gli spazi vuoti del tuo cammino.
L’angoscia stava diventando insopportabile. Come un
non riusciva a controllare il tremito delle mani.
A stento raggiunse il suo ufficio.
Per qualche minuto rimase in silenzio, immobile. Il
mani fredde, la vista confusa.
un’idea, si raffinò nell’odio e divenne un progetto.
annientare chi aveva voluto ucciderlo. Adesso lo spirito
era calmo, il cuore regolare, il respiro tranquillo.
particolarmente compiaciuto. Ogni tanto scriveva
rumore che si poteva udire nella stanza.
un’ambulanza.
Il professore alzò il capo e poi girò lo sguardo verso l’orologio.
chirurgo spocchioso, pieno di boria, di alterigia e di denaro.
panificio del centro, ‘unico rimasto a lavorare come Dio comanda’.
a casa a cena iniziata.
“Speriamo che il panettiere non abbia venduto i
maledetti grissini…” pensò, raccogliendo velocemente i fogli.
Uscì a razzo, e vide che il dottor Righetti, trentenne e
valido ricercatore, stava chiudendo la porta del suo ufficio.
Chiacchierando, percorsero il corridoio fino
all’androne, dove incrociarono la guardia giurata. Usciti
dal palazzo, camminarono velocemente sul marciapiede
lungo la facciata dell’edificio. Quando arrivarono
all’angolo della via, Righetti si fermò di botto.
“Mi scusi professore, ho dimenticato sulla scrivania i
compiti che devo finir di correggere.” disse il giovane e,
con calma, ritornò indietro.
Entrò nel Dipartimento, si fece da parte per lasciare
uscire due studenti abbracciati e si diresse verso il suo
ufficio. Sulla destra una lunga parete di vetro lo separava
da due grandi aule le cui finestre si affacciavano su di un
vasto cortile interno adibito a parcheggio.
Tale destinazione d’uso di un’area comune aveva
richiesto mesi di liti infuocate, alla fine delle quali si era
giunti ad un accordo: accesso gratuito per le biciclette, a
pagamento per le auto. Una sbarra apribile con
telecomando avrebbe impedito l’entrata ai soliti furbi.
Il dottor Bruno Righetti, vide, attraverso le vetrate,
che l’Audi del professore stava aspettando di poter uscire,
mentre la sua nuovissima Cinquecento nera era
parcheggiata contro il muro di fondo.
A quel punto si scatenò l’inferno.
Due boati quasi contemporanei ruppero la quiete di
quella tranquilla sera d’aprile. Chi si trovava all’interno
del palazzo non fece neppure in tempo a domandarsi cosa
mai fosse successo, che una terrificante deflagrazione
frantumò tutti i vetri delle finestre del piano terra e la luce
di un violento incendio rischiarò l’intero cortile.
Bruno visse in diretta la distruzione totale della sua
piccola FIAT. Dapprima la parte anteriore della macchina
deflagrò, e, dopo alcuni secondi, il serbatoio pieno di
benzina prese fuoco. La vettura sembrò sollevarsi in aria,
e poi esplose come una bomba, trasformandosi in una
palla di fuoco.
Dopo un attimo di silenzio tombale, cominciarono a
sentirsi delle grida di terrore.
Righetti tornò in sé. Fatti due passi, vide l’Audi
semidistrutta avvolta da un fumo sinistro. Il professore
era vivo, aveva aperto la portiera e si era gettato fuori.
Con le gambe orrendamente maciullate, tentava di
allontanarsi dalla sua macchina, trascinandosi dietro
quell’atroce ammasso di carne e di sangue.
Bruno spalancò l’uscita di sicurezza, superò a rotta di
collo i cinque scalini sconnessi e, preso per le ascelle il
ferito, cercò di portarlo in salvo. Capì che non ne avrebbe
avuto il tempo e neanche le forze. Si gettò allora sul
professore, facendogli scudo col proprio corpo.
L’Audi scoppiò e prese fuoco. I vetri interni delle aule
ricevettero direttamente l’onda d’urto ed esplosero,
cospargendo il corridoio di milioni di schegge.
Un pezzo di lamiera colpì la spalla del coraggioso
ricercatore, e la incise profondamente.
Il giovane perse conoscenza.
I boati delle esplosioni delle due auto si erano sentiti a
parecchi isolati di distanza. Tutti i servizi di pronto
intervento, di protezione civile, di polizia, compresi vigili
urbani, carabinieri e caserme militari, furono invasi da
telefonate, con richieste di aiuto e di soccorso.
Il primo a giungere sul luogo della tragedia era stato
Cosimo Imbesi, la guardia giurata, che, dopo aver
salutato i due professori, aveva continuato il giro di ronda
al primo piano del palazzo. Da cui era sceso di corsa,
dopo qualche attimo di smarrimento. Arrivato nel
corridoio, lo aveva trovato cosparso di vetri e solo grazie
agli stivali di ordinanza era potuto arrivare a vedere
l’orrenda scena di un uomo con le gambe ridotte ad un
ammasso di carne maciullata coperto da un altro, svenuto
e con la giacca zuppa di sangue.
Il commissario Ferrero arrivò dopo le ambulanze.
L’ispettore Dario Nicolasi gli andò subito incontro.
“Dottore, qui è successo una catastrofe!”
“Ci sono vittime?”
“Due feriti, uno gravissimo.”
Il professor Silva, le cui condizioni erano parse subito
disperate, era già stato portato al pronto soccorso.
Un medico stava medicando il Righetti che tremava in
modo parossistico ed era pallido come un morto. Venne
caricato sulla seconda ambulanza e portato in ospedale.
“Chi ha dato l’allarme?” chiese il commissario.
“La guardia giurata, un certo Cosimo Imbesi.”
“Dov’è? Gli hai già parlato?”
“Dottore, quando sono arrivato, qui sembrava di
essere in guerra. Sono riuscito a individuare qualche
professore che al momento dell’esplosione era nel
palazzo. La stanno aspettando negli uffici della direzione,
insieme alla guardia e a un paio di studenti.”
“La Scientifica? ”
“È nel cortile, ma per andarci le conviene fare il giro
esterno dell’edificio perché questo corridoio è una
trappola mortale.”
Ferrero entrò nel parcheggio notando che la sbarra che
ne bloccava l’accesso era inclinata a 45 gradi, e subito
pensò che, se l’auto che stava uscendo fosse esplosa dopo
essersi immessa nella via, la tragedia si sarebbe
trasformata in una carneficina.
I tecnici delle Scientifica stavano lavorando. Le due
carcasse annerite, il fumo, l’odore di bruciato, una larga
pozza di sangue, le vetrate distrutte, non erano altro che
lo scenario di un attentato.
“Savino che ne pensi?” disse il commissario,
rivolgendosi a uno degli uomini in tuta bianca.
“Cosa posso dirti, Marco, questa è opera di un pazzo
criminale, le macchine non hanno preso fuoco da sole,
quando le avremo esaminate saremo in grado di darti
delle informazioni più precise.”
Ferrero rimase qualche minuto a guardare il grosso
cortile, su cui si affacciavano le finestre del palazzo.
“Qualcuno avrà ben visto qualcosa – si domandò –
mica staranno sempre a far conti.”
Rientrò poi nell’edificio per andare a parlare con i
testimoni. Il primo ad essere interrogato fu Cosimo Imbesi, la
guardia giurata. L’uomo, di corporatura minuta, poco più
che quarantenne, aveva lo sguardo perso, tra l’attonito e
lo spaventato. Stringeva i braccioli della sedia per
mascherare il tremito che lo scuoteva.
“Signor Imbesi – esordì il commissario – quali sono i
suoi compiti e qual è il suo orario di lavoro? ”
“Io arrivo qui tutte le mattine verso mezzogiorno e ci
rimango fino alle sette e mezza di sera. Giro
continuamente per i corridoi, controllo le aule e i
laboratori, nel pomeriggio verifico che gli uffici abbiano
le porte chiuse e che dentro non ci siano intrusi. Ogni
tanto faccio anche un giro nel cortile, dove sono
parcheggiate le macchine.”
“E oggi?”
“Oggi è stato un giorno come gli altri, ero al mio
ultimo giro, ho visto uscire i poveri Silva e Righetti. Mi
hanno salutato e sono usciti. Io ho preso lo scalone per
salire al primo piano, non ero neanche arrivato in cima
che si è scatenato il finimondo. Ricordo di essere rimasto
paralizzato dalla paura, non ho neanche avuto il tempo di
chiedermi cosa fosse successo che un boato mi ha fatto
perdere l’equilibrio, ho sentito dei vetri che si rompevano.
Sono sceso di corsa per la scala, appena arrivato in fondo
un altro boato, peggiore ancora del primo, e ho visto le
vetrate delle aule esplodere in milioni di schegge. Sono
vivo per miracolo, se fossi già entrato nel corridoio sarei
stato fatto a pezzettini…mi son subito venuti in mente i
professori che avevo appena incontrato e camminando sui
vetri sono andato verso la porta di sicurezza e ho visto
una scena orribile: il povero professor Silva con le gambe
maciullate, e addosso a lui il Righetti, immobile, con uno
squarcio sulla spalla. E sangue poi, ce n’era dappertutto, e
la macchina che ancora bruciava e la puzza, terribile . . .”
“Durante quel suo ultimo giro, ha incrociato qualcun
altro?”
“No, nessuno, a parte una coppia di ragazzi che si
baciavano…”
“Oggi o nei giorni passati, non ha notato niente di
strano o di insolito?”
“Guardi, ci ho già pensato, ma non ho visto niente che
non fosse più che normale.”
“Un’ultima cosa. Immagino che non tutte le persone
che lavorano qui, professori e no, si fermino sempre fino
alle sette di sera.”
“Certo, le lezioni finiscono alle sei. A fermarsi fino a
tardi sono pressoché sempre gli stessi, compreso un
collega delle due povere vittime… un giovane professore
che ha l’ufficio proprio davanti alla porta di sicurezza e
che per sua fortuna non c’era.”
Marco gli chiese allora di fare l’elenco di chi si
fermava abitualmente fino a dopo l’orario di chiusura del
Palazzo. Poi chiamò Nicolasi.
“Senti – gli disse – prendi le generalità dei testimoni
oculari, convocali in Questura per domani mattina,
possibilmente scaglionati di almeno mezz’ora e fammi
parlare subito con chi non è in questo elenco.”
Per prima entrò una giovane ricercatrice, Saveria Candeli,
una donna graziosa, con un bel caschetto di capelli scuri
alla ‘maschietta’, ma vestita in modo trasandato e così
magra da sembrare anoressica.
Marco la fece accomodare e le sorrise.
“Dottoressa, potrebbe raccontarmi la sua versione dei fatti?”
“La mia versione sarà del tutto simile a quella degli
altri – esordì con tono tranquillo – purtroppo non ho visto
nulla che possa essere utile per le indagini.”
Il commissario aspettò che proseguisse.
“Oggi sono stata tutto il giorno chiusa nel mio ufficio
che è al primo piano dell’edificio. Quando ho sentito le
prime due esplosioni pressoché contemporanee, ho
pensato che fosse successo qualcosa all’impianto di
riscaldamento, che è stato appena rifatto. Non mi ero
neanche alzata dalla scrivania quando c’è stato il secondo
botto…sono uscita di corsa, pronta a scappare, attraverso
le finestre del corridoio ho visto la luce delle fiamme e il
professor Silva steso in terra fuori dalla macchina
semidistrutta. Mi sono allora messa a correre giù dalle
scale, ero solo alla fine della prima rampa, quando è
successo il finimondo. Ricordo di essermi rannicchiata su
uno scalino aspettando che tutto mi crollasse addosso. Poi
ho sentito delle grida e ho visto gente arrivare.”
“È sua abitudine fermarsi in Istituto fino ad oltre le
sette di sera?” domandò il commissario.
Saveria distolse lo sguardo.
“No – gli disse – solitamente esco alle quattro per
andare a prendere la mia bambina all’asilo nido. Oggi
però ci hanno pensato i nonni, e così ne ho approfittato per
fermarmi a lavorare.”
Ferrero rimase in silenzio. La giovane si tormentava
con le dita di una mano i polpastrelli dell’altra, in una
sorta di tic che denotava uno stato di nervosismo.
“Vede commissario – riprese dopo aver fatto un
profondo respiro – io convivo da cinque anni con una
compagna, una farmacista che questa sera è di turno fino
a mezzanotte. La bambina è nostra figlia, anche se l’ho
concepita in provetta. I miei genitori son bravissime
persone, ma religiose e bigotte da far paura. Che la loro
unica figlia sia gay è una cosa che proprio non riescono a
digerire. Questa sera sarei dovuta andare a cena da loro e
so già che non avrei retto più di tanto alle severe critiche
di mio padre e alle lacrime di mia madre. Ecco perché
procrastinavo al massimo il momento di abbandonare la
tranquillità della mia stanza.”
Il commissario, dopo averla congedata, prese alcuni
appunti. Secondo lui aveva detto la verità.
“Commissario, ci sarebbe ancora un professore, un
certo Mario Aliberti.”
“Fallo entrare, Nicolasi, poi andiamo tutti a casa.”
“Professore buonasera. So che è tardi ma le assicuro
che faremo più in fretta possibile.”
“Non si preoccupi, io mi considero un animale
notturno, vivo solo e non ho nessuna fretta.”
Piccolo, rotondetto e semicalvo, il professor Aliberti
non era quel che si dice un bell’uomo, ma aveva uno
sguardo così vivace ed ironico e un modo di porsi
talmente amabile, da risultare immediatamente simpatico.
Il commissario lo giudicò subito per quel che in effetti
era: uno scapolone impenitente, che amava i piaceri della
vita e le grazie delle donne.
La sua testimonianza fu del tutto concorde a quella
della Candeli, i loro uffici erano adiacenti e non
avrebbero potuto vedere o sentire qualcosa di diverso.
“Al momento delle esplosioni – disse al commissario –
ero nel mio studio con una laureanda e ho pensato subito
a un atto di terrorismo. Mi aspettavo che da un momento
all’altro entrasse un pazzo a sequestrarci e sono uscito
soltanto quando ho cominciato a sentire le sirene
dell’ambulanza e dei pompieri.”
“Senta, professore, qual è la sua opinione su tutta
questa vicenda?”
“Anche se non ho la più pallida idea di chi possa
essere il colpevole, sono però convinto che sia da
ricercare tra chi lavora in questo Dipartimento. Credo che
l’esplosione delle macchine avesse lo scopo di uccidere i
due proprietari. Cosa che in effetti si sarebbe verificata se
Righetti non fosse tornato indietro e non avesse
dimostrato un coraggio da leone nel salvare la vita al
povero Luigi. Le vetture devono essere state ‘minate’ e fatte
esplodere con un comando a distanza. Infatti, siccome
nessuno di noi ha orari rigidi, il potenziale assassino ha
dovuto aspettare che le sue vittime uscissero insieme dal palazzo.”
“E se non fossero uscite contemporaneamente?”
“Bella domanda – rispose l’Aliberti sorridendo – ma
quel che le dirò dimostra la mia tesi. Perché vede, il
colpevole doveva per forza conoscere il carattere e le
abitudini di Silva e di Righetti. I due non potrebbero
essere più diversi. Luigi è un uomo sanguigno, amante
della compagnia, della buona tavola e, resti tra noi, delle
belle donne. Il Righetti è un giovane introverso, tutto casa
e matematica, vive ancora con la mamma e nessuno l’ha
mai visto con una ragazza. Noi lo prendiamo un po’ in
giro perché è una via di mezzo tra l’ombra e il lacchè di
Silva. Che naturalmente si diverte e sostiene che il
poveretto, sperando di fare carriera, stia tutte le sere in
attesa del momento in cui lui esce dall’ufficio per
schizzare fuori e fare insieme un pezzetto di strada.
Questa cosa qui dentro è risaputa, ma fuori dal nostro
ambiente nessuno può conoscerla. Non riesco però a
trovare qualcosa che accomuni il Righetti e il professore.
Luigi è un matematico di fama, può aver dato noia a
qualcuno, ma il giovane ricercatore cosa c’entra?”
“Secondo lei, potrebbe essere stato uno studente?”
“Come le ho già detto, avrebbe dovuto conoscere bene
le nostre abitudini. Inoltre il Righetti va a far lezione ai
chimici, mentre Luigi tiene i suoi corsi qui, ai matematici
della laurea specialistica. In parole povere, non hanno
interferenze. Potrebbe indubbiamente essere stato un
caso, ma più ci penso, più mi convinco che sia stato un
colpo architettato, e anche bene, a tavolino.”
“La ringrazio per le sue ottime argomentazioni,
l’aspetto domani mattina in Questura…”
“Non troppo presto, spero!”
Il commissario lo congedò sorridendo.
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