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Interni di una tempesta

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Mentre ripensa alla notte passata con lo scrittore Andrea Vaiardi, Sara ha l’impressione di tornare finalmente a respirare. Ma dura poco: basta un profumo portato dal vento ed ecco riaffacciarsi il ricordo di Omar, il medico palestinese che ha deciso di porre fine alla loro relazione, acconsentendo a un matrimonio combinato. In quel momento, Sara capisce che per andare avanti deve trovare la forza di raccontare la loro storia, anche se nessuno tranne lei la ascolterà.

Si delinea così, alternando narrazione in terza persona, lettere e pagine di diario, quella che è allo stesso tempo una storia d’amore e un’intima riflessione sulla sfida di stare insieme nella diversità.

Troppo
(Luglio 2005)

Lasciami stare zitta, per favore. Non mi chiedere di parlare. Io non riesco a parlare con te. Non c’è niente, nella mia testa, quando sento la tua voce. Niente se non la tua voce. 

Sei uno specchio in cui gli altri si riflettono alla ricerca di un’immagine di se stessi. Uno specchio, sì, le parole si fanno specchi, per mano di chi le sa scegliere. Ma io non ne sono capace e allora lascia che ti ascolti, che guardi le tue labbra muoversi, che cerchi con gli occhi e con la bocca le briciole – almeno le briciole –, gli avanzi. Per nutrirmene e vedere se ne nasce qualcosa. Ma cosa potrebbe nascerne, poi?Continua a leggere
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Il portone le si chiuse massiccio alle spalle.

Con passo rapido si diresse verso la macchina. Rideva, incredula, di emozione e di stordimento.

Non è possibile.

Dietro a quel portone c’era la tregua che aveva invocato una notte di alcune settimane prima, quando il miagolio dei gatti maschi in guerra l’aveva svegliata di soprassalto, con lo spavento dentro, covato per chissà quanto nell’incoscienza del sonno. Le era già capitato di sentire durante la notte una battaglia fra i gatti del vicinato. Di solito si alzava, identificava la provenienza delle grida, apriva la finestra più vicina ai contendenti e, in qualche modo, cercava di separarli. A volte bastava un fischio, un rumore. Altre le toccava lanciare una penna o un accendino, mirando al luogo dello scontro. Una violenza che la turbava profondamente. Era nell’ordine naturale delle cose, ma fin da piccola Sara aveva deciso, con inconsapevole arroganza, che quell’ordine non era immutabile, perché non si rassegnava all’idea di farne parte. Quella notte, però, aveva ficcato la testa sotto il cuscino nella speranza di attutire il rumore, fuori, e di soffocare, dentro, l’impulso di alzarsi. Esercizio di accettazione: quello che si ostinava a voler cambiare non poteva essere cambiato. Tappandosi le orecchie, aveva implorato che qualcosa, qualsiasi cosa, arrivasse a farle riprendere fiato. Rivoleva Omar, ma lui non poteva averlo. E allora, patetica oltre ogni possibilità di redenzione, scimmiottando senza grazia una supplica rivolta al cielo, aveva chiesto una tregua. Almeno una tregua.

Pochi giorni dopo aveva ricevuto un’e-mail di Andrea Vaiardi: all’ultimo minuto la invitava a una lettura di brani tratti dal suo ultimo romanzo. E allora via di corsa, in auto, il teatro di provincia difficile da trovare, il ritardo, «Ci dovrebbe essere un biglietto a mio nome», le luci già spente, quella porzione di muro nella quale si era scavata una nicchia. E l’emozione di quando lui era salito sul palco, accresciuta da un pensiero fugace e presuntuoso: magari un po’ lui ci pensava, al fatto che lei era lì.

Dopo lo spettacolo l’aveva avvicinato. Stava firmando gli ultimi autografi.

«Sara! Ma dov’è Sara?» aveva chiesto a un certo punto, guardandosi intorno.

«Sono io.»

«Ciao! Che piacere conoscerti di persona, finalmente!»

«…»

«Ti è piaciuto lo spettacolo?»

«Sei veramente bravo.»

Acuta.

«Eh no… Non crederai mica di cavartela così? Bisogna che parliamo un po’, io e te. Hai la macchina? Devo risolvere un paio di cose, organizziamo la compagnia e poi ce ne andiamo a festeggiare. Sono così contento che tu sia qui!» L’aveva abbracciata. Era concitato, felice. «Aspettami qui, mi raccomando…»

«Ok.»

Voleva scappare.

Era rimasta, invece. Cercando di sembrare disinvolta, aveva iniziato a chiacchierare con un tipo che aspettava anche lui il ritorno di Vaiardi dal camerino.

«Tu sai dove si va?»

«Terrazza Sempione.»

«È un ristorante?»

«No, casa di Andrea. Anche se a volte somiglia a un ristorante… Ma tu chi sei?»

«Una a cui ha promesso un’intervista. Lavoro per una rivista, ci siamo scambiati qualche e-mail…»

Per Vaiardi Sara provava un misto di gratitudine, venerazione, trasporto e attrazione. L’autore di un libro che non si riesce a posare è fatto della stessa sostanza, insieme reale e immaginaria, di cui sono fatti i suoi personaggi. Fantasticare di un’intimità con questi esseri straordinari è un gioco che molti conoscono. Ma adesso che quell’incontro le toccava viverlo faceva fatica.

Essere con lui a casa sua, con i suoi amici, nelle sue stanze, fra le pareti che lo vedevano seduto a scrivere si era rivelata una sfida. L’emozione l’aveva ammutolita ed era stata troppo impegnata a sorridere per riuscire a parlare con chicchessia. Si era ubriacata fin da prima di cominciare a bere: dei suoni e delle immagini dello spettacolo, della sorpresa di trovarselo così vicino. Poi il vino l’aveva poco a poco stordita. Per non stramazzare, in quel ciclone che era presto diventato troppo, aveva allora inconsciamente deciso di ignorare il resto e concentrarsi sui movimenti di lui, sui suoi sguardi, sul suo avvicinarsi e allontanarsi.

Appoggiata a una parete del corridoio, che aveva cercato per stare un po’ in disparte, Sara aveva pensato che la felicità è come l’alcol: ubriaca in fretta sia quelli che non ci sono abituati sia chi ormai ne ha le vene colme. Si sentiva un ibrido fra le due categorie. Da mesi non godeva dell’alchimia rigenerante di un sorriso che nasce spontaneo, eppure da tutta la vita, a intervalli irregolari, beveva tanta felicità da scoppiarne. Imprevedibili abbuffate che colmavano il vuoto di mesi con la potenza di una piena che sfonda una diga.

«Piena…»

«Cosa dici?» Vaiardi era fermo alle sue spalle.

Era riuscita solo a sorridergli.

Non se lo ricordava, cosa aveva detto. Non si era nemmeno accorta di aver parlato.

Il suo viso, visto da così vicino, le era parso indiscutibilmente bello. Antico. Guardandolo muoversi per le sue stanze con il bicchiere in mano, alto nella lunga giacca nera, aveva pensato a un ospite dei tempi andati, al personaggio in frac di un grande romanzo. Uno di quelli che entrano in sordina per poi diventare protagonisti con un gesto o una parola che attira improvvisamente l’attenzione. Non tanto quella dei presenti, distratti da accidenti più vistosi, ma del lettore, svincolato dalla mondanità del contesto e libero di vedere che la chiave di tutto sarà lui.

Quando i gesti e le parole di Vaiardi erano stati riservati a lei, le era parso che fossero l’eco di qualcosa di lontano e profondo. Il suono della sua voce la investiva con il calore di tutte le coperte che sua madre le aveva messo addosso negli anni, quando la sera si addormentava sul divano davanti al televisore. Faceva male, quasi, tutto quel caldo.

«Cosa hai detto un attimo fa?»

Sara sorrideva ancora. Non se ne rendeva conto, ma era un sorriso ammiccante. Senza calcolo, senza malizia. Il desiderio irrefrenabile di avvicinarsi quanto più possibile a quella fonte di calore cancellava decori e renitenze. Quando era scivolata assieme a Vaiardi lungo la parete, fino a terra, aveva pensato, per un attimo, che rischiava di apparire squallida agli occhi di tutti, probabilmente anche a quelli di lui. Ma il fatto è che non riusciva a non sentirsi sul divano di casa, sotto la sua coperta più spessa, con le caldarroste già sbucciate lì a portata di mano. Non si temono giudizi e conseguenze quando si è così a casa. Non era tanto l’ubriachezza a svincolarla dalle norme di comportamento che erano sue e nemmeno la fama di Vaiardi a farla sentire eccitata all’eccesso, quanto piuttosto un improvviso, intenso benessere, del tutto inatteso.

Fottetevi! Vedetemi come vi pare. Io mi voglio sciogliere, dentro a questa voce. E voglio che parli solo per me. 

Si era abbandonata sul pavimento, e lui con lei.

Per quel che era rimasto della notte aveva cercato di raccogliere dalle sue labbra brandelli di parole. Quelle pubbliche dello spettacolo si mescolavano a quelle private, da letto, e l’intruglio che ne derivava aveva un sapore inspiegabilmente conosciuto, come già sentito, familiare. Un pensiero le era passato per la testa, improvviso e fugace come un guizzo d’orgoglio: È come se stessi facendo l’amore con me stessa. Dentro di lui c’era anche lei: tante volte si era vista nei suoi libri e, poco prima, nel suo spettacolo. Suoni, immagini, treni di parole che arrivano dritti allo stomaco, senza passare dalle orecchie, come le vibrazioni. Vaiardi, seduto al piano, suonava, leggeva, parlava, cantava e pareva non aver nemmeno bisogno di respirare. Le scenografie intorno a lui si trasformavano continuamente, eppure l’insieme restava in equilibrio e la complessità di quel palcoscenico si ricomponeva in un quadro che, a guardarlo da lontano, ricordava tanto la vita come appare nei rari istanti in cui si riesce a osservarla dall’alto, fuori dal turbine, senza farsi travolgere. C’era la vita intera, su quel palco. Quello che conta, quello che conta meno, quello che non conta per niente.

Ferma in mezzo al marciapiede, Sara tentava di ricostruire la formula dalla quale era scaturita quella magia di compiutezza, a nemmeno un giorno di distanza dalla piena di emozione che aveva suscitato. All’improvviso tornò a sentire un vuoto che ben conosceva.

Alla fine non era poi così fuori luogo quello che gli ho detto di primo acchito. “Sei veramente bravo”. Cos’altro dire a uno che mette in scena qualcosa che ti fa pensare: eccola lì, la vita, tutto quanto?

Un’ombra le oscurò il viso. Cercò di stemperare quel grumo di malessere nel ricordo, fattosi pallido in un istante, del risveglio al fianco di lui. Ma tutto si accavallava e non c’era spazio per cercare il bandolo.

Vaiardi era stato un’immagine e una voce molto cara fino a poche ore prima. L’intimità era arrivata improvvisa quando al risveglio si era ritrovata al suo fianco. Abbracciati, avevano parlato di pianura da raccogliere con la suola delle scarpe, di Borodin, chimico e compositore, e di come musica e chimica, in fondo, siano entrambe a caccia di formule. Poi lui era andato in cucina e ne era tornato con una foglia di menta fresca, che le aveva passato sotto il naso: «Per un risveglio… balsamico».

Troppo.

Il rapporto epistolare con lui, che si trascinava da mesi, era diventato carne in un batter d’occhio e Sara sapeva che le corse, lei, le gestiva male. Di tanta notte non sapeva che fare. Pensò che per ora poteva almeno conservare la sensazione di aver ricevuto in dono quella tregua che aveva chiesto con la testa sotto al cuscino.

Il senso di benessere che aveva percepito aprendo gli occhi quel mattino intendeva custodirlo gelosamente. Cosa ne sarebbe venuto era difficile dirlo. Per ora si limitava a prendere atto del fatto che, da quando era salita in macchina per raggiungere il teatro poco più di dodici ore prima, non aveva pensato a Omar. E che dal momento in cui Andrea l’aveva chiamata per nome il peso sul petto si era sollevato. Quel peso che le spezzava le gambe, rallentava il cammino, troncava il respiro. Un ingombro che non lasciava spazio a nient’altro.

Spazio.

Ne sentiva un immenso bisogno. Che almeno da quella perdita potesse diventare un vuoto da riempire. Che di tutto ciò che aveva le restasse l’essenziale.

Perché forse il punto è proprio questo: sopravvivere all’istante in cui il cielo sembra completamente vuoto.

La città era già sveglia da tempo. Troppo eccitata per sentire il carico di una notte insonne, Sara camminava immersa nei suoi pensieri, a testa bassa per nascondere un sorriso che le pareva troppo spudorato. Ma la città, a differenza sua, aveva riposato, in quella notte prima del giorno di festa. Ed era ricettiva come raramente accade: la domenica mattina anche a Milano le persone hanno tempo di guardarti in faccia. Aveva l’impressione che molti, attratti dal suo incedere spedito, cercassero i suoi occhi per indagare le ragioni di quella fretta fuori orario. Poi, una volta riconosciuto lo slancio incontenibile dell’euforia, sorridevano di rimando.

Qualcuno la urtò, leggero.

Aveva paura che un soffio potesse prendersi quel ricordo fresco di giornata e, invece, un alito di vento le riportò all’improvviso una mattina lontana.

La sveglia era scattata, Omar l’aveva spenta e si era girato per cercarla. Lei aveva risposto come per istinto a un bacio ammorbidito dal sonno, precedendolo di un istante. Poi lui si era alzato e Sara, distesa sotto la trapunta nel dormiveglia del mattino, solo il naso fuori, aveva seguito i preparativi, aspettando il momento in cui si sarebbe avvicinato al letto per salutarla prima di uscire, lasciandole il suo odore.

Aveva scoperto con lui che gli odori creano legami con le cose e con le persone, che sono una parte consistente delle cose e delle persone. Appena prima di uscire Omar si era chinato per cercarle il viso fra le coperte e ogni minuto di loro insieme era arrivato dritto al plesso solare, passando per le narici.

Che fosse venuto dal fondo della memoria o dalla giacca di un passante, all’improvviso l’odore di Omar era tornato ai suoi sensi e le gambe cedettero.

Dopo una breve pausa di serenità, ecco il buio, di nuovo. Il nero della mancanza.

Si fermò.

Quell’amore aveva portato gli odori nella sua vita e un odore lo riportava a lei, oggi, come fosse accaduto soltanto un secondo prima. Dopo mesi, un anno quasi, passati a tentare di costruire con fatica una distanza e dopo che un colpo di fortuna le aveva regalato una notte di insperata tregua.

Con Omar, per un po’, il tempo si era fermato in una pausa nella quale si erano rifugiati entrambi. Poi la loro storia era finita e il tempo aveva ripreso a scorrere.

È solo mancanza, il tempo che passa. Quando lo senti scorrere realizzi che tutto se ne va. E c’è soltanto il rimpianto. Solo l’attesa del prossimo istante in cui si fermerà.

Una sera, distesa accanto a lui sulla collina di un parco affollato, guardando dentro ai suoi occhi aveva perso coscienza di qualsiasi cosa non fosse compresa nella cornice disegnata dalle sue ciglia. Si era fermato su un bacio, il tempo, su uno di quei rari istanti in cui non si è soli. Tante altre volte le era successo, con lui. L’ultima poco prima che tutto finisse. Facevano l’amore e provavano un piacere intenso, ma il culmine non arrivava. Tacitamente avevano stabilito di misurare spinte e carezze, come se fosse possibile, dosando, non smettere mai. Poi le forze erano mancate e il sonno aveva preso il sopravvento; eppure continuavano a toccarsi, nel dormiveglia. Allora lei si era girata e aveva messo la testa fra le sue gambe. Si erano addormentati così. E così si erano svegliati. Avevano ricominciato a cercarsi nell’universo plastico del corpo che parla al corpo. Quando, con l’ultimo colpo di reni, erano arrivati il gemito e lo spasmo della fine, Sara aveva pianto per la paura di perdere quel prodigio di pienezza dentro al tempo che aveva ripreso a scorrere.

Di nuovo ferma e appoggiata a un muro che aveva cercato per sostenersi, sentì di avere le mani calde e il viso in fiamme. Mancanza, di nuovo. Per colpa di quell’alito di vento che, da chissà dove, aveva riportato ai suoi sensi il miracolo del profumo di Omar. Una fitta di dolore le aprì la bocca in un urlo muto.

Il tempo non si ferma quando sei sola. Il tempo non si ferma senza di te.

E se non si poteva fermare, allora via. Perché quando il tempo passa e tu invece stai fermo, la confusione si fa letale, e se non cominci a correre sopraggiunge la paralisi, inevitabile e irreversibile.

Andare. Da qualche parte bisognava andare. E in fretta.

Riprese a camminare e raggiunse presto la macchina. Da bambina le piaceva sedersi al posto di guida dell’auto di suo padre parcheggiata in giardino. Inseriva le chiavi e le faceva girare nel blocco di accensione: uno scatto e il cruscotto si illuminava, due scatti e si accendeva la radio. Non aveva mai osato andare oltre. Se ne stava lì seduta e pensava a quanto odiava il tram che la portava a scuola e che, quando sarebbe stata abbastanza grande da poter arrivare al terzo scatto, il mondo, immenso e tutto da esplorare, sarebbe stato ai suoi piedi. Invece, con il tempo, quel gesto si era spogliato di ogni ritualità: adesso i primi due scatti erano appena percettibili, prima del rumore dell’avvio, e il mondo era fin troppo piccolo. Eppure non era per niente ai suoi piedi. O forse, semplicemente, lei non aveva idea di che direzione prendere. Adesso una carrozza costretta a seguire il percorso rassicurante definito dai binari le sembrava preferibile alla strada dei grandi, che lascia liberi di prendere una direzione, ma non di distrarsi, di pensarci un po’ su.

Salì in macchina, mise in moto e pensò che sarebbe stato bello poter buttare le chiavi e lasciarsi portare da un tram guidato da qualcun altro, qualcuno che sapeva dove andare.

08 maggio 2020

Aggiornamento

Qualcuno ha scritto, nella sezione commenti, che Interni di una tempesta parla di paura e di amore. È senz'altro vero. Esiste poi altro, mi vien da chiedermi? Di questi tempi e sempre? A volte uno sovrasta l'altra; per la maggior parte del tempo sono lì in equilibrio più o meno precario. Sempre coesistono, in una formula alchemica inafferrabile, un mistero mai completamente svelato.
Per il mio libro è arrivato il momento dell'editing, della trasformazione. Ed è arrivato proprio quando anche le cose intorno a noi sembrano iniziare a evolversi, dopo il dolore, e poi lo stallo (e ancora il dolore).
Che sia di buon auspicio.
Sono certa che Interni di una tempesta uscirà migliorato dal processo che sta per affrontare. Sarebbe bello impegnarsi tutti perché da questa storia planetaria che ci ha visto uniti nella paura (e nel dolore), ma anche nell'amore, possa venir fuori un mondo un po' migliore.
E per parlare di paura e amore con altre - e alte - parole (e con il linguaggio che unisce della musica), un regalo da parte di Claire Kas: Chelsea Hotel. Paura, amore, paura, amore. Paura? Amore.
https://soundcloud.com/claire-kas/claire-kas-chelsea-hotel-no2   
Grazie del vostro sostegno.
Michela
06 gennaio 2020

Aggiornamento

Grazie a Terre Unite per aver accolto Interni di un tempesta con entusiasmo e a tutti i presenti per l'intima partecipazione.
Grazie ad Adriana del gruppo "Itineranze" per la sua testimonianza su cosa vuol dire preservarsi (e cambiare) in una nuova vita, in un paese lontano e diverso.
A Cristiana per aver letto due brani dal romanzo con la cura e la pacata intensità di chi conosce l'importanza delle parole.
Ad Anna per aver moderato, sostenuto, reso possibile tutto questo.
19 dicembre 2019

Aggiornamento

DOMENICA 5 GENNAIO – Festa dell’Associazione Multietnica Terre Unite, presso Centro Sociale 28 Maggio, Via Europa 59, Rovato (BS)

Per il programma dettagliato dell'evento vedete pagina Facebook di Terre Unite

   “E dove possiamo mettere alla prova un ideale se non nel quotidiano? Parlare di dialogo in astratto e pretendere che funzioni è come immaginare di riempirsi la pancia con una ricetta. È l’esercizio del dialogo che ci avvicina agli altri”.  “Interni di una tempesta” è un libro sullo stare insieme nella diversità. Sono particolarmente felice di presentarlo – adesso che ritorno a casa – al pranzo sociale di un’associazione di casa che ha aperto le porte al mondo (in più di un senso ha aperta la mia porta sul mondo): Terre Unite. L'Associazione Multietnica Terre Unite si ispira ai valori della solidarietà sociale e dell’integrazione, con un'attenzione particolare per donne e minori che vivono situazioni di violenza domestica o di grave disagio personale, economico e sociale. Fanno un lavoro difficile, a Terre Unite. Mettono in pratica l’ideale nel quotidiano (date un’occhiata al loro sito, sono anche su facebook). Per sostenere chi è in difficoltà, certo, ma anche per creare legami e costruire ponti di condivisione, che è anche l’aspirazione di “Interni di una tempesta”, forse della scrittura in genere. Sono particolarmente felice che qualcuno abbia detto di Sara, la protagonista, che è “un ponte”. Che bella cosa sono, i ponti. E quanto ce n’è bisogno. Non c'è posto migliore per parlare del mio libro e ringrazio già da ora Terre Unite per avermi accolta. MG
20 novembre 2019

Aggiornamento

Una di voi mi ha detto: “Scrivi? Non lo sapevo...”. Da sempre, ho risposto. Questo libro, per esempio, ha più di dieci anni di vita. Ci ho lavorato sopra tanto e poi l’ho messo via. Sono arrivati cataclismi personali e collettivi.
“tempi instabili, sì. paura, paura e ancora paura. terrorismo e terrore. dalla terra e dal cielo. rabbia.
approssimazione, due pesi e due misure, da una parte e dall’altra. ce n’è per tutti, ed eccomi qui a bermene un po’ anch’io, di quest’odio che spacca il mondo in due”.
Recentemente, però, ho sentito il bisogno di ritirarlo fuori dal cassetto per dirmi che bisogna continuare a cercare quello che ci accomuna. E dargli spazio, per quanto difficile e nonostante i cataclismi personali e collettivi.
“eppure non ci voglio cascare in questa storia che è nell’aria e mi puzza di marcio. e di morte che fa comodo a molti”.
Oggi sono contenta di averlo fatto. Mi ha ricordato chi sono.
Questo 36% è un bonus, una bella notizia della quale vi ringrazio.
Poi di belle notizie ne è arrivata un’altra, dai giornali e dai messaggi di amici che c’erano: quel mosaico di nomi dal mondo che si sono ritrovati a dire di sì al mondo che si sLega e sta insieme. Gli studenti italiani dai nomi arabi, il pallavolista azzurro dal nome slavo, nomi italiani tout-court che tanti altri nomi hanno chiamato a raccolta...
Il mondo in piazza. In una piazza italiana. Bellissimo! C’è sempre bisogno di belle notizie.
“troveremmo fondamenta comuni se la piantassimo di aspettarci di vedere la nostra immagine immutata e immutabile riflessa in ogni cosa, ovunque volgiamo lo sguardo. niente ce la può portare via se davvero la vogliamo preservare”.
Io oggi, di belle notizie, me ne metto in saccoccia due. Grazie a voi che avete sostenuto “Interni di una tempesta” (che è anche il mio contributo a quella piazza) e a tutti quelli che in piazza c’erano fisicamente. So che alcuni hanno fatto entrambe le cose.
PS: Continuate a farvi sentire, su entrambi i fronti. Le belle notizie possono sempre diventare più belle.

Commenti

  1. elia.pitozzi

    (proprietario verificato)

    Difficile riuscire a immaginare a quale genere di romanzo appartenga “Interni di una tempesta”.
    Ma alcune parole possono descrivere bene questo lavoro: paura e amore. Queste emozioni, vengono esposte con grande cura e lucidità dall’autrice Michela Gizzio, in tutte le loro possibili forme, anche quelle meno scontate.
    Andando avanti nella lettura di “Interni di una tempesta”, emerge un’autentica testimonianza, seguita da profonde riflessioni su queste tematiche e sul ruolo primario, che esse ricoprono nelle nostre vite.
    In ultima analisi, sento di consigliare questo libro, non come semplice passatempo, ma come bussola per i propri “momenti di solitudine”.

  2. (proprietario verificato)

    Il romanzo è costruito intorno alla figura di Sara e al suo amore per Omar, un palestinese che lavora a Londra, dopo essersi laureato in medicina a Milano. La forza positiva di questo amore, pur innestandosi sul fondo di tristezza che difficili esperienze hanno lasciato in lei, ridà slancio vitale alla sua acuta intelligenza del cuore e della realtà. Con la realtà Sara è pronta a compromessi: sa bene che tra una italiana/ europea come lei e un arabo/palestinese, come Omar, le ragioni di contrasto sono e si aspetta che possano essere anche in futuro molte, ma preferisce puntare su ciò che li unisce, ben sapendo che il cosiddetto “scontro di civiltà” serve a mascherare interessi di altra natura che hanno più a che fare con le ragioni del potere che con la cultura.
    Intorno a questo nucleo concettuale si organizza la struttura del romanzo e della protagonista le cui vicende e i cui pensieri vengono riferiti da una voce narrante esterna che lascia, però, spazio non solo alle irruzioni del narratore interno nelle pagine di diario di Sara, ma perfino ad un flusso di coscienza di grande intensità e densità nella parte quarta, intitolata Genova.

  3. Michela Gizzio

    (proprietario verificato)

    Fra poco torno nella mia casa italiana e porto con me tutti i segni lasciati su questa pagina.

    Grazie a chi ha comprato una copia del libro, a chi ha passato parola, a chi ha letto e commentato. Faccia a faccia, per telefono, qui sotto. A chi mi da consigli da tenere buoni per la fase di editing. A tutti voi che state facendo sì che “Interni di una tempesta” si trasformi in un’esperienza partecipata.

    “Una volta diventati cosa condivisa, i suoi ritratti della solitudine avevano preso vita. A letto avevano parlato a lungo: del silenzio, dell’abbandono. E poi delle notti in carcere di lui, di violenza e dolore della carne. E ancora della pena sottile di una vita ‘normale’, che lei conosceva ma non sapeva spiegare fino in fondo”.

    Vi ricordo che le bozze integrali del libro sono disponibili una volta pre-acquistato il libro (ebook o cartaceo).

    A presto nella sezione aggiornamenti: il 5 gennaio “Interni di una tempesta” verrà accolto in un posto speciale…

  4. (proprietario verificato)

    Difficile, forse addirittura impossibile, non sentirsi da subito coinvolti e partecipi di questo “Interni di tempesta”. Un libro che sa parlarci, con grande naturalezza e bellissime frasi, di porti, muri, diversità e Amore, quell’amore che non sempre vince su tutto. Così intimo eppure così universale, per questo dovrebbe essere pubblicato e conosciuto.

  5. (proprietario verificato)

    Sara è tutte noi. Chi, almeno una volta nella vita, non si è sentito in bilico? Coi piedi ancorati alla certezza, anche scomoda, del quotidiano che conosciamo e sappiamo gestire, procediamo lungo la strada sicura tracciata dai binari stesi davanti a noi. Ma la mente no, quella non ci segue, immagina altre vie, guarda verso l’ignoto mentre il cuore torna a palpitare per la paura e l’emozione di cambiare direzione, girare l’angolo e scoprire un mondo nuovo.
    Sara è una donna in transito, un ponte tra le diversità. La sua storia parla a molti, non sarebbe male se parlasse a tutti: c’è solo un modo per farlo, permettere a questo romanzo di arrivare sugli scaffali delle nostre librerie.

  6. (proprietario verificato)

    che dire?
    la meraviglia di una storia, le parole giuste per raccontarla e per esprimere tutte le emozioni di una donna, la protagonista, e di un’autrice.
    leggere la sinossi non basta, bisogna leggerlo e goderselo fino in fondo!!!
    leggetelo, ne vale davvero la pena!!

  7. (proprietario verificato)

    Questo libro fa parte di quelli che vorrei a tutti i costi, perché la diversità delle persone è ciò che muove il 90% delle decisioni umane, a tutti i livelli. Imparare a rispettarsi prima di tutto a livello intimo e personale è la chiave perché la vita di tutti sia migliore. Lo voglio!

  8. (proprietario verificato)

    A chi crede che si possa essere “uniti nella diversità” e a chi è ancora titubante, mi sento di consigliare un libro che spero potrà parlare a molti… fidatevi di me… “Interni di una tempesta” è un libro che deve ancora spiccare il volo, ma ne meriterebbe davvero la pena! E allora vi invito a leggere la sinossi ed a emozionarvi come è successo a me!

  9. (proprietario verificato)

    Poche righe, ma le parole scelte con precisione delineano le emozioni e i pensieri della protagonista; sei già dalla sua parte e non resta altro che seguirla e camminare per un tratto di strada con lei. Vorrei questo libro. E finire il viaggio.

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Michela Gizzio
da più di dieci anni vive nel Regno Unito, dove esercita la professione di counsellor. Ha una laurea in Lingue e letterature straniere, un diploma universitario in terapia della Gestalt e una famiglia multiculturale allargata. Ha tradotto libri e insegnato italiano e russo come seconda lingua. Torna il più spesso possibile alle colline di Franciacorta e alla casa in cui è cresciuta. Interni di una tempesta è il suo romanzo d’esordio.
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