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I sogni non fanno rumore

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I sogni, si sa, ogni tanto ti coinvolgono in un contropiede fulminante. Così Giulia, studentessa universitaria, si trova ad alternare tacco dodici e tacchetti da calcio in un turbine di vicende che la vedrà protagonista. Scoprirà che in amore, come sul campo da gioco, è meglio attaccare che difendere.

Nota dell’autrice

L’idea prima del libro nasce grazie alle mie compagne di squadra e ad una serata un po’ malinconica in cui, per scherzo, ho deciso di mettere nero su bianco le nostre avventure sportive. Il nucleo iniziale si è poi via via arricchito ed è diventato una storia completamente diversa, che però racchiude tanti pezzetti di storie, alcune inventate, altre realmente accadute. Sono veri alcuni personaggi, sono vere le emozioni, sono veri i sogni, sono veri i ricordi.
In memoria di chi non può leggerlo, ma che può in qualche modo rivivere tra le sue pagine.

I

Non sono i sogni a imbrogliarci, ma la realtà. Era stato solo un sogno? Me lo sarei chiesta tante e tante volte dopo quel giorno senza mai trovare una risposta; o forse avevo inconsciamente deciso di rimanere avvolta in quell’immagine dolceamara che mi toglieva il fiato, come la nebbia quando, fuori dalla finestra, sembra tagliare l’aria e spezzare il respiro.

Mi ripetevo quella frase della Tempesta di Shakespeare “Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono intessuti i sogni e la nostra breve vita è avvolta dal sonno” e pensavo che, se l’aveva scritto Shakespeare, doveva essere vero.

Ma all’inizio di questa storia ancora non me ne preoccupavo, impegnata com’ero tra studio e allenamenti. Il solo tempo che mi concedevo per sognare a occhi aperti era quando mi lasciavo cullare dal treno che mi accompagnava tutte le mattine alla facoltà di Lettere e Filosofia. E anche allora ero decisamente meno interessata ai sogni e più alle metafore.

Quella mattina, ad esempio, avevo realizzato che il calcetto era la più grande metafora dell’amore che io conoscessi. Come l’amore, infatti, scatena stati d’animo contrastanti quando conduce alla gioia folle o trascina negli abissi della delusione; come l’amore è stretto compagno della fortuna: quasi sempre, infatti, non basta solo fare le mosse giuste per vincere perché in un attimo tutto può cambiare. Come in amore, così sul campo da gioco, è meglio attaccare che difendere, essere inseguiti che inseguire.

Persino la stanchezza durante una partita è paragonabile all’innamoramento, perché in entrambi i casi non si pensa, ma si agisce d’impulso. Tutto assume una prospettiva completamente diversa quando manca il fiato e quando il cuore pulsa a ritmo sostenuto, incontrollabile… tum tum tum. E poi, come il calcetto, l’amore è una partita durissima: ci vogliono protezioni forti e un animo fermo e, nonostante tutte le accortezze, alla fine qualche livido lo si rimedia sempre. Non è uno sport da femminucce, l’amore.

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Il calcetto è una metafora, ne sono convinta, ma è anche un ossimoro: non è possibile giocarci così, a cuor leggero, come se fosse uno sport qualunque. Per una ragazza, sceglierlo significa trovare importanti compromessi tra eleganza e aggressività, potenza esplosiva ed equilibrio interiore, tacco dodici e tacchetti.

C’è chi dice che non sia adatto alle donne o meglio, che chi gioca bene a calcetto sia poi sgraziata e poco femminile. Io e la mia squadra non siamo d’accordo. Noi, le Pantere, abbiamo scelto una divisa nera e sciancrata, sappiamo muoverci nel campo come i felini e, come loro, possiamo coniugare eleganti passi felpati e artigli affilati.

Certo, non è facile mantenere la vetta della classifica, una buona media all’università e una interessante vita sociale, ed è per questo che per essere delle vere Pantere bisogna avere doti straordinarie: non a caso il nostro motto, scritto a caratteri cubitali sullo striscione che srotoliamo fieramente all’inizio di ogni partita (o almeno a quelle in cui speriamo di vincere) è “Leoni in campo, Pantere in disco”.

Abbiamo la fama di essere la squadra più bella del campionato o almeno così dice Luca, il nostro allenatore. In effetti ai tornei misti riscuotiamo sempre un discreto successo tra le squadre maschili che ci incitano urlando i nostri nomi scritti sul retro delle magliette.

Certo, non si può piacere a tutti: il custode della palestra, ad esempio, credo ci odi, perché tutte le volte in cui giochiamo in casa di venerdì sera si arrabbia e ci urla che ci mettiamo troppo tempo a lavarci, pettinarci, truccarci e che è tardi, che lui ha diritto di andare a casa a un orario decente.

Quello che non capisce, e che non potremo mai spiegargli, è che fare la doccia dopo la partita richiede tempo e concentrazione perché è anche (e soprattutto) una questione di condivisione di emozioni, di storie, di sogni, maturati dentro e fuori dal campo. Perché la squadra è, per noi, una sorta di seconda casa e lo spogliatoio equivale alla tipica cena all’italiana, quella in cui tutta la famiglia si riunisce intorno alla tavola, si racconta i successi e le sconfitte della giornata, litiga, scherza.

Quello che non capirà mai è che in famiglia ci si può anche far vedere in pigiama, struccate, scomposte, mal vestite, ma tali libertà non si possono mantenere anche fuori. Qualsiasi ragazza che abbia praticato sport sa che ci vuole un bel po’ di tempo per riassumere un aspetto accettabile al termine di una gara, soprattutto quando si hanno i capelli lunghi e la pelle irritabile.

A dire il vero, però, io sono ritardataria di natura e spesso faccio arrivare tardi agli allenamenti anche Francesca, la mia compagna di viaggio durante gli spostamenti casa-palestra.

A proposito, anche stasera me la sono presa comoda: è ora di andare. Spengo il computer e butto nella borsa le ultime cose: calzettoni, accappatoio, biancheria di cambio. Scendo le scale di corsa. Fra mi conosce ormai e mi aspetta, con il finestrino abbassato a sfidare il freddo e la musica da discoteca a tutto volume. Tunz tunz tunz.

I suoi grandi occhi azzurri mi fissano sorridenti, mentre muove ritmicamente le mani nella mia direzione; i capelli biondo scuro sono già legati in una piccola coda, con i ciuffi più corti fermati dalle mollette, pronta per affrontare le due ore di allenamento. Io improvviso un balletto in strada, con i capelli ancora sciolti e il borsone sulle spalle, sproporzionato rispetto alla mia corporatura minuta.

Abbassa adesso, altrimenti prima o poi i miei vicini mi avvelenano i gatti!

Per tutta risposta, Francesca mi sorride: lo sa che il balletto in strada è la parte dell’allenamento che preferisco. È diventata, ormai, la mia psicologa di fiducia: in realtà studia ingegneria, ma possiede la dote straordinaria di saper capire e aiutare le persone con la parola e così, quando qualcosa non va, la prima persona che chiamo è lei che, pazientemente, mi ascolta. All’inizio, quando ancora mi conosceva poco, si preoccupava per me, per i miei schizzi d’umore e per la mia costante iperattività, ma pian piano si è abituata e ha capito che sono fatta così e non bisogna farci troppo caso.

Tutto bene?— le chiedo mentre mi allaccio la cintura.

A parte l’aver scoperto che Federico è fidanzato, direi di sì.

Non siamo molto fortunate in amore, ultimamente. L’ultima mia uscita con un ragazzo è finita con una litigata nel parcheggio del centro: mi ha provocato con una battutina sui miei stivali nuovi e io gli ho risposto per le rime. Forse ho un po’ esagerato definendolo “sfigato senza personalità con un abbigliamento pre-confezionato”, però non ero stata io a cominciare. E poi che uomo è uno che non sa nemmeno tener testa a una schermaglia verbale? Decisamente non era stata una bella esperienza, però avevo fatto ridere tutto lo spogliatoio per una settimana con il racconto dettagliato della serata.

Nel parcheggio di fronte alla palestra le macchine ci sono già tutte. Saluto, mi cambio velocemente, indosso la fascia per i capelli. Sono pronta.

II

La professoressa Anceschi aveva appuntamento con il professor Rossi quella sera per discutere di alcune questioni filologiche e, soprattutto, per chiacchierare come erano abituati a fare fin dai tempi dell’università.

Lui la passò a prendere, con il suo solito ritardo accademico e la fece accomodare in macchina. Il viaggio verso il ristorante si svolse in silenzio, cosa che non stupì il professore.

Entrati nel locale i due potevano apparire come una coppia affiatata e non di rado, in effetti, venivano scambiati per marito e moglie, tanto che ormai non ci facevano più caso e avevano smesso persino di specificare che erano solo amici di vecchia data.

La professoressa Anceschi sfogliava distrattamente il menù; era palesemente agitata e il suo amico glielo fece notare: — Ormai dovresti esserci abituata. Quanti anni sono passati?

Potrebbero trascorrere anche cent’anni, ma non credo mi abituerò mai— rispose lei, un po’ risentita per quella domanda così diretta, poi aggiunse: — Ordiniamo?

Il professor Rossi sospirò e accettò il fatto che, anche quell’anno, non sarebbe stato molto diverso dal solito. Alzò la mano e chiamò il cameriere: — Siamo pronti.

***

Il campionato è appena iniziato e io sono ancora ignara del fatto che quest’anno rappresenterà per me una svolta importante, che mi cambierà la vita, definitivamente.

Stasera si gioca fuori casa e loro sono davvero forti, potrebbero fare una strage. Lo striscione resta arrotolato in macchina: meglio non rischiare. Fa freddo in montagna. Forse tengono il riscaldamento basso apposta, perché loro sono abituate alle temperature più rigide e noi no. Le padrone di casa sono una delle squadre più forti del campionato e si sentono già la vittoria in tasca. Prendo un po’ di Gatorade e lo offro alle altre: — Ragazze, droghiamoci di sali minerali!—. Nessuna ride stavolta. Siamo concentratissime.

C’è anche mio nonno stasera: da quando vive in montagna non può più seguirci come vorrebbe, ma alle partite vicino a casa sua non rinuncia mai. Lui è l’uomo che in assoluto amo di più al mondo, una delle poche persone che tutti adorano per la sua dolcezza e generosità. Devo dare il meglio, solo per lui.

Luca, il nostro mister, ventiquattro anni e un fantastico fisico da calciatore, mi guarda dritto negli occhi: — Stai attenta alla numero sette, tecnicamente è molto forte, se prende la palla è finita. Marcala stretta e cerca di vincerla in velocità. Non provare a scartarla, è inutile.

Annuisco e indugio per un attimo sul suo profilo elegante e sul suo sguardo concentrato.

La prima volta che l’avevo visto era fine marzo. Era una di quelle tiepide giornate primaverili che invitano il cuore a riaccendersi, dato che il freddo è passato. Non l’avevo subito notato, quella mattina, mentre bevevo di fretta il mio cappuccino seduta al tavolo del bar a Bologna. Ero al primo anno di Lettere Classiche e la colazione di fronte alla facoltà era ormai diventata una tradizione. Avevo un esame e per ripassare avevo riempito il tavolo di appunti e libri; quando mi ero accorta di essere in ritardo, avevo frettolosamente ammucchiato i fogli e, con il portafoglio in mano, mi ero alzata di scatto. Per un pelo non ero finita addosso al ragazzo seduto al tavolo dietro di me.

Ops, scusa— avevo farfugliato velocemente, senza guardarlo.

Nessun problema— aveva risposto lui sorridendo gentilmente, mentre infilava la borsa a tracolla sulla giacca di pelle marrone. Mi ero voltata. I suoi occhi verdi e le sue labbra morbide non potevano passare inosservate: aveva un che di rinascimentale nell’aspetto e nel modo di comportarsi, un’eleganza raffinata nel parlare e nel muoversi, una delicatezza leggera nel sorridere e nell’osservare. Avevo accennato un mezzo sorriso, imbarazzata per aver indugiato un po’ nel guardarlo e avevo aperto il portafoglio. Che era vuoto. Cavoli non ho prelevato e adesso farò tardi all’appello. Stupida!

Posso offriti io la colazione? Come “in bocca al lupo” per l’esame.

Poi, in risposta al mio sguardo interrogativo, aveva aggiunto indicando i fogli che stringevo tra le mani: — Hai un esame vero?

Sì, in effetti sì… è che…—. Stavo diventando tutta rossa.

Beh, mi salvi la vita perché non ho prelevato e rischio di fare tardi all’esame…

Andata! Ci rivediamo qui domani alle nove, così mi racconti dell’esame— aveva detto sorridendo senza lasciarmi finire.

In bocca al lupo!—. E con il suo passo elegante si era diretto alla cassa. Ci avevo pensato per tutta la mattina: mi aveva lasciato dentro qualcosa di inspiegabile, confuso, irrisolto, e il ripensare a quell’incontro fugace, stranamente, mi faceva sorridere.

Il giorno dopo, mentre mi avvicinavo al bar con il cuore che batteva all’impazzata guardando tra i tavoli se per caso fosse già arrivato, Luca mi era comparso di fianco con un allegro “Buongiorno” che mi aveva fatta sobbalzare.

Era ancora più bello del giorno precedente e i miei occhi si impigliavano in modo sfrontato sul suo sorriso perfetto, sulle sue spalle vigorose, sul collo tornito, sulle sue mani. I capelli neri scompigliati dalla brezza del mattino contrastavano piacevolmente con il verde mare dei suoi occhi, li incorniciavano, li indicavano e quel verde attirava i miei, come una calamita.

Mi hai spaventata! Ma da dove sbuchi?—. Cercavo di nascondere l’emozione, ma non sono mai stata brava a dissimulare.

Io abito qui dietro— aveva detto sorridendo, come se fosse una risposta alla mia domanda.

Non sai che fortuna hai a evitarti la vita da pendolare. Io abito a Modena e non sai cosa darei pur di non prendere il treno tutte le mattine. Alle otto l’unico pensiero di tutti quelli che sono ammassati sul binario è di accaparrarsi un posto: è una guerra e non si guarda in faccia nessuno. Quindi, per noi studenti, abbigliamento comodo, zaino e via! Anche perché bisogna essere pronti a correre per non perdere il treno nel caso la lezione finisca tardi; diciamo che potrei quasi evitare di andare in palestra con tutto il movimento che faccio per frequentare l’università… almeno così non rischio di diventare gobba come Leopardi!—. Stavo come al solito parlando troppo. E poi quella di Leopardi come mi era venuta? È uno dei miei autori preferiti e lo stavo svendendo solo per fare colpo su un ragazzo!

Luca aveva semplicemente sorriso e ribattuto al mio monologo: — Anche io abito a Modena, cioè i miei genitori abitano a Modena. Avevano un appartamento qui a Bologna e così mi sono trasferito per essere più comodo a Giurisprudenza. O almeno, questa è stata la scusa ufficiale.

Beh, una bella fortuna! Quindi sei quasi un avvocato?

Per ora sono solo uno studente del secondo anno.

Luca mi fissava e io frugavo nella borsa come alla ricerca di qualcosa nel tentativo di nascondere l’imbarazzo.

Beh, non mi dici niente?

Cosa ti dovrei dire?

Ma non avevi un esame ieri?

Ah già, sì sì. Dimenticavo…—. Bella figura, stavo di nuovo diventando tutta rossa.

Abbastanza bene, ventinove.

Lo sapevo, sei una secchiona! Non si dice “abbastanza bene” quando si prende un ventinove!

Ora penserà che l’ho detto apposta per vantarmi.

No, non volevo dire quello è che…

Lui, per fortuna, aveva rotto l’imbarazzo con una bella risata: — Dai, sto scherzando! A proposito, non ci siamo ancora presentati: io sono Luca.

Parti titolare, fascia destra— sentenzia Luca, scuotendomi dai ricordi. Come punta c’è Federica, il Bomber Biondo. La chiamiamo così per via dei suoi capelli chiari e perché segna un numero incredibile di goal. Se lei è davanti alla porta, per il portiere è finita: un cecchino. Dietro c’è Alice, la colonna della squadra: gioca in difesa, ma segna sempre più goal di noi che giochiamo davanti. Ha un tiro fantastico e persino gli allenatori delle altre squadre fanno il tifo per lei: incredibile. A sinistra c’è Steffi, agguerrita come sempre. Io e lei siamo inseparabili: ci telefoniamo in continuazione e non passiamo mai un fine settimana senza vederci. In campo la faccenda è diversa: se qualcosa non va ce lo diciamo senza mezzi termini, però vale solo per la parentesi della partita; tornate negli spogliatoi siamo amiche più di prima. In porta c’è Paola: il capitano e il portiere più forte di tutto il campionato. Le altre squadre la ammirano e ogni tanto riceve anche delle proposte, che però rifiuta sempre. Dice che se dovesse andare via dalla squadra sarebbe solo perché ha deciso di smettere di giocare. Possibilità molto remota al momento, per fortuna. In panchina, Sara e Serena. Fra, il secondo portiere, è a casa malata stasera (ha preso l’influenza suina, cosa che le procurerà il titolo onorifico di Bomber Suina, ma solo quando sarà guarita: anche Scipione ha ottenuto il soprannome di Africano solo dopo aver sconfitto Annibale, non di certo mentre ci combatteva contro). Annalisa e Silvia sono infortunate. Simona è al lavoro. Abbiamo pochi cambi. Sarà dura.

Dopo un paio di azioni siamo incredibilmente in vantaggio: uno-due con Federica a segno. Le montanare non se l’aspettavano e restano un po’ spaesate. È il momento di infierire. Segno altri due goal nel giro di dieci minuti. Luca mi sorride, poi mi fa uscire: — Basta goal per oggi, hai già fatto una bella scorpacciata!

Fa entrare Sara al mio posto per rafforzare la difesa e, poco dopo, Serry come punta. Serena è una specie di mastino: sa sempre dove picchiare ed è quella che ci vuole per una partita del genere. Fa come al solito il suo dovere e ne mette fuori uso un paio, ma le montanare riescono comunque a segnare un goal. Non c’è storia però: sono nervosissime.

Luca è in piedi di fianco a me: — Guarda la sette com’è agitata. Non se l’aspettava da noi—. Sorride, soddisfatto. È il primo anno che ci allena e per lui è una specie di sfida: tutti i suoi amici gli dicono che è un pazzo a fare il mister di una squadra femminile.

Vedi chi me lo fa fare? Vedervi giocare così per me è un’incredibile soddisfazione— mi dice come leggendomi nel pensiero. Gli sorrido. Luca è agitato, batte le mani: — Dai dai, forza continuiamo così!

Vorrei stringergli la mano, ma mi trattengo: non so come potrebbe reagire. Non c’è sempre stato quest’imbarazzo tra noi.

Ci incontravamo spesso al bar per colazione e a volte anche per pranzo. Parlavamo di tutto e mi sembrava di conoscerlo da sempre.

Che esame stai preparando adesso?

Lingua latina, l’orale per la precisione: lo scritto l’ho già fatto, per fortuna!

Al liceo mi piaceva molto latino, ero anche bravino, sai?

Beh, il latino dello scientifico è facile…— Sorridevo mentre pronunciavo la frase che, lo sapevo, l’avrebbe provocato.

Ecco il solito discorso di voi del classico! Il latino dello scientifico non è facile per niente!— aveva detto lui, accalorandosi, mentre io avevo già iniziato a ridere.

Voi piuttosto, che studiate la matematica dei puffi! Siete arrivati a fare le divisioni o è un argomento troppo complesso?

Ma non stavamo parlando del mio esame?—. Quella discussione avrebbe potuto andare avanti per ore.

Dai,— fingendosi risentito aveva accompagnato la voce con un gesto della mano — dimmi che autori devi portare.

Il monografico è sulla poesia di Catullo, ma dobbiamo preparare anche uno dei libri di Ab Urbe Condita di Livio e un’orazione del mitico Cic.

Cic sarebbe Cicerone?— aveva detto storcendo il naso.

Il mio preferito.

Quando parlo dei miei autori latini mi illumino in volto e solitamente noto negli occhi degli interlocutori un po’ di distacco e di timore. Non timore sacro verso le pagine meravigliose che la cultura greco-romana ci ha lasciato, ma paura del mio modo di pensare; è difficile che un ragazzo della mia età possa capire e apprezzare la mia passione e lo so cosa pensano di me: il più delle volte appaio rigida e intransigente, studiosa e ingessata, proprio come tutto il mondo antico che amo e che si esprime, guarda un po’, in una lingua morta. Ma non posso farci nulla: la passione per il mondo classico è un amore indissolubile e profondissimo.

Non preferisci Catullo?— aveva continuato Luca

È una bella lotta!

A me Catullo non dispiaceva, anzi mi piaceva proprio al liceo… com’era? “Miser Catulle, desinas ineptire et quod vides perisse perditum ducas. Fulsere quondam candidi tibi soles…”.

La sai a memoria?

Solo l’inizio: “Misero Catullo, smettila di impazzire e ciò che vedi perduto, consideralo perduto. Brillarono un giorno per te giorni luminosi…”.

Ero rimasta a bocca aperta: — Ma allora sei bravo davvero!

Aveva umilmente alzato le spalle: — Così diceva la mia professoressa delle superiori. La letteratura mi è sempre piaciuta.

Un futuro avvocato amante della letteratura. Interessante binomio.

Sara intanto procura una punizione che tira ovviamente Alice. Traversa e goal di Steffi su ribattuta. Le montanare segnano di nuovo, ma ormai la partita è chiusa. Il triplice fischio dell’arbitro segna la fine della gara. Io e Steffi ci guardiamo negli occhi, complici: Grrrrr!

III

La professoressa Anceschi, vedendomi immobile davanti a uno scaffale della biblioteca di italianistica, mi chiede: — Posso aiutarti? Che libro stai cercando?

Cosa?— rispondo, presa alla sprovvista e ancora immersa nei ricordi della vittoria della sera prima.

Se mi dici che libro stai cercando ti aiuto a trovarlo.

Alzo gli occhi a osservare l’elegante donna di fianco a me e subito provo un moto di simpatia nei suoi confronti, quasi fosse un’amica di vecchia data.

Se avessi saputo quanto quell’incontro sarebbe stato importante e quanto mi avrebbe sconvolto la vita avrei scelto qualche frase ad effetto per suggellare il momento. Mi limito invece a dire: — In realtà ho il numero di collocazione, mi ero solo persa a riflettere. Eccolo— dico afferrando un volume.

La professoressa sorride: — Stai preparando l’esame di letteratura italiana contemporanea?

Sì, seguo il corso della professoressa Cantieri.

Allora leggi anche questo— mi dice lei in risposta porgendomi un breve saggio preso con sicurezza dallo scaffale.

Lo prendo e ringrazio.

Lei insegna letteratura?

Sì, ma al liceo. Vengo qui solo per studiare e ogni tanto collaboro con il professor Rossi, siamo vecchi compagni di corso.

Quindi siete coetanei?

Vuoi dire forse che sembro più vecchia di lui?— mi chiede mettendosi le mani sui fianchi e sorridendo.

Al contrario.

In effetti la professoressa Anceschi è una donna molto giovanile: capelli castani che le cadono morbidi sulle spalle, fisico elegante, abbigliamento e trucco curati. Solo qualche leggera ruga le solca il volto conferendo al suo viso un che di triste. Il suo atteggiamento è gentile e composto, il tono calmo, ma deciso.

La prof mi sorride, come se mi avesse letto nel pensiero, prende un testo dallo scaffale dei libri in consultazione e torna al suo tavolo. Cerco un posto libero e mi siedo a studiare: stamattina devo finire almeno altri due capitoli.

Quante volte avevo studiato in biblioteca in quel posto vicino alla finestra da cui si poteva chiaramente scorgere il portone della facoltà di Giurisprudenza! E quando vedevo Luca uscire di lì e avviarsi col suo passo elegante e deciso verso il bar o verso casa, la giornata prendeva decisamente un’altra piega. A volte rimanevo interi minuti semplicemente a spiarlo mentre fumava una sigaretta, parlava al cellulare o chiacchierava con gli amici. Da quell’angolo della biblioteca potevo guardarlo senza essere vista e sognare. Altre volte, però, non resistevo e correvo giù dalle scale per raggiungerlo, casualmente, al bar. Mi sentivo come un cavaliere medievale che cerca di conquistare il cuore della sua amata, della sua principessa bellissima e inarrivabile, chiusa in un castello inaccessibile. Cercavo di fare in modo che Luca non si accorgesse del mio interesse, anche perché si sa che gli uomini preferiscono essere cacciatori che prede; inoltre temevo che prima o poi si sarebbe insospettito. E allora lasciavo passare giorni senza farmi vedere, per poi apparire sempre casualmente in momenti studiatissimi: ormai avevo imparato bene le sue abitudini e i suoi orari ed ero perfettamente in grado di calcolare il momento più adatto per poter trascorrere né poco né troppo tempo con lui. Si sa, la quotidianità annoia e io volevo essere per Luca la ragazza su cui fantasticare, volevo mantenere quell’alone di mistero che mi avrebbe resa affascinante ai suoi occhi, volevo che lui immaginasse il nostro primo bacio, l’inizio della nostra storia. Volevo essere il suo ultimo pensiero prima di dormire, perché, si sa, non ha senso andare a dormire se non si ha niente di bello da sognare. E trascorrevo così la maggior parte del tempo che avevo libero dalle lezioni.

La mia media esami era decisamente migliorata da quando avevamo smesso di vederci. Ero stata io che avevo iniziato a evitarlo sistematicamente (cosa che, peraltro, mi risultò molto semplice: bastava invertire la precedente strategia) quando avevo scoperto che era fidanzato.

Lo avevo saputo da una mia compagna di corso che mi aveva chiesto, con una punta d’invidia, come facessi a conoscere Luca Gherardi. Era, a suo dire, molto conosciuto, molto ammirato e, purtroppo, fidanzato da un anno. Sapevo che continuare a frequentarlo avrebbe significato solo alimentare un sentimento che, invece, sarebbe stato meglio sopire e avevo deciso, quindi, di dedicarmi anima e corpo allo studio.

Due anni dopo, al termine delle vacanze estive, ero arrivata al campo per l’inizio della preparazione e me l’ero ritrovato davanti.

Ciao!— mi aveva salutata, visibilmente imbarazzato.

Ciao!— avevo ribattuto presa alla sprovvista e avevo aggiunto, come per rompere il ghiaccio: — Inizi la preparazione anche tu? —. Sapevo che c’erano almeno due squadre di calcio che si allenavano in quella stessa struttura.

Noi la preparazione l’abbiamo già finita a dire il vero. Iniziamo domani il campionato. Sono qui per allenare le ragazze—. Avevo sgranato gli occhi: mi avevano detto che quell’anno avremmo cambiato allenatore, ma mai avrei immaginato un colpo così basso da parte del destino.

Quindi sarai il mio allenatore.

Non sapevo che fosse la tua squadra.

Non lo sapeva davvero? Me lo sono chiesto tante volte e ho spesso fantasticato sulla possibilità che lui mi avesse volutamente cercata, ma non abbiamo mai affrontato l’argomento e tra noi è sempre rimasta quella cortina sottile di imbarazzo che avrei tanto voluto squarciare. Non ne ho, però, mai parlato con nessuno, nemmeno con Sergio, il mio inseparabile compagno di studi fin dai tempi del liceo. Eravamo in classe insieme ed era uno dei pochi ragazzi carini della scuola: al classico si iscrivono soprattutto ragazze e, senza offesa per il sesso forte, gli adolescenti interessati allo studio delle lettere antiche, sportivi e belli sono davvero una rarità. Se la passavano decisamente meglio le nostre coetanee dello scientifico che avevano tutti i giorni a disposizione una fauna maschile niente male. Sergio era davvero una rarità: bello, sportivo, intelligente e simpatico. Non per niente era il più corteggiato della scuola. Aveva, poi, un modo di fare talmente affabile ed educato che non di rado le ragazze male interpretavano il suo essere gentile e immaginavano che Sergio riservasse loro attenzioni particolari. Io, ormai, ci ero abituata: dopo una breve storia d’amore in quarta ginnasio, eravamo stati compagni di banco per i tre anni del liceo e tra noi da allora c’era solo una splendida amicizia.

Ogni volta che ci vedevano passare insieme per i corridoi dell’università, le ragazze lanciavano a me sguardi invidiosi e a lui sorrisi sfacciati. Non era frequente, d’altra parte, vedere ragazzi così carini nemmeno a Lettere. E quando veniva a vedere le nostre partite di calcetto, spezzava sempre il cuore a qualche mia compagna di squadra o a un’avversaria. A lungo andare, però, era diventato molto amico di tutte noi, tanto che partecipava quasi sempre alle cene di fine campionato. Dal secondo anno di università si era trasferito a Bologna e mi aveva lasciata da sola a fare la triste vita da pendolare. La scusa ufficiale era che così avrebbe avuto più tempo per studiare, la realtà è che adorava la movida bolognese: frequentava tutte le feste universitarie ed era anche entrato a far parte di una squadra di pallanuoto. Più volte aveva cercato di convincermi a trasferirmi, ma io non avrei mai rinunciato ai miei allenamenti di calcetto.

In realtà i primi anni avevo anche un altro motivo per rimanere a Modena: frequentavo un ragazzo poco più grande di me ed ero convinta che fosse l’amore della mia vita. La storia era, però, finita male un anno e mezzo dopo, quando avevo scoperto che mi tradiva con una sua collega di lavoro. Era stato proprio Sergio a vederlo baciare quella ragazza in un ristorante di Bologna, dove erano andati, evidentemente, per non farsi vedere. Era stato indeciso se dirmelo o no, ma alla fine si era comportato da vero amico e mi aveva aperto gli occhi.

Alle diciotto usciamo insieme dalla biblioteca, Sergio mi accompagna per un po’, poi prende la strada di casa e io quella della stazione: ho il treno per Modena tra trenta minuti esatti.

Stasera esco con una nuova— mi dice salutandomi.

Che novità!

Dimmi in bocca al lupo.

Non credo tu ne abbia bisogno— rispondo sorridendo.

A domani.

Guardo la sua figura elegante allontanarsi e penso che la “ragazza nuova” del momento avrà presto il cuore spezzato. Decisamente meglio avere Sergio come amico ed evitare inutili complicazioni.

Alle diciotto e quaranta, al binario, mentre osservo nervosamente aumentare i minuti di ritardo dell’interregionale diretto a Modena, mi accorgo che la professoressa Anceschi è seduta proprio dietro di me. Ho voglia di chiacchierare con qualcuno e lei mi sembra gentile, disposta ad ascoltare.

Buonasera professoressa. Anche lei si sposta in treno?

È inevitabile— mi risponde chiudendo il libro che sta leggendo. — Se venissi in auto ci metterei il doppio del tempo, per non parlare di quanto mi costerebbe il parcheggio.

Abita a Modena anche lei?

Sì, anche se mi piacerebbe prendere un appartamento a Bologna.

Noto un accenno di tristezza passare nei suoi occhi. Evidentemente non ha figli e forse nemmeno un marito.

Scusi, ho interrotto la sua lettura— le dico per cambiare argomento e per darle la possibilità di interrompere la conversazione, casomai non gradisse la mia compagnia.

Figurati. Stavo rileggendo per l’ennesima volta il Simposio di Platone: ogni volta è sempre diverso, eppure sempre uguale. Un punto di riferimento costante che, però, sa sempre come sorprendermi; sarà per questo che ogni anno cerco di inserirlo in programmazione.

Sospiro: — Uno dei miei libri preferiti.

La professoressa sorride come se si aspettasse quella risposta. Trascorriamo il viaggio in treno a parlare dell’amore in letteratura, dell’amore nel cinema, dell’amore in poesia, dell’amore di tutti i giorni, di quello che ti fa volare alto, che ti toglie il respiro e la voglia di mangiare, di quello che ti fa sentire incredibilmente straordinaria e forte. Di quello che fa sbattere il cuore contro il petto e piangere disperatamente. Di quello che ti divide in due e ti costringe a passare la vita a cercare l’altra metà di te stesso.

IV

Stasera si gioca in casa contro le Eagles. Aquile contro Pantere. Si sa già come andrà a finire. Il campo è grande ed è perfetto per le mie fughe in fascia. Devo concentrarmi sugli stop; l’estate scorsa mi sono allenata con il Bomber Biondo all’isola d’Elba: sul bagnasciuga dovevo riuscire a fermare la palla, in qualsiasi modo me la tirasse, forte, alta, tesa o a campanile. Per concludere in bellezza l’allenamento io, lei e Alice abbiamo anche fatto delle rovesciate in acqua: ci sentivamo molto Mark Lenders di Holly&Benji quando si allenava contro le onde per potenziare il tiro.

Luca mi fa partire in panchina stasera. La cosa mi innervosisce. Non ha proprio capito niente di me.

Giocano Annalisa a destra, Stefania punta, Simona a sinistra e Alice in difesa. In porta c’è Paola. Francesca, ancora convalescente, fa un tifo sfrenato dalla panchina.

Attacchiamo senza sosta, ma prendiamo un numero esagerato di pali. La sola Ali mantiene alta la sua media collezionando due pali e una traversa. Di solito finisce male quando comincia così. Infatti, per la maledetta regola del “goal sbagliato-goal subìto”, le Eagles segnano. Seduta in panchina guardo Luca. Il suo volto non rivela emozioni, le mani sono abbandonate dentro alle tasche dei jeans in un atteggiamento che tradisce il suo sconforto. Detesto quando fa così. Un allenatore deve trasmettere sempre energia e carica alla squadra. E poi lo sa che voglio giocare, perché si ostina a non farmi entrare? Le Eagles continuano ad attaccare, Paola fa due parate miracolose.

Non possiamo lasciarle libere a quel modo. Luca sposta Alice sulla fascia destra, fa scendere Annalisa e mette Sara in difesa. So che non posso dire nulla, so che è lui il mister, ma la fascia destra è la mia posizione preferita. E lui lo sa. Vuole proprio farmi arrabbiare stasera.

Giulia, entri a sinistra— mi dice dopo qualche minuto continuando a tenere le mani in tasca.

Almeno mi fa giocare. Finalmente. Sono decisa a partire in attacco, così, appena Paola rinvia per Stefania, scatto in avanti. La quattro, però, ha intercettato il passaggio e parte in contropiede. Devo rientrare. Subito. Sento Paola e Alice che urlano: — Giulia! Hai perso la tua marcatura!

Sara prova a coprire, ma è troppo tardi, l’avversaria è già in porta. E segna. Non ho il coraggio di guardare né Alice né Paola né Luca. È colpa mia. È tutta colpa mia.

Stefania mi legge nel pensiero. Mentre mi avvicino a lei per battere a centrocampo, appoggia la palla e dice, guardandomi dritta negli occhi: — Dai, facciamolo questo goal!

Le sorrido, le tocco la palla. Lei la passa indietro ad Ali, io scatto. Lancio lungo perfetto che mi arriva sul piede. Riesco a controllare e a mettere in mezzo. Bomba di Stefania. Rete! È uno dei momenti più belli, quello subito dopo un goal. Viene la pelle d’oca, l’adrenalina a mille, ci si abbraccia tutte e si urla. Come delle vere guerriere. Grrrrrr.

È il momento di fargliela vedere a queste qui. Entra il Bomber Biondo, ma a fine primo tempo il punteggio è fermo sul due a uno.

Sono delle stronze. Mi continuano a calciare— urla Alice stizzita mentre si avvicina alla panchina.

Adesso le aggiusto io— interviene Federica buttando a terra la bottiglietta d’acqua. — Se continuano così le faccio andare a casa in stampelle. Giuro.

Luca la tranquillizza: — Calma Fede. Mantieni la concentrazione, conto su di te.

Ovviamente a me non dice nulla. Solo perché ho fatto un errore? È uno stronzo, come tutti gli uomini, ecco cosa. Sono sicura che mi farà uscire adesso.

Invece no, si riparte così. Federica è scatenata. Assist perfetto per Alice che tira una delle sue bombe: il portiere non la vede nemmeno. Goal. Non si gioca più. È una guerra. Luca urla come un pazzo dalla panchina mentre cammina nervosamente su e giù, finché Francesca non lo ferma, tirandolo per il braccio.

Le agiti così.

Io continuo a sbagliare i passaggi, non sono concentrata. Stefania mi guarda e cerca di capire cosa mi stia succedendo: — Dai, Giuly!

Luca è seduto, mi giro e lo guardo. I nostri occhi si incrociano: è teso, è deluso da me. Lo capisco perfettamente. Chiedo il cambio: non riesco a giocare se mi guarda in quel modo.

Quando mi siedo di fianco a lui mi dice, continuando a osservare la partita: — Voi donne pensate troppo.

E voi uomini troppo poco.

Si volta. Mi sorride. Che idiota. Non ha nemmeno capito che volevo offenderlo. Però mi viene spontaneo ricambiare il sorriso e fissare, per un attimo, i suoi occhi verdi e sinceri. Ma mi ricompongo subito e gli faccio cenno di seguire la partita. Poco dopo Federica segna due goal con un’eleganza e una precisione incredibile. E ne approfitta anche per ricordare alla numero quattro di starle lontano, la prossima volta. È fatta. Non ci provano nemmeno più ad attaccare. Hanno capito che siamo noi le padrone del campo stasera.

03 Giugno 2019

Leggere:tutti

Su Leggere:tutti un'intervista a Roberta Dieci, autrice de I sogni non fanno rumore. Puoi leggere l'articolo a questo link.
9 dicembre 2017

Radio Deejay

Roberta Dieci, autrice di I sogni non fanno rumore, ospite a Radio Deejay all'interno del programma La bomba con Vic e Luciana Littizzetto. Per riascoltare l’intervista a partire dal minuto 57’10” ecco il podcast!
9 dicembre 2017

Il posto delle parole

Su Il posto delle parole si parla del libri di Roberta Dieci “I sogni non fanno rumore”
11 Aprile 2016
La campagna di I sogni non fanno rumore sta andando molto bene! Se ne è interessato "Poveri cuori umani" con una recensione. La condividiamo con voi: https://povericuoriumani.com/2016/04/06/i-sogni-non-fanno-rumore-recensioni-leggibili/
19 Maggio 2016
Ecco a voi un altro articolo che tratta del progetto editoriale di Roberta Dieci! Buona lettura a tutti. https://paroleincartateblog.com/2016/05/19/i-sogni-non-fanno-rumore/
30 Maggio 2016
La campagna ha ormai raggiunto il 97% del goal! Tifiamo tutti per Roberta, che è ad un passo dal raggiungimento dell'obiettivo. Anche voceailibri.com ci aiuta a scoprire meglio I sogni non fanno rumore: https://voceailibri.wordpress.com/2016/05/27/intervista-allautrice-de-i-sogni-non-fanno-rumore/
15 Febbraio 2017
Vi segnaliamo un baella recensione de "I sogni non fanno rumore" comparsa su RecensioniLibri.org: https://www.recensionilibri.org/autori-emergenti-italiani
23 Marzo 2017
"Detto tra noi" su TRC ospita Roberta Dieci per raccontare de "I sogni non fanno rumore". Di seguito l'intervista completa: https://www.youtube.com/watch?v=h1XE4Q0vFHI
20 Maggio 2017
21 Settembre 2017
Calcetto e tacchi alti sabato 23 settembre a Baschi! https://bit.ly/2xc8dKc
05 Marzo 2018
Invitata in Sicilia dagli organizzatori del premio Navarro, questo fine settimana l'autrice de "I sogni non fanno rumore" ha presentato il libro presso l'Istituto Vetrano di Sciacca e alla prestigiosa libreria Mondadori di Sciacca. Ecco alcune foto!

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Roberta Dieci
Roberta Dieci è una calciatrice e adora i tacchi a spillo, ama il latino e lo shopping compulsivo, è fan delle serate in famiglia e degli aperitivi con le amiche. Da quelli che lei stessa definisce "gli ossimori della sua vita" ha tratto storie eccentriche, vivaci, piene di personaggi passionali e contrastati. ‘I sogni non fanno rumore’ è il suo primo romanzo.
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