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Fabio è un uomo come tanti, con una famiglia come tante, specchio delle gioie e dei dolori, non sempre bilanciati, che al giorno d’oggi caratterizzano ogni focolare domestico. Ama sua moglie e i suoi figli, anche se non sempre li capisce, e fatica a lavorare con continuità a causa della ormai prolungata fase di difficoltà economiche. La routine di tutti viene devastata nel modo più crudele e inaspettato proprio nel giorno in cui le cose sembravano, finalmente, avere preso una piega positiva. Ma Fabio non è sconfitto; gli viene concessa un’ulteriore possibilità, legata a una scelta solo in apparenza banale. Intraprenderà un viaggio curioso in cui arriverà a scoprire che non esistono scelte scontate e che ovvi presupposti e buoni propositi spesso portano a conseguenze disastrose. Fabio, inoltre, dovrà affrontare un ulteriore, angosciante dubbio: e se le scelte non esistessero e ogni uomo fosse solo una pedina? Esiste solo il destino? O è tutto caos, anarchia determinata dalle conseguenze legate alle scelte di ogni individuo?

Capitolo I

Fabio percorre il lungo viale alberato immerso nei suoi pensieri; guida come un automa o come una qualsiasi persona sballottata in questo pazzo pallone i cui pensionanti si ostinano a chiamare mondo.

Com’è noto, tutte le strade hanno prima o poi una destinazione, ma non tutte portano alla proverbiale Roma. Nel caso di Fabio la destinazione è l’ufficio di Erminio Della Martira, responsabile della manutenzione – nonché dell’ufficio acquisti, come proclamava pomposa la sua carta intestata – della catena di discount SpendiMeno, presso uno dei punti vendita omonimi. Ha un appuntamento alle undici e un quarto ed è in largo anticipo. Manca poco più di un chilometro al discount. Si augura con tutto il cuore che la ruota stia davvero cominciando a girare. Dopo un anno passato a vivacchiare – durante il quale è riuscito a lavorare poco e niente – forse per la sua ormai piccola (una volta media) impresa di finiture d’interni è arrivato il Momento. Suo padre, convertito alla Sacra Chiesa del Momento da suo nonno, gli aveva sempre parlato di questo snodo vitale con un fervore ammantato di misticismo e forse anche di superstizioso terrore. Il terrore di Non Riconoscere il Momento (in alcune rare occasioni chiamato anche il Treno, legandosi al più noto adagio: il treno passa solo una volta).

Due generazioni di Calvi sostengono che prima o poi il momento di dimostrare il proprio valore, sfondare in un mercato o Fare il Salto di Qualità (altro calvismo) arrivi per tutti.

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Fondamentale importanza rivestono la prontezza e la pazienza, indispensabili al fine di cogliere il fatidico Momento. Fabio, come terza generazione di Calvi, condivide con tutto il cuore questo concetto e la sua totale assonanza con esso ha radici profonde che si nutrono del fertile e profondo terreno del bene che aveva voluto a suo nonno e che vuole a suo padre. Tuttavia non può mentire a se stesso – si conosce troppo bene – e conosce purtroppo bene il periodo storico che sta vivendo ormai da dieci anni. L’abbondanza è finita e il Momento è sempre più una chimera. Gli anni Ottanta, quando lavorare costituiva una mera scelta tra varie opportunità, si erano ormai ridotti a reperti di un’epoca mitizzata, rimpianta e sospirata; gli anni Novanta, quando il lavoro doveva essere prima di tutto stabile – meglio ancora se statale –, erano diventati uno specchio ottuso e distorto delle aspettative dei più; gli anni Duemila, quando tutti – annoiati dal lavoro fisso ed eccitati dagli esempi imprenditoriali dei grandi tycoon della decade precedente – si erano scoperti così coraggiosi da lanciarsi nell’imprenditoria, avevano infine bruciato speranze e risparmi di una vita di sudore. I tempi sono cambiati, rimugina. Soprattutto è cambiato lo sfondo dell’affresco rappresentante la piccola-media imprenditoria italiana, sempre più simile alle stampe tipiche dell’età moderna (zeppe di supplizi e torture infernali in cui creature demoniache tormentavano le povere vergini o i malcapitati di turno), piuttosto che a rinascimentali paesaggi idilliaci pervasi da un bucolico ed effimero ottimismo.

A ogni modo, Fabio non si sente affatto all’inferno, perlomeno non ancora. Ha una bella casa con un bel giardino che – per quanto non sia la reggia di Caserta – è tutta sua e non c’è niente di essa che non gli piaccia. Può anche bearsi del fatto di non avere vicini rompiscatole. Bel colpo, questo. Essendo cresciuto in un condominio sa bene quale fortuna sia.

Ha una bella moglie che ama ancora come il primo giorno; ha due figli – una femmina di diciotto anni e un maschio di quattordici – e per quanto sua figlia adorasse portarlo sempre sull’orlo del disconoscimento, sarebbe stata sempre la sua principessa e lui avrebbe barattato qualsiasi cosa per la sua felicità, così come per quella di sua moglie o di suo figlio. Che altro? Una breton femmina chiamata Doghessa (questa sciccheria bilingue è un’idea di Stefano, suo figlio), una BMW Serie 5 e il fatto di riuscire ancora a giocarsela abbastanza bene a calcetto con ragazzi dieci-quindici anni più giovani di lui. E allora, riflette mentre si mantiene nella corsia più lenta del viale, quella dove le ombre degli alberi giocano ad acchiappare le auto che transitano, cosa non aveva funzionato in quell’ultimo anno? Perché si sta recando a questo appuntamento con lo stomaco in subbuglio e un vago senso di cattivo presagio, neanche fosse un tredicenne al suo primo appuntamento con una ragazzina e avesse un foruncolo gigante proprio al centro della fronte, esilarante parodia di un indù?

La crisi aveva tirato fuori quanto di più bizzarro ci possa essere nell’animo della gente. In principio, Fabio aveva tentato di trovare il buono anche in questa situazione. Si era convinto che in questo contesto la maggior parte degli imprenditori avventurieri – o improvvisati tali – sarebbe saltata come un tappo di spumante. Ma non era andata così. Una parte dei cialtroni era stata di sicuro spazzata via, ma si era andato a legittimare il lavoro in nero. Pur di risparmiare si faceva lavorare chiunque e per chiunque non si intendeva – per esempio – chi aveva lavorato una vita e ora non era più in grado di pagare le tasse per potere lavorare in proprio, ma chi si improvvisava a prezzi stracciati creando una concorrenza impossibile da contrastare. Spendere meno, questo era il mantra supremo di questo glorioso periodo di sbandierata quanto fantasiosa ripresa economica, almeno secondo i sempre sicuri e fiduciosi politici di turno.

La crisi era la causa di tutto, il capro espiatorio di ogni rifiuto. La gente richiedeva preventivi per lavori che poi bocciava in maniera sistematica, giudicandoli dal costo troppo elevato. «È troppo, a casa di mio cognato gli hanno fatto lo stesso lavoro per molto meno»; «nooo, pensavo molto meno»; «in questo momento non me lo posso permettere, appena potrò la ricontatterò sicuramente»; il sempiterno «non è possibile… sa, c’è crisi…». Poi magari gli stessi mancati clienti giravano il preventivo a un parente o a un conoscente, il quale si arrabattava a svolgere un lavoro che non era in grado di realizzare, abbassando il prezzo anche solo di poche decine di euro.

Fabio non si sentiva neanche di gettare la croce su questi improvvisati che talvolta si arrampicavano sulle sue spalle senza neppure redigere un proprio preventivo, ma non poteva permettersi di competere con lavoratori non qualificati in nero. Ma si sa, il lavoro in nero è figlio della crisi. Per non parlare delle imprese, dei subappalti e delle multinazionali che ormai avevano la tendenza ad appoggiarsi a manodopera a basso costo (italiana e non), in modo che la loro gestione risultasse virtuosa e potessero spartirsi la gustosa torta generata dai soldi risparmiati in lavori e manutenzioni varie. Pazienza, poi, se i lavori erano una schifezza. L’importante era riempirsi le tasche. «Mi dispiace, ma non siamo interessati. A causa della crisi stiamo operando significativi tagli al budget»; «l’immobile non è di nostra proprietà, siamo in affitto». Come se ciò giustificasse il lasciare uffici e stabili in pessime condizioni. O magari, niente manutenzione e vai di risparmio. Austerità che – manco a dirlo – dirottava i soldi sempre nelle stesse tasche. E poi, dulcis in fundo, la beffa delle beffe. Poteva anche capitare di ottenere il lavoro, realizzarlo, terminarlo e non venire pagati. O ancora, venire pagati dopo parecchio tempo e svariati solleciti. Il bicchiere era sì mezzo pieno, ma al suo interno frizzava una medicina incredibilmente amara da mandare giù.

Così nell’ultimo anno Fabio aveva cominciato ad avere sempre più tempo libero e se in principio la cosa non gli era affatto dispiaciuta, col passare del tempo si era reso conto che le tasse, le spese e le scadenze non avevano seguito il suo esempio. Non si erano prese un periodo di pausa, anzi, erano fedelmente rimaste al loro posto, stoici soldati al fronte sempre più ampio di una guerra di trincea che andava logorando – lenta ma inesorabile – il morale e il conto in banca del generale Fabio. Piano piano la bella casa aveva cominciato a essere un po’ pesante da mantenere e approvvigionare, ma applicando dei significativi tagli al loro stile di vita lui e sua moglie se l’erano cavata più che bene.

La cosa più difficile si era rivelata rinunciare ai loro viaggi. Sia lui che Marta avevano sempre adorato viaggiare e si concedevano due viaggi all’anno, uno con tutta la famiglia – il quale faceva sentire Fabio l’uomo più fortunato del mondo – e uno con sua moglie, che lo faceva tornare un ventenne con il mondo ancora tutto da scoprire. Durante questi ultimi, lui e Marta si permettevano lussi che a casa non si sarebbero mai concessi. Per esempio camminare mano nella mano per le principali vie e piazze d’Europa; lasciarsi andare a qualche drink extra, come quando a venticinque anni si dimenavano in discoteca e il lunedì sembrava non dovesse mai arrivare; concedersi l’un l’altra più e più volte al giorno senza l’anonimato della notte, senza la protezione costituita dalla porta della loro camera chiusa a chiave o senza che si rendesse necessario rubacchiare qualche attimo d’intimità, nei rari momenti in cui i loro figli erano assenti entrambi da casa. Intendiamoci, a casa loro o in giro per la città non si trattenevano e non si nascondevano, né tanto meno conducevano un’esistenza costrittiva. Però, durante queste piccole fughe, si sentivano come argenteria patinata dal tempo, sempre preziosa e di valore ma che, per risplendere ancora di più, necessitasse di tanto in tanto di una bella lucidata.

Negli ultimi tempi l’unico lusso che si concedevano era una pizza nel fine settimana. A quella non avrebbero mai rinunciato. Fabio sapeva che questi cambiamenti non erano stati semplici da metabolizzare per sua moglie, ma era sicuro che lo avrebbe appoggiato sempre e comunque, pur scottandolo con qualche momento di freddezza di tanto in tanto. Ma d’altro canto, quale matrimonio o rapporto non ha alti e bassi? Sua figlia lo preoccupava quanto solo una figlia maggiore sull’orlo della maturità possa preoccupare un padre. Si rendeva conto, a volte, di scadere nella paranoia, ma non poteva farne a meno. Sua moglie lo rassicurava e lo blandiva, ma lui ci ricascava sempre, come un tossico coscienzioso lanciato sulla strada della sobrietà ma che, nella sua mente, pensa solo alla prossima dose. La quale, ovvio, sarà sempre l’ultima. Fino alla prossima.

Sentiva odore di erba nei vestiti di sua figlia e i rimproveri dapprima sornioni di sua moglie – «Andiamo, Fabio, come ti sei imborghesito!» – diventavano sempre più spesso isterici ed esasperanti. Alla fine si trovava a litigare con lei, oltre che con sua figlia. Daniela era sempre in giro, ora che aveva la patente. Saltava in macchina e via, fino a notte fonda. Con amiche al seguito o senza. Da quando aveva acquistato un minimo di illusoria sicurezza alla guida si era fatta più ardita, arrivando a pretendere di usare la BMW per le sue scorribande, invece che la Citroën di sua madre. A queste pretese Fabio soleva rispondere con pacatezza: «Scorrazzerai sulla mia macchina quando gelerà l’inferno», «Prenderai la BMW quando gli asini voleranno»; nei momenti di maggior tensione – personale o legata alle insistenze di sua figlia – si sforzava di non sbottare rifugiandosi dietro a un più laconico «Col cazzo».

Come tutti i suoi coetanei, aveva preso i suoi genitori per un bancomat anche se – a onor del vero – stava cercando un lavoretto part-time da svolgere nei week-end per «… togliersi qualche sfizio». Ma, particolare di una certa rilevanza, non si trovava niente. Fabio lo sapeva, perché in uno dei momenti più difficili aveva quasi abbracciato l’idea di chiudere baracca e burattini e cercare lavoro. Dopo avere cercato – invano – lavoro come cartongessista o operaio dipendente, aveva cominciato a mandare curricula a destra e a manca, partendo da candidature per posizioni che riteneva in linea con la sua esperienza (anche se ovviamente non era così stupido da pretendere di trovare lavoro come manager o dirigente), fino ad arrivare a posizioni di commesso o addetto vendita. Era stata un’esperienza avvilente; sembrava che i suoi curricula sparissero in qualche buco nero. Aveva sostenuto due soli colloqui: uno per un lavoro che nell’annuncio era definito Addetto Vendita mentre in realtà si era rivelato un porta a porta da sei giorni alla settimana, con uno stipendio ridicolo corroborato da “importanti provvigioni”; l’altro per una posizione di commesso in una catena di negozi. Un colloquio interminabile, articolato in grottesche fasi e che si era rivelato un posto da nomade tra i vari punti vendita della catena, sabato e domenica inclusi, riservato a ragazzi giovani, disperati e inesperti, rei di essere più facili da buggerare.

Si era convinto di essere stato convocato a quel colloquio per un errore del fenomeno che doveva avere vagliato i curricula. Per la maggior parte dei lavori era tagliato fuori essendo troppo vecchio, con poca o troppa esperienza (a seconda dell’estro del reclutatore). Per la gente come Fabio l’aspettativa di vita lavorativa terminava a ventinove anni, undici mesi e trenta giorni. Siamo alla disperazione totale, pensava. Essere un giovane e cercare lavoro oggi deve essere proprio uno schifo. L’ultimo colpo di genio erano stati i contratti di tirocinio, riservati ai giovani sotto i trent’anni e che di tirocinio avevano ben poco; stipendiati dai vari enti pubblici e caratterizzati da paghe ridicole e orari da contratto a tempo pieno, erano una vera cuccagna per i datori di lavoro che si ritrovavano per le mani una fonte inesauribile di forza lavoro disponibile fino all’autolesionismo, per di più a costo zero. A loro parziale discolpa, bisognava riconoscere che l’emorragia di tasse sopportata dagli imprenditori era impossibile da arrestare.

Ormai un dipendente assunto con regolare contratto era un lusso che pochissimi – quasi nessuno – dei piccoli-medi imprenditori che languivano vivacchiando in attesa di tempi migliori poteva permettersi. Per questo desiderava con ardore che sua figlia frequentasse l’università, anche se Daniela non si era ancora pronunciata in merito. Alternava entusiastiche fasi in cui proclamava con orgoglio la sua scelta di frequentare Medicina a fasi più pessimistiche in cui, con aria mesta, decantava le meraviglie del mondo del lavoro a discapito delle nefandezze e delle inutilità del mondo accademico, supportando la sua tesi con la solita litania: «Tu non sei andato all’università eppure guarda dove sei arrivato!». Vero, ma non del tutto. Fabio all’università c’era andato. Aveva frequentato la facoltà di Scienze Politiche salvo poi mollare tutto a metà del terzo anno, esattamente nel momento spartiacque del suo percorso di studi. Adorava leggere – una passione che condivideva con Marta e che aveva passato ai suoi figli – e adorava la storia, la geografia e la cultura in generale, ma quando aveva iniziato a lavorare part-time nella ditta di suo padre non era più riuscito a conciliare studio e lavoro. Non per pigrizia, ma per una ragione molto semplice. Era – ed è tuttora – una persona che faceva le cose con estrema cura, ma non era in grado di farne benissimo due per volta. O ne faceva bene una, o ne faceva in maniera approssimativa due e Fabio odiava essere approssimativo. Sua figlia era della stessa tribù e si trovava in quel periodo della vita in cui le scelte sbagliate tornano a morderti il posteriore per il resto dei tuoi giorni, sotto il nome di rimpianti. Per cui era determinato a fare in modo che i suoi figli non dovessero mai alzarsi alle sei del mattino per andare a lavorare al freddo in cantiere, non si trovassero mai a litigare per farsi pagare o passare interi anni a galleggiare, vivendo con dignità ma sempre in attesa del Momento.

Fabio voleva che per la sua bambina il Momento fosse lungo tutta la vita. Inoltre, nota dolente, Daniela si frequentava con Quello Là da almeno quattro o cinque mesi (nella sua testa gli concedeva perlomeno la maiuscola). Gli pareva si chiamasse Ugo. Da buon padre di una primogenita femmina Fabio si rifiutava nella maniera più categorica di riconoscere che sua figlia fosse ormai quasi una donna fatta e avesse uno pseudofidanzato. Da questo punto di vista, aveva l’apertura mentale di un cocciuto prelato del quindicesimo secolo. Ma doveva guardare in faccia la realtà. Sua figlia era ormai una donna e c’era la spaventosa possibilità che avesse già fatto sesso con Quello Là, o magari con qualcun altro. Non era bigotto o di mentalità chiusa, o almeno non si riteneva tale. Era solo troppo presto. Ieri le cambiava il pannolino e oggi tornava alle quattro di notte con addosso Eau de joint N°5, usciva con Ugo e aveva pure la faccia tosta di pretendere dei soldi o addirittura la sua macchina. Se si fermava un attimo a riflettere si rendeva conto di quanto questo fosse giusto e del tutto normale; sua figlia era una giovane intelligente, andava molto bene a scuola e nel caleidoscopio dei suoi diciotto anni aveva tutto il diritto di fare qualche casino. Dio solo sapeva quanti ne aveva combinati lui. Tuttavia spesso si lanciavano in litigate feroci per questioni che sul momento gli sembravano inappuntabili e di principio. Ma a posteriori, mentre ci rimuginava sopra alacremente – che stesse stuccando una parete in cartongesso o giacesse nel letto con una mano appoggiata languida sul seno di sua moglie dopo avere fatto l’amore –, gli apparivano del tutto prive di senso. Non poteva capirlo, anche se ogni tanto lo sospettava, ma si era dimenticato di essere stato un figlio.

Suo figlio Stefano costituiva invece un’esplosione di normalità adolescenziale ed era nell’età in cui ciò che conta è apparire, non essere; anche se era abbastanza disposto a riconoscere l’abilità di suo figlio nel barcamenarsi in questa dicotomia. Il giudizio del corridoio inquisitorio della scuola era implacabile, per cui Stefano assillava sua madre con problematiche che gli apparivano questioni di vita o di morte, le quali spesso risultavano esilaranti alle orecchie dei suoi divertiti genitori. Voleva sapere cosa doveva fare per attirare l’attenzione di una ragazza senza rivolgerle la parola, scriverle o scambiare uno sguardo; voleva entrare nella sua vita come un uragano ma con la delicatezza di un refolo di vento e spesso, nella solitudine notturna della sua camera, si immaginava scampoli della sua vita insieme al suo grande e temporaneo amore. Era sempre quello della sua vita, anche se queste passioni duravano più o meno un paio di mesi. Più o meno fino a quando appariva ovvio che la pulzella in questione frequentasse qualche ganzo ripetente o delle classi superiori, molto più scafato del suo sensibile virgulto.

Invano sua madre cercava di spiegargli che per attirare l’attenzione – o anche solo avere un riscontro – doveva fare la prima mossa. Questo consiglio si scontrava sempre con il solito avversario, ovvero la reticenza di Stefano a esporsi: «Mamma, e se mi dice di no?». A niente servivano le vane rassicurazioni di Marta la quale, com’è ovvio, aveva provato a spiegare al figlio che un rifiuto non è la fine del mondo e non costituisce una bocciatura assoluta. Stefano, come tutti i quindicenni del globo terracqueo, cercava successo senza dolore. Angosciava sua madre con consigli sul vestiario. «Mamma, metto il giubbotto col cappuccio con la maglietta a righe?», «No, Ste», «Perché no?», «Perché il giubbotto col cappuccio è a quadretti e non va bene con la maglietta a righe, non c’entra niente», «Ma lo fanno tutti!», «Be’, è una cagata, ma se lo fanno tutti, chi sono io per giudicare cotanta eleganza? Fai come credi!», «Ecco vedi, non posso mai chiederti niente!» (quest’ultimo sottointeso sulla pettinatura o sul modus operandi da seguire per approcciare il gentil sesso).

Le risposte di Marta erano sempre accompagnate da un teatrale roteare d’occhi al cielo che riproponeva anche mentre riportava a Fabio i dolori del giovane Stefano, arricchendo il discorso con quel suo spassoso vezzo. Fabio era sicuro che mentre raccontava si esibisse nel rotearr – come lo chiamava lui in gran segreto arrotando le erre come un torero spagnolo – esattamente nei punti in cui roteava gli occhi mentre discuteva con il loro pargolo. Tutto questo rendeva i resoconti ancora più spassosi e surreali, come se non lo fossero già abbastanza. Ovviamente tentavano di tenere nella giusta considerazione le argomentazioni di Stefano, poiché in alcuni momenti riuscivano a ricordare le insicurezze che agitavano il mare magno dell’adolescenza, mortali barriere coralline pronte a stritolare il tenero vascello dell’amor proprio, mettendo a repentaglio tutta la traversata.

Non potevano, però, fare a meno di cogliere anche il lato comico della questione. In realtà Fabio trovava singolare che il loro unico figlio maschio si confidasse soprattutto con la madre mentre al padre chiedesse solamente regali o soldi, senza malizia né doppi fini. Benché capisse benissimo che a quattordici anni si desideri qualsiasi cosa, utile o inutile che sia, con un fervore che probabilmente non si sperimenta più nell’arco dell’intera esistenza, la predilezione di Stefano nel chiedere consigli a sua moglie lo amareggiava un po’. Percepiva l’affetto del proprio figlio come il calore di una stufa nel gelo dell’inverno. Era una magnifica sensazione, ma non capiva perché mai facesse così fatica a confidarsi con lui.

Talvolta pensava che l’unica in grado di capirlo davvero fosse la loro cagnetta. Quando rientrava a casa stanco e sfiduciato, dopo una giornata passata a fare telefonate promozionali o a cercare di resuscitare preventivi che erano ormai morti e sepolti, trovava Doghessa davanti alla porta ad aspettarlo. E mentre si lasciava cadere sconsolato nel suo vecchio e comodo divano di pelle, il breton appoggiava la testa sul suo ginocchio destro e lo fissava con i suoi occhioni dolci, castani e adoranti specchi in cui Fabio riusciva a vedere, nonostante le difficoltà, l’amore che la sua famiglia provava per lui.

Era una specie di rito dal potere tonificante, capace di donare enorme piacere a entrambi. Doghessa era in grado di rimanere un’ora seduta con la testa appoggiata sul ginocchio destro del suo padrone, a farsi accarezzare dalle arcate sopraciliari alla base del collo in perfetta immobilità, in una posizione che a Fabio sembrava quanto mai scomoda. E così, mentre la testa di Fabio gorgogliava per la ridda dei pensieri più disparati (l’INPS da pagare, preparare la borsa per andare a calcetto, la partita di basket di suo figlio), il suo cane se ne stava in adorazione a farsi accarezzare, cercando di comunicargli con lo sguardo l’immenso amore che provava per lui.

Le cose avevano iniziato a non funzionare davvero quando si era reso conto di essere in arretrato di due anni con il pagamento del bollo delle macchine. Di entrambe. E che l’assicurazione della BMW aveva smesso di assomigliare a una scadenza per assumere le sembianze di un vampiro assetato di euro. Quelle spese non gli erano mai sembrate così pesanti. Scoccianti, forse, ma mai così incombenti. Così aveva cambiato compagnia di assicurazione e fin qui tutto a posto, aveva risparmiato un po’. Poi era arrivato il momento del tagliando e si era reso conto che non poteva pagare l’INPS e il tagliando assieme senza compromettere il saldo di tutte le altre scadenze. Quindi aveva provveduto a cambiare di persona l’olio all’auto – che di fatto era mantenuta come un gioiello – e aveva pagato l’INPS. Stava pensando di vendere la BMW e tentare ancora una volta la fortuna con la ricerca di un nuovo lavoro, quando era arrivata la chiamata di Della Martira due settimane prima.

Si era presentato all’appuntamento presso l’ufficio in centro di Della Martira senza particolari aspettative. Il borioso pallone gonfiato in giacca e cravatta che lo guardava dall’alto in basso – e che dall’alto in basso gli aveva parlato al telefono – gli avrebbe senz’altro chiesto di fare un tramezzo per un magazzino, quattrocento euro e tanti saluti. Invece gli aveva chiesto, con fare supponente, se fosse in grado di realizzare controsoffitti in fibra minerale. Fabio aveva cominciato a percepire una flebile fiammella di speranza guizzargli al centro esatto del diaframma. Aveva risposto con un tono di voce che sperava apparisse normale. «Si, certo.»

«Ecco,» aveva continuato il borioso pallone gonfiato, il quale appariva ora un po’ più simpatico agli occhi del suo interlocutore, «dovremo realizzare la controsoffittatura per un nostro nuovo punto vendita…» e bla bla bla bla bla «… ormai i discount in Italia non sono più sinonimo di bassa qualità…» e bla bla bla bla bla «… forte incremento degli utili…» e bla bla bla bla bla «… nuovo punto vendita…» e bla bla bla bla bla.

Dio, quanto conciona questo qua, aveva pensato Fabio. Vieni al dunque. Era uscito dall’ufficio circa un quarto d’ora dopo, con il cuore che gli sobbalzava in petto dalla gioia. Si sentiva quasi un essere umano. Era di nuovo in pista. Della Martira, a cui per circa tre minuti erano spuntate aureola e ali d’angelo, aveva chiesto se era in grado di realizzare la controsoffittatura del nuovo punto vendita, compresi bagni, magazzini e compagnia cantante. Fabio aveva risposto in maniera affermativa e si erano accordati per una cifra che non garantiva granché come margine di profitto (e per questo Della Martira era ufficialmente rientrato nella categoria degli infami). Ma un margine c’era, eccome. La metratura e la manodopera avrebbero fatto il resto. E poi, mentre usciva, gli aveva fatto una domanda che alle sue orecchie era suonata come una campana a festa. Gli aveva fatto capire che il Momento era giunto.

«Signor Calvi, esegue altri lavori? Vorrei affidarmi a un solo interlocutore.»

È proprio a questo che sta pensando mentre percorre l’assolato viale e gli alberi gialli e rossi, infuocati dall’autunno, sfrecciano ai suoi lati proiettando strisce d’ombra sull’asfalto e sulla carrozzeria della sua auto. Sta andando in via Rinascimento, presso un punto vendita SpendiMeno dove Della Martira ha un ufficio.

Quell’untuoso damerino deve avere un ufficio in ogni punto vendita, e se non ce l’ha, di sicuro ne occupa uno non suo. Nella logora cartella da lavoro in pelle marrone che ancora emana il suo caratteristico odore, è custodita l’offerta per il controsoffitto, per la realizzazione delle opere in cartongesso e per la manutenzione periodica del punto vendita. Per le altre opere ha maturato l’idea di coinvolgere alcuni amici le cui imprese si trovano nella sua stessa situazione; inoltre, ha già in progetto di riassumere un paio di ragazzi che era stato costretto a licenziare quando non aveva più potuto garantirgli lo stipendio.

Insomma, ha tutto ben chiaro in testa. È euforico. Nonostante non esista più la meritocrazia (se mai sia esistita) dei tempi di suo nonno e di suo padre, nonostante contino solo gli agganci, le amicizie di comodo e che lavorino sempre le stesse imprese, nonostante sua moglie e i suoi figli gli appaiano a volte un po’ più lontani, nonostante tutto… ogni considerazione era del tutto superflua. Il Momento è arrivato. E da questo Momento potrebbero dipanarsi altre occasioni, così come le vene conducono sempre al cuore, come tutte le strade portano a Roma.

E pazienza se il suo rituale mattutino non era sembrato di buon auspicio: è uno schiacciasassi, pronto a polverizzare anche il minimo ostacolo sul suo cammino.

Ogni mattina Fabio, infatti, si concede al suo personale rito propiziatorio. Dopo essere uscito dalla sua camera, nel dirigersi verso il bagno, si ferma davanti alla porta della stanza di suo figlio Stefano. Applicato alla sommità della porta c’è un canestrino di plastica. Non ha ben chiaro per quale strano motivo suo figlio abbia appeso il canestro rivolto all’esterno della sua tana (dall’odore che vi aleggia talvolta, non può che attribuirgli tale appellativo) verso il corridoio e non verso quel campo minato dove suo figlio adolescente passa la maggior parte del tempo quando non è a scuola, agli allenamenti o in giro con gli amici. Soprattutto non ne comprende la praticità, dato che il corridoio è largo circa un metro e venti; ciò rende impossibile tirare fronte al canestro, ma solo dai lati. Escludendo ovviamente le schiacciate, le quali affascinano suo figlio come solo le cose facili da realizzare – anche se non in maniera irrisoria – possano fare. Quando i peli che adesso tanto ti inorgogliscono si riveleranno per quello che sono, (cioè asettici controllori sul treno giunto al capolinea del completo sviluppo), perderai il gusto della schiacciata, nano, e scoprirai il vellutato piacere del tiro dalla media o lunga distanza, pensa Fabio con affetto. Lui è sempre stato uno da tiro dalla media. Difficile il giusto, mai banale o troppo facile. E ogni mattina raccoglie la pallina arancione rigata di nero e, cercando di essere il più furtivo possibile, effettua il Suo Tiro. Questo rituale è solo suo, è una cosa di cui non ha mai parlato a nessuno e di cui mai parlerà. È il suo momento speciale, pregnante, in cui quasi ritorna a essere un bambino superstizioso. Se il tiro va dentro, sarà una buona giornata. Se invece sbaglia, potrebbe essere brutta.

Riuscirà Daniela a passare l’esame di statistica? Chiedilo al canestrino.

L’ecografia alle tonsille non mi darà brutte notizie, vero? Chiedilo al canestrino.

A Stefano scenderà in fretta la febbre? Ieri era bella alta. Chiedilo al canestrino.

Il tutto potrebbe sembrare infantile, certo, ma costituisce un oracolo morboso e attraente, di facilissimo consulto e celere responso. In fondo, tutto dipende dalla sua perizia. E non è forse questa una delle chiavi di interpretazione della vita? È un rituale a cui non ha mai rinunciato, malato, in ritardo o ingessato che fosse. Pazienza se non trova subito la palla, la cercherà fino a stanarla, posizionandosi anche a quattro zampe o prono a terra per guardare sotto la cassettiera posta nel corridoio, simile a un cane da tartufo placido e implacabile, lanciato alla ricerca della sua prelibata preda. In una memorabile occasione, non trovando la palla finita dentro la stanza di suo figlio, ha rimediato scendendo al piano di sotto e requisendo alla sonnacchiosa Doghessa il suo panino di gomma, tributando un ringraziamento subliminale al suo cane per avere disinnescato il fischietto posto alla base del panino. Ha pure segnato, quel giorno, sentendosi colmo di maniacale imbarazzo e superstizione.

In quella particolare e importante mattina, mentre il sole stava già sorgendo, Fabio aveva raccolto la palla e si era posizionato al centro della bolla di silenzio che permeava la casa, investito dalla lama di luce dorata scagliata dalla maestosa dea dell’alba, aveva tirato e… aveva sbagliato. Aveva osservato per un attimo la palla vorticare impazzita nell’anello – i cronisti d’oltreoceano direbbero in and out, quelli nostrani palla sputata dal ferro – per poi cadere a terra, sulla passatoia del corridoio che per fortuna ne aveva attutito il rumore. Una stilettata gelida di preoccupazione gli aveva trapassato per un attimo le viscere. Ho sbagliato. E qualche ora dopo avrebbe dovuto sostenere il colloquio decisivo con Della Martira. Un attimo e si era scosso, fiducioso. Andiamo, aveva pensato, precipitandosi a raccogliere la palla, quante volte hai sbagliato il tiro e la giornata è stata comunque perfetta, buona, o comunque normale e anonima? Non rammenta tiri sbagliati che abbiano portato giornate funestate da avvenimenti sgradevoli, o almeno non troppo. Talvolta, il mondo può essere una giornata di pioggia in cui ci si ritrovi senza ombrello e senza neanche un venditore abusivo nelle vicinanze. Comunque, il suo preventivo era già stato approvato due volte, durante il suo primo incontro con quel pavone in giacca e cravatta e anche durante un recente scambio di mail e telefonate. Per cui Fabio si era scrollato di dosso i cattivi presagi e aveva sorriso. È sempre stato uno da bicchiere mezzo pieno, oltre che da tiro dalla media. Sorrideva ancora mentre si lavava i denti, ma questa volta non con i muscoli facciali: sarebbe stato alquanto scomodo farlo con spazzolino e schiuma in bocca. Sorrideva con il linguaggio del corpo, con il cuore, pensando al Momento.

Ingrana la quarta.

Una volta entrato nell’ambiente, la credibilità e la visibilità della sua ditta sarebbero di sicuro cresciute. E poi c’era la basilare soddisfazione di lavorare. Per Fabio lavorare significa dignità, significa tornare a casa orgogliosi di quanto si è fatto nella propria giornata, magari sudato, sporco e affamato. Significa fare una bella doccia (acqua tiepida, tendente al freddo d’estate, bollente d’inverno), cancellare lo sporco e la stanchezza dalla pelle e dalla mente, sprofondare nel vecchio divano e pensare a quanto è stato fatto e a quanto verrà fatto il giorno seguente, magari accarezzando il cane. Significa sedere a cena con i propri figli, magari litigare con uno di essi o con entrambi, sapendo che tutto fa parte di un qualcosa il cui maggiore artefice e regista non può che essere lui stesso.

Significa sentire il cibo delizioso che sua moglie ha cucinato adagiarsi nello stomaco, mentre lei si lamenta del poco aiuto ricevuto da parte sua, «Manco hai apparecchiato, devo sempre fare tutto io!», e pregustare che l’aiuterà stanotte in un altro modo; significa notare lei che lo scruta, che capisce cosa sta pensando e le sue guance che si imporporano appena prima che gli rifili un cazzotto sul bicipite. Significa assaporare con gioia i piaceri del dopo cena. Un buon caffè, un film o una partita, di calcio o basket che sia, per la gioia di Marta. Significa registrare i drammi esistenziali di Stefano, le fanfaronate di Daniela prima di uscire con le amiche o con Quello Là, il brivido di piacere donato dalla temporanea frescura delle lenzuola quando si corica in estate, il brivido di shock generato dal freddo tombale delle lenzuola quando si infila a letto in inverno; significa fare l’amore mentre la pioggia bussa sollecita alle tegole del tetto di casa sua, a volte con discrezione, a volte con irriverenza, mentre il vento invernale sferza le piante del giardino e soffia con fare minaccioso nelle grondaie, mentre la notte estiva è rovente e i grilli cantano le loro canzoni stonate e senza senso. Significa subire bofonchiando i colpi che sua moglie gli assesta nelle costole perché sta russando e origliare la casa scricchiolare, assestarsi e cercare una posizione più comoda nel suo eburneo letto, proprio come sta facendo Marta lì accanto, come stanno facendo i ragazzi nelle loro stanze.

Ormai è rassegnato, da tempo, al fatto che se faranno un brutto sogno non verranno più a chiedere di dormire nel lettone come facevano quando erano piccoli, ma si gireranno, distratti, dall’altra parte e si riaddormenteranno. Come la sua casa, come sua moglie, come lui stesso, come Doghessa che emette nel sonno quei versi sfiatati simili al gracchiare di una vecchia e logora cornamusa. E poi, quando suona la sveglia, giù dal letto, nel fresco dell’alba che precede la nascita di un nuovo giorno, sperando sia almeno uguale a quello precedente, specchio di una straordinaria normalità che ammanta e protegge lui e la sua famiglia. Questo significa vivere. E, per quanto possa sembrare illogico o slegato, per Fabio tutto questo è anche lavorare. Quando non lavora non sempre le giornate hanno questa melodia, questo ritmo che culla e scandisce la sua vita. Non lavora solo per i soldi, solo per il sordo benessere da famigliola felice immortalato dalle pubblicità delle merendine. Lavora per vivere.

Riflette su tutte queste cose mentre rallenta e infine si ferma a un semaforo. Medita su questo insieme di pensieri che lo pervadono e lo costellano come una galassia sconosciuta e infinita. Con la mente sta pensando a come gestire il discorso con Della Martira e – in seconda battuta – con i suoi collaboratori, nel caso in cui la seconda parte della sua proposta sia accettata. È ottimista, Della Martira gli sembra uno che se è soddisfatto di qualcuno se lo porta in capo al mondo e lui è già pronto a partire. Con il suo cuore, invece, sta pensando alla sua famiglia, ai suoi cari, alla sorpresa che gli farà se tutto andrà come deve andare. Ha intenzione di portarli tutti a mangiare da Riccio & Co., un ristorante di pesce specializzato in ricci di mare. Sa che sua moglie e i suoi figli impazziscono per gli spaghetti ai ricci, come d’altro canto anche lui.

Il suo stomaco ha un involontario gorgoglio, sono quasi le undici e la prospettiva del pranzo è lontana ma facile e intuibile, appena oltre il prossimo dosso. Il suo cuore, invece, ha un involontario spasmo d’orgoglio perché i suoi figli adorano gli spaghetti ai ricci quanto o più degli hamburger con patatine, o altre schifezze simili. C’è ancora speranza per l’umanità – penserebbe ghignando – , se tutto questo non stesse succedendo a livello del suo inconscio. La sua mente, infine, è tesa e concentrata sull’obiettivo; riconosciuto il Momento ora deve domarlo, imbrigliarlo e tornare a casa da vincente (Fabio venne, Fabio vide, Fabio vinse) e poi potrà anche pensare a come festeggiare.

Scatta il verde.

Purtroppo non tutte le strade portano a Roma. O in via Rinascimento. Certe strade sono senza uscita, dei cul-de-sac troppo stretti nei quali non si può neppure fare inversione. Così come in una galassia non ci sono solo pianeti noti o stelle bellissime. Ci sono anche cose che la mente o il cuore umano non hanno mai accettato, non hanno mai compreso e mai comprenderanno. Cose che vanno oltre l’umana comprensione. Cose che accadono e basta. E questo concetto è quanto di più alieno possa esserci, per Fabio come per tutti gli uomini. Molla la frizione, inserisce la prima. Il grosso, amato e affidabile motore tedesco ronza fedele ai suoi ordini. Mentre si gratta una guancia, immerso nei suoi pensieri, Fabio sente una sghignazzata folle da strega mentecatta arrivare da sinistra, dal lato dove si sta grattando la guancia. In un attimo capisce che non si tratta di una strega, ma dello stridore impazzito di quattro pneumatici; l’attimo si amplifica, fino a durare per sempre e Fabio ha il tempo di sentire persino l’odore di gomma bruciata e un rumore strano, come il respiro di un gigante. Ha persino il tempo di stabilire una bizzarra connessione con una storia che raccontava sempre a Daniela prima di rimboccarle le coperte, Giacomino e il fagiolo magico.

Luca corre. È in ritardo, non può fare altrimenti. Nella fretta non si è neppure allacciato la cintura. Sta andando a un colloquio di lavoro, sono le undici meno cinque e alle undici deve essere dall’altra parte della città. Quel cazzo di cellulare. Dopo averlo messo sotto carica ha puntato la sveglia alle otto e mezzo e quella merda con le batterie si è spento durante la notte, nonostante fosse carico. Ergo, la sveglia non ha suonato. E cara grazia che si è svegliato alle dieci e mezzo. La prima cosa che farà con il suo primo stipendio sarà comprarsene uno nuovo. Poi si rende conto di sfidare troppo la sorte, mentre supera un furgone sulla destra, guadagnandosi fantasiosi insulti da parte del conducente. Non gli piace guidare così, di solito non guida mai così anche perché con il macinino che si ritrovano lui e sua madre non si potrebbe certo correre la ventiquattr’ore di Le Mans. Ah Ah. In più le gomme sono quasi completamente lisce, ma che ci può fare? Sua madre fa la cameriera part-time in un ristorante, il signor Boschi è fuggito verso nuove e mirabolanti avventure mentre era ancora un neonato e lui stesso fa il cameriere (e pulisce i cessi, nonché il vomito) in un pub il sabato e la domenica. Non navigano certo nell’oro e questo mese la scelta era cambiare le gomme o pagare le bollette.

Barrata l’opzione B. Luca non è uno stupido, ha dovuto mollare l’università poiché a causa di un cavillo gli è stata rifiutata una borsa di studio, in più sua madre è rimasta a casa dal lavoro per due settimane a causa dell’infarto che ha subìto mentre lavorava. Non è più tanto in forma, fuma e mangia come un ossesso; sono gli unici piaceri che ha, a meno che non sia diventato un piacere spaccarsi la schiena per otto o a volte anche dieci ore. Quel bastardo del signor Caruso, il proprietario del ristorante, non ha voluto prenderlo in sostituzione della madre. «Problemi con il commercialista», ha detto, come se non avesse quasi tutto il personale assunto in nero o sfruttato oltre i termini del contratto. Avrebbe voluto prenderlo a schiaffi, quel ciccione intrallazzato, ma sua madre avrebbe perso il lavoro e questo lui non poteva permetterlo. Loro non potevano permetterselo. Poi era accaduto un miracolo. I discount SpendiMeno cercavano personale e lui aveva mandato il curriculum, più per un riflesso che per altro. Non si faceva illusioni, aveva mandato settanta curricula in circa dieci mesi, ricevendo un cospicuo numero di risposte. Zero. Neanche i call center gli avevano risposto. E quelli li avrebbe sinceramente evitati. Non è un ragazzo schizzinoso, ma non è portato per quel tipo di mestiere. E, per fortuna o purtroppo, non era un figlio di papà; non aveva agganci, lui. Ma stavolta aveva ricevuto risposta e lo avevano invitato a sostenere un primo colloquio conoscitivo – che era andato bene – e ora doveva sostenere un ulteriore colloquio in cui avrebbe visitato il punto vendita di via del Rinascimento e risposto ad alcune domande. In caso di esito positivo, avrebbe iniziato l’affiancamento il giorno seguente. Luca era eccitatissimo – quanto Fabio – e sentiva che la sua personale versione del Momento era arrivata. Aveva fatto buona impressione, lo sapeva. Il contratto era a tempo determinato “finalizzato all’inserimento a tempo indeterminato”, le solite cazzate, rimugina digrignando i denti, ma almeno ha la possibilità di giocarsela.

Avrebbe finito gli studi. E poi basta cessi, basta tornare a casa alle cinque di mattina con l’odore di piscio, birra e costernazione sotto al naso, basta ristorante del signor Caruso. Sua madre aveva lavorato abbastanza, era ora che si riposasse un po’. Sì, cazzo. Se la sarebbe giocata. Era pronto.

Mentre pensa al suo futuro, a cinquanta metri vede un semaforo; dovrebbe svoltare a sinistra, ma è già arancione. Con un moto di rabbia rallenta e sta per scalare in terza quando gli cade lo sguardo sul cellulare posato sul sedile accanto. Sono le undici. «Cazzo!» impreca Luca, poi pensa. E per una volta pensare prima di agire lo porta a fare un errore madornale. Pensa che manca poco meno di un chilometro al discount. Pensa che in un paio di minuti potrebbe essere là e non risulterebbe neanche in ritardo. Magari il suo cellulare infame è pure un paio di minuti avanti rispetto all’orologio del responsabile con cui sosterrà il colloquio.

Superando, ancora sulla destra – ça va sans dire – un’anziana signora a bordo di un’interminabile Mercedes grigia, Luca si dirige verso il suo appuntamento con il destino, sicuro che ce la farà a superare il semaforo prima che diventi rosso. Ma il semaforo diventa rosso proprio in quel momento. Luca impreca ancora, «Porca puttana!» Si trova a dieci-quindici metri dal semaforo. Decide di passare comunque, è lanciato, è disposto a rischiare, come chiunque non sappia cosa stia rischiando in realtà. Come tutti i ventenni, è convinto di essere immortale e che le disgrazie accadano solo agli altri. Anche stavolta, ha ragione lui e l’incoscienza giovanile che l’ha posseduto come un morbo tropicale lo sorregge nella sua sciagurata decisione. Arriva alla striscia bianca che segnala lo stop in prossimità del semaforo e inizia una brusca frenata che dovrebbe culminare con una stretta svolta a sinistra, ma va troppo veloce. Per fortuna non arriva nessuno.

Prova un’euforia che non aveva mai provato. Sta trasgredendo. Si sente come l’eroe di un film d’azione americano. Poco importa se gli eroi del cinema americano non guidino Panda bianche con le gomme lisce, non presentino sul viso gli spettri di un acne che in passato, durante gli anni delle medie, gli ha procurato i poco lusinghieri soprannomi di Faccia Da Pizza o Pizzaefiustel (i ragazzini delle medie sono crudeli e spesso non hanno una chiara idea della grammatica, tanto meno delle lingue straniere) e soprattutto non abbiano un fisico che ricorda uno xilofono appeso a un attaccapanni. Ma, come appena capitato per Fabio, queste considerazioni sono del tutto superflue.

Sta volando, guida una cazzutissima Mustang e guai a chi si frapporrà tra lui e il suo fine. È teso e concentrato sull’obiettivo, ovvero superare quell’incrocio e poi via verso il discount. Tutto accade in un attimo. Un attimo, o un’eternità.

Prende la curva troppo larga e tocca con la ruota anteriore sinistra il cordolo dello spartitraffico, la Panda decolla, si solleva da terra poco prima di speronare all’altezza della portiera una BMW che appare dal nulla in mezzo a quel maledetto incrocio.

Fa in tempo a vedere il profilo di un uomo abbronzato, con i capelli corti, leggermente brizzolati, parzialmente celato dalla mano sinistra sollevata all’altezza del volto. Poi sente un boato terrificante e incredibilmente vivo, come se a scontrarsi non fossero state due automobili ma due esistenze, il che è ovvio nella sua esattezza.

Avverte intorno alla sua testa un folle capodanno crepitante di vetri frantumati, a cui segue un dolore lancinante alla sommità del capo e in un attimo capisce che sta volando fuori dal parabrezza come una bambolotto scagliato da un bimbo crudele nella calda aria autunnale, i legamenti del ginocchio destro completamente distrutti e un grave trauma cranico, oltre a gran parte delle costole fratturate. Vede l’asfalto avvicinarsi di più, sempre di più. Atterra sulla gamba destra, già lesionata in modo grave, che si frattura in più punti. Poi il mondo collassa in una gracchiante cacofonia di dolore e tutto diventa prima blu, poi per un attimo rosso e infine nero.

Fabio avverte una botta tremenda al lato sinistro del suo corpo; il suo braccio, ancora sollevato nell’atto di grattarsi la guancia, viene frantumato nell’urto. La parte sinistra della sua scatola cranica si fracassa come un guscio d’uovo, le sue costole si spezzano come stuzzicadenti, il femore, la tibia e il perone sinistro si fratturano in più punti. La sua spina dorsale si rompe in due zone, così come l’osso del collo.

Per qualche strana, dolorosa e incredibile ragione, è ancora vivo e prova persino ad abbozzare l’idea di alzarsi ma, com’è ovvio, non può muoversi. Non sente dolore, lo shock è troppo forte e impazza nel suo sistema nervoso devastato e pressoché defunto. L’ultimo rumore che sente è il crudo stridore del suo femore spezzato a metà; la gamba scivola verso il basso per la forza di gravità e Fabio sente un rumore secco e strisciante, come un ramo che cede sotto il peso della neve o un bambino che spezza una canna di bambù per apparire tosto agli occhi dei suoi amici. Esala tre parole, le sue ultime, ruderi della capacità appresa tanti anni prima mentre suo padre lo teneva in braccio, spronandolo a parlare mentre faceva finta di lanciarlo in aria, un gioco che lo faceva sempre gorgheggiare e pigolare come un passero.

Fabio gorgheggia anche ora, ma tra un verso e l’altro spreme «Ho sbagliato tiro…». Dalla bocca, insieme a queste tre parole, inizia a sgorgare sangue vermiglio e una lacrima solitaria scende lungo il pendio della sua guancia destra, tramutandosi a fine corsa in una moneta scura sui suoi jeans imbrattati di sangue.

Non andrà mai a mangiare da Riccio & Co., non stringerà mai la mano a Quello Là – che non sarà mai davvero degno di stare con sua figlia –, non vedrà mai una bomba da tre di suo figlio in una partita. Non giocherà mai più una partita di calcetto con i suoi amici e i figli dei suoi amici. Non accarezzerà mai più il volto di sua moglie, non sentirà mai più sotto le dita le amate forme dei suoi zigomi cesellati o del suo nasino impertinente alla francese, la prima cosa che ha notato di lei, ancora prima del suo sedere. Il suo naso è la prima parte di lei che lo ha conquistato, strano a dirsi.

Non potrà mai più prendere in braccio sua madre da dietro per farla spaventare e non potrà più crogiolarsi nelle conversazioni con suo padre, sentendosi unito a lui in quei momenti come in nessun altro frangente. Non riuscirà a portare l’offerta che gli avrebbe cambiato la vita al dottor Erminio Della Martira, il quale lo aspetterà invano per oltre mezz’ora prima di provare a contattarlo, furente, al cellulare.

Il caso, possiamo dirlo con cognizione, vorrà che il cellulare di Fabio sarà l’unica cosa vivente – o funzionante – che rimarrà sull’asfalto di quell’incrocio, in mezzo a un’accozzaglia di lamiere contorte, allacciate in un ultimo, morboso abbraccio che solo poche ore prima erano due automobili.

Della Martira sarà il primo ad apprendere la notizia della morte di Fabio Calvi. Sono le undici e un minuto precise di un assolato e per la maggior parte del mondo anonimo lunedì di ottobre.

16 Marzo 2016
il nostro autore, Andrea Spina, sabato 12 marzo, alle ore 17 presenterà il suo libro, Il corso degli eventi, alla biblioteca comunale di Capoterra.
26 Agosto 2016
ecco un'interessante intervista ad Andrea Spina, autore de Il corso degli eventi

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Salve ragazzi, sono stato alla presentazione del libro a Ussana molto bello e interessante, e ho conosciuto Andrea Spina. Credo di aver guadagnato del tempo e insegnato qualcosa di positivo ha mia figlia. ci siamo già premuniti all’acquisto l’unione fa la forza.. grande Andrea avanti tutta …. a presto Siro e la piccola Pamela ..

  2. (proprietario verificato)

    Questo libro merita di viaggiare tra i lettori! La trama e’ molto realistica e attuale, non solo rappresenta appieno la crisi che stiamo vivendo; fa molto di più, descrive uno spaccato di famiglia comune, le sue problematiche caratterizzando i singoli personaggi in maniera magistrale. La sensibilità e l’attenzione minuziosa nei dettagli rendono quest’opera validissima !! consigliato a tutti!

  3. (proprietario verificato)

    DAI, DAI, DAIIIIIIII!!!!!!!

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Andrea Spina
Andrea Spina nasce in provincia di Milano nel 1986, ma dal 2011 vive a Capoterra, in provincia di Cagliari. "Il corso degli eventi" è il suo primo romanzo.
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