immagine di sé ultranovantenne che caracollava fra le tombe berciando smozzicati luoghi comuni da arteriosclerotico. Per quanto desolante fosse, avrebbe volentieri fatto a cambio con loro.

Una parte di lui avrebbe voluto ribellarsi a quel pensiero e mettersi a giocare alla guerra fra le lapidi come un tempo, tanto più che ora non avrebbe rischiato di incrociare sguardi di rimprovero. Ma era un riflesso passeggero, il cui potere si era ormai esaurito, insieme alla tentazione di abbandonarsi a eccessi di qualunque tipo. Da quanto tempo non si ubriacava? Negli anni dell’inutile corteggiamento di Gretchen, gli era capitato innumerevoli volte di svegliarsi con la cravatta e un mal di testa che non lo abbandonava fino alla riunione serale con gli altri dirigenti provinciali del partito. Si sedette per terra, domandandosi se non fosse il caso di chiamarla per invitarla a uscire. Non tentava un approccio con lei ormai da anni. Nove su dieci gli avrebbe detto di no, ma cos’aveva da perdere a parte il rispetto di sé?

Gretchen. Le era riconoscente. Nel tentativo di impressionarla aveva imparato a osare. La prima volta che si era incatenato a un albero secolare era stato per non essere da meno del suo fidanzato di allora, Hans, il quale peraltro l’aveva fatto solo per una mera esibizione di coraggio.

E quando in seguito si era esposto a rischi di quel tipo con motivazioni ideali ben più serie, come durante gli scontri di Monaco del 2026, quando insieme ad altri aveva tentato di sfondare la zona rossa in cui si svolgeva un summit fra i capi di stato europei, il pensiero che Gretchen sarebbe stata fiera di lui lo aveva sempre invogliato a non fermarsi.

Non si era tirato indietro nemmeno in circostanze di tutt’altro genere. Ancora oggi, quando costeggiava le rive della Nieuwe Maas, era preso da un leggero senso di repulsione e soffocamento. E dire che lei stessa, quella notte, lo aveva implorato di non tuffarsi, di lasciar stare. Hans però l’aveva fatto, così non c’era stata possibilità di tirarsi indietro. E poi, malgrado l’imbarazzo, si era addirittura divertito a sguazzare nel fiume.

Ma se nemmeno bravate come quella gli avevano fatto ottenere un solo momento di intimità con lei, per lo meno, pensava ormai, avevano contribuito a esaurire in fretta le sue riserve di spirito goliardico, le cui ultime gocce ormai sarebbe stato inutile rimpiangere.

Si era quasi vergognato quando, quella sera del ’27, alla festa per la sua elezione a vicesegretario circoscrizionale – l’apice della sua carriera – dopo aver provato senza troppa convinzione a misurare l’effetto della sua nuova carica su Gretchen, si era messo a pomiciare con Tilda, con una foga repressa che l’imbarazzo non era valso a frenare. Nei due anni successivi, in cui bene o male lui e Tilda erano stati insieme senza mai dirselo, Edward aveva constatato come l’ossessione per Gretchen fosse un modo molto pratico per risparmiarsi situazioni a cui non era minimamente interessato, come matrimonio o figli. Se era lei che amava, si ripeteva, che senso aveva costruire qualcosa con un’altra? Lungi dal giudicarsi un immaturo, si era sentito ancora più grato all’immagine di lei, e quella nuova consapevolezza gli aveva permesso di attraversare i vari flirt degli anni successivi con un piacere privo di attaccamento che, almeno a livello personale, aveva contribuito a risparmiargli molte ansie.

Minacciava pioggia. Edward andò a rifugiarsi sotto l’ingresso della piccola chiesetta di mattoni che sorgeva poco distante, fissando le lapidi più vicine per controllare se si sciogliessero a contatto con le gocce. La pioggia acida era un fenomeno rarissimo, ma lui metteva sempre in atto la procedura. Se l’era imposto anni prima, insieme a tutta una serie di pratiche obbligatorie che servivano, oltre che a tutelarsi dagli effetti dell’inquinamento, anche a rimanere sempre vigile e consapevole, a non considerare normale ciò che non avrebbe dovuto esserlo.

Anche stavolta la pioggia si limitò a intridere il viale che conduceva al cancello principale del cimitero. Trascorso qualche minuto regolamentare, Edward si incamminò per rientrare a casa. Fino a pochi anni prima rimanevano ancora tracce del selciato originario ma ormai la vegetazione ne aveva quasi del tutto ripreso possesso, fenomeno che ovviamente aveva coinvolto anche numerose tombe, che a lui in quel momento parevano le più fortunate in assoluto. Gli dispiaceva andarsene, tornare in mezzo a quell’umanità che, incurante della propria condanna, continuava a ronzare in cerchio a caccia dello sconto più vantaggioso. Ogni atto, per minimo o eroico che fosse, era diventato inutile, al punto che salvare una bambina da un incendio o girare lo zucchero nel caffè si equivalevano. Anche se quello stesso pomeriggio si fosse fondata una fratellanza universale, nel giro di qualche decina di anni il mondo avrebbe avuto un aspetto al cui confronto quel cimitero sarebbe parso la casa delle bambole. Perché aspettare? Rifugiarsi tutti lì, prendere per sorella una lapide e giocare a chi si decompone prima, ecco cos’avrebbero dovuto fare.

Il suo piede destro si incatenò al terreno. Per tutta risposta il sinistro, subito riportato all’ordine, si slanciò in avanti, rispondendo a quella parte del cervello che avrebbe voluto condividere con gli altri esseri umani quell’intuizione prima ancora che essa divenisse pienamente consapevole. Il cimitero si illuminò come se la luce di dieci anni si fosse concentrata in un istante, per poi ripiombare nel medio grigio topo che tutti chiamavano giorno dalla metà degli anni ’20. Infine, l’intero corpo di Edward trovò una propria stabilità e la sua mente fu in grado di metabolizzare il fulmine che l’aveva attraversata. Una risoluzione definitiva, come quando quel giorno del 2023, intervenendo dal palco al grande sciopero mondiale per il clima, aveva saputo, al di là di ogni razionalità e di ogni dubbio, che dedicarsi alla politica era la scelta giusta. Non c’era stato bisogno di discussione allora e non ce n’era adesso.

Terapia del dolore. Suicidio assistito. Eutanasia. Totale, universale, salvifica. Prima ancora di cominciare a soffrire. Era così ovvio che, vedendo le persone che oltre i cancelli del cimitero continuavano le loro vite, invece di cominciare ad allestire, da brave formiche rosse quali erano, i preparativi per l’unica reazione possibile alle notizie di Berlino, Edward ebbe l’impressione che fossero tutti sotto l’effetto di allucinogeni.

Alla strada che costeggiava la cancellata, percorsa da macchine e gente, si sovrappose, come se qualcuno gli avesse fatto indossare un paio di immaginari Smartglasses che potessero vedere nel futuro, l’immagine dello stesso luogo cinquanta o sessant’anni dopo. Bande che si disputavano una cassa d’acqua a colpi di mazza, un tifone che arrivava a devastare l’intero quartiere, vampate di calore che rendevano impossibile uscire di casa. Ma più ancora, ad annullare tutto questo, il mare, che dilavava a ondate successive Rotterdam, ormai un ammasso di cemento disabitato, dove qualche barchino si recava ancora a recuperare materiali dalle punte del grattacielo più alto del Gebouw Delftse Poort, che emergeva a tratti dal pelo dell’acqua. Le inondazioni del dodicesimo secolo, i bombardamenti nazisti che avevano letteralmente raso al suolo la città, al confronto sarebbero sembrati zuccherini. E i vecchi abitanti, quelli che avevano conosciuto Rotterdam da viva, esiliati chissà dove, presumibilmente a nord, per sfuggire all’avanzata del caldo.

Solo una visione si stagliava sulle pupille di Edward come alternativa a tutto questo. Un grande congedo collettivo. Una fuga? Sì, una fuga in extremis da tutte le conseguenze delle nostre azioni. Non è vigliaccheria se il dolore che si vuole evitare è sterile e definitivo, se nulla ne può nascere.

Fuga. Ma nemmeno questo. Si fugge per andare altrove, e qui un altrove, nel tempo o nello spazio, non c’era. Non una fuga, no. Una rinuncia, una presa d’atto. Un burrone senza fondo in cui raccogliere gli inservibili avanzi dell’umanità, un bicchiere di cicuta da bere tutti insieme prima che si facesse troppo tardi.

Perché fosse toccato proprio a lui vedere la realtà e trarne le conseguenze non aveva maggiore importanza del perché è un’anatra piuttosto che unaltra a guidare una migrazione. Ciò che conta è andare a sud prima dellinverno. E il sud, nel caso dellumanità, aveva un nome diverso. Estinzione controllata.

29 ottobre 2019

Aggiornamento

Ciao a tutti!
Siamo arrivati a metà della campagna, voglio davvero ringraziare tutti coloro che hanno sostenuto Le uniche strade e coloro che lo faranno!
Lunedì 4 novembre alle 20 sarò ospite di Come in Cantina su www.poliradio.it per parlare del testo.

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    “Tutti dovrebbero leggelo!”
    Ecco quello che ho pensato mentre leggevo”le uniche strade”. Il motivo per cui questo testo e imprescindibile è molto semplice, se pensiamo al tema dei cambiamenti climatici diciamo: ” povera Terra! Povere piante! Poveri orsi!”. Leggendo questo libro mi viene da dire: ” poveri uomini!” Non siamo abituati a percepire questo problema come qualcosa che ci riguarda davvero, si pensa: ” tanto non succede. Tanto il punto di non ritorno non arriva.” Eppure arriva.
    Mentre leggevo mi sentivo minacciata costantemente, costretta ad aprire gli occhi. L’autore non da scampo, ciò che descrive non è distopia, è ciò che accadrà tra pochi anni. E noi? Al di là degli orsi e delle piante che dato il nostro livello di evoluzione non possiamo comprendere, che cosa accadrà all’ uomo nel momento in cui inizierà il conto alla rovescia? L’ autore ci parla di questo.
    Quando ho finito di leggere ho avuto la certezza che questo libro può cambiare le cose. Se ancora c’è una speranza soltanto la cultura e la lotta possono cambiare le cose. La cultura serve ad aprire gli occhi. E questo libro mi ha davvero aperto gli occhi. Ora inizierò a lottare.
    Grazie, Jacopo Zerbo

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Jacopo Zerbo
nato a Venezia nel 1986, vive a Milano. Diplomato nel 2009 al corso attori della Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi, ha lavorato in teatro con diversi registi, fra cui Mimmo Sorrentino, Jean-Claude Penchenat e Dario Fo. Con quest’ultimo ha collaborato per alcuni anni anche come assistente alla scrittura, curando la realizzazione di numerosi testi, fra cui La figlia del papa. Insegna dizione presso l’Accademia Teatrale Veneta e tiene vari corsi di dizione e teatro. Nel 2016 è stato finalista al Premio Histryo – Scritture di scena.
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