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Darren ha trent’anni e due vite: per sua madre e le sorelle è un affermato reporter, ma in realtà è un killer professionista al servizio dell’FBI.
Quando un hacker cerca di entrare nei sistemi informatici della sua organizzazione, rischiando di fare saltare la sua copertura, Darren inizia un’indagine serrata per scoprire la sua identità e ucciderlo. L’uomo si ritroverà ad avere un contatto diretto con chi è dall’altra parte dello schermo: l’hacker lo prende in giro, lo contatta sempre più spesso e, con il tempo, comincia a scalfire la corazza che Darren si è costruito.
Per l’agente è arrivato il momento di fare i conti con i fantasmi del passato, uno in particolare.

Perché abbiamo scritto questo libro?

Avevamo quasi il bisogno fisico di raccontare qualcosa, di trasmettere emozioni, di emozionare i lettori. La voglia di regalare una stretta allo stomaco, di riuscire a conquistare parola dopo parola, ma, soprattutto di far affezionare i lettori ai nostri personaggi. Ormai trattiamo Darren e gli altri come fossero nostri amici di vecchia data, quindi abbiamo messo la loro storia su carta per far sì che avvenisse la stessa cosa anche per altri.

CAPITOLO UNO
È notte fonda, o forse sarebbe più corretto dire mattina presto,
considerato che sono ormai le tre passate. Poche
note, provenienti da un pianoforte in lontananza, diffondono
nell’aria una melodia quasi totalmente coperta dal chiacchiericcio
che si alza dai gruppetti di persone presenti nel grande
salone per ricevimenti. Alcune donne in abito da sera discutono con
fervore, a voce davvero troppo alta. Solo una di loro
sembra assente, assorta nei propri pensieri: sta guardando un
giovane uomo nel lato opposto della sala. È alto e biondo, elegante
nel suo smoking blu scuro, un braccio a cingere la vita
di una ragazza, ignaro dello sguardo triste che si posa sulla
sua schiena. I camerieri in abito bianco si muovono veloci e,
nonostante l’ora, trasportano ancora flûte pieni di champagne e
tartine, riuscendo a evitare abilmente chi, gesticolando,
rischia di farli cadere. Un palchetto è situato al centro della
sala, su cui si appresta a salire il direttore dell’hotel, il Royal,
per tenere il suo discorso di ringraziamento. Nominerà tutti i
presenti, ma anche chi non ha potuto partecipare e, finalmente,
concluderà la serata annunciando la cifra raccolta grazie a
quell’evento. Queste serate sono sempre così: una gara a chi
stacca dal blocchetto l’assegno con la cifra con più zeri. Soldi
che spesso hanno guadagnato sfruttando proprio le persone a
cui ora fanno la carità, pensa Darren per tutto il tempo.Continua a leggere
Continua a leggere

È arrivato all’evento soltanto verso la fine e da quel momento
ha stretto troppe mani e dispensato falsi sorrisi; ha chiacchierato
di politica estera e di sport, sembrando perfettamente a suo
agio in quell’ambiente così diverso da quello che ama
frequentare di solito. Ha resistito poco più di un’ora, prima di
decidere di ammazzare la noia dirigendosi al bar.
Ordina tre shottini, bevendoli uno dietro l’altro, ringraziando
il suo fisico per riuscire a reggere così bene l’alcol. Spera
che la serata finisca presto e, nel frattempo, ordina anche uno
scotch. Lo butta giù velocemente, facendo tintinnare il ghiaccio,
poi si gira verso la donna che gli sta di fianco. Si è seduto al
bar anche per lei: l’ha vista da lontano e ha notato come
lo guardava con insistenza. La donna però non ha cercato in
nessun modo di avvicinarsi a lui, per questo Darren è costretto
a fare la prima mossa.
È molto bella, bionda, con grandi occhi azzurri e le labbra
colorate di rosso. Se ne sta lì, seduta sullo sgabello, rigirandosi
tra le mani un bicchiere di Martini ormai vuoto, giocando
con l’oliva al suo interno, visibilmente annoiata.
«Posso offrirle un altro drink?» le chiede, usando un approccio
molto banale, ma che sortisce l’effetto desiderato.
Lei si volta, sorridendo e annuendo, mentre il barman prepara le
ordinazioni. Darren si presenta e comincia a parlare
del perché entrambi siano lì, per poi divagare su molteplici
argomenti.
I drink intanto diventano due e Britt, così si chiama la donna,
gli chiede una sigaretta. «Non fumo da anni, ma questi
eventi mi mettono sempre ansia» spiega mentre ne sfila una
dal portasigarette di metallo che le sta porgendo. Darren la
capisce: lui non fuma, ma ha imparato che avere le sigarette
con sé gli facilita il lavoro. In quel posto, poi, si sente talmente
a disagio che potrebbe anche farle compagnia. Le avvicina la
fiamma, mentre lei si sporge per accenderla.
Da quel momento, la serata di Darren diventa piacevole:
parlare con Britt è interessante, sembra molto intelligente, in
totale contrasto con la maggior parte delle donne presenti e,
vista la facilità con cui Darren è riuscito a convincerla a
concludere in camera, di sicuro anche molto sola.
È consapevole di essere affascinante e di sapere con precisione
cosa una donna voglia sentirsi dire, perciò era certo
che sarebbe riuscito ad avvicinarla con qualsiasi tipo di approccio.
Sarà stato a causa dei suoi sorrisi che non gli illuminavano lo sguardo,
rimasto spento per tutto il tempo, o per
quel suo fare quasi accondiscendente, ma quella bellissima
donna gli ha davvero trasmesso una sensazione di malinconia.
Gli è bastato ammiccare, sorridere e fare qualche battuta
– deve ammetterlo – di dubbio gusto, per farsi rispondere di
sì quando le ha chiesto: «Mi sto davvero annoiando tra tutte
queste persone, ti va se proseguiamo la chiacchierata in camera tua?».
«Andiamo» le sussurra, quindi, all’orecchio con voce roca,
sporgendosi verso di lei, seduta ancora sullo sgabello, alla sua
sinistra. Vede le guance della donna tingersi di rosso, mentre
nei suoi occhi compare un luccichio che prima non c’era. Se
per il desiderio o per l’alcol ingerito, a Darren poco importa.
«Ho aspettato tutta la sera che me lo chiedessi» sospira, infatti, lei.
Darren lascia dei soldi sul bancone, appoggia una mano sulla schiena
della sua conquista, che nel frattempo si è alzata, e
la guida gentilmente verso l’ascensore.
«Che piano?» domanda quando le porte dell’ascensore si
aprono.
«Ventiquattro, attico.»
All’interno dell’ascensore, Darren si volta verso la donna
che freme visibilmente di aspettativa. Si è dimostrata timida
per tutta la serata, ha abbassato gli occhi quando Darren
le ha fatto dei complimenti ed è arrossita nel ricambiarli,
ma ora il suo sguardo è mutato: agli occhi carichi di desiderio
si è aggiunto un fare quasi predatorio. Si sta mordendo
il labbro inferiore, ha impercettibilmente abbassato il capo,
per guardarlo da sotto le lunghe ciglia ricoperte di mascara e
ha un angolo delle labbra sollevato in un sorriso sghembo. È
per questo atteggiamento che Darren non si stupisce troppo
di trovarsela avvinghiata, con le braccia intorno al collo e la
bocca sulla sua, senza avere la possibilità di cingerle la vita
per cercare di bloccarla.
«Britt, fermati.»
La donna non sembra ascoltare le sue parole. «So cosa sei»
gli soffia sulla pelle del collo, facendolo rabbrividire.
«Cosa sono?» domanda, perdendo per un solo istante la sua
sicurezza.
Britt si stacca e sorride. «Mi va bene qualunque cifra.»
Le spalle di Darren si rilassano e stringe la presa sulla vita
della donna, mentre lei continua a stuzzicarlo. «Ma non qui»
ansima.
«Perché?» chiede lei con un piccolo broncio che non ha nulla di
innocente, anzi, è semplice malizia.
«Ci sono le telecamere» le dice, indicando l’obiettivo in un
angolo in alto.
«Sono solo di facciata, non funzionano davvero» spiega lei,
iniziando a baciargli il collo.
«Un albergo di questo livello senza telecamere nell’ascensore?»
chiede quasi indignato, come se fosse davvero un cliente
a cui importa della sicurezza del posto.
«Proprio perché è di un certo livello» risponde, indicando
l’ambiente circostante «consente di avere un po’ di privacy
anche qui» conclude Britt, ammiccando.
Darren nasconde un piccolo sorriso compiaciuto. «Sarò
all’antica, ma preferisco la comodità della camera da letto.»
La donna gli intrappola il labbro inferiore tra i denti, senza
fargli però veramente male. «Potrei provare a farti cambiare
idea» propone con le mani che scivolano sulla stoffa della camicia
per fermarsi all’altezza della cintura di Darren.
Le porte producono il classico dlong e si aprono, annunciando ai
due ospiti l’arrivo al piano desiderato. «La prossima
volta» dice Darren, prendendole una mano e intrecciandola
alle sue dita, per lasciarsi guidare verso la porta dell’attico.
«Sei così sicuro di te da sapere già che ci sarà una prossima volta?»
scherza Britt, strisciando la chiave elettronica per
aprire.
Darren non risponde, ma appena oltrepassano l’ingresso, conscio che
è quello che vuole, sbatte la bionda contro
il muro, schiacciandola con il suo peso, senza però farle del
male. «Ora sì che posso fare ciò che voglio» dice, mentre le
sue mani stanno già accarezzando le gambe toniche della
donna, scoprendole e sollevando la gonna rosso fuoco.
Sente il respiro di lei contro il viso: è caldo, sa leggermente
di alcol, ma è tremendamente piacevole. Con una presa decisa, le
afferra le gambe per avvolgerle intorno alla sua vita,
mentre continua a baciarle le labbra, per poi scendere giù,
verso il collo candido.
Diventa tutto confuso: i movimenti, le parole, i gesti.
In pochissimo tempo si ritrovano seminudi sul letto, le pelli a
contatto e gli arti aggrovigliati tra loro. Britt si sfrega sul bacino
di Darren, ma lui ribalta le posizioni, portandola sotto, facendole
poi schiudere le labbra in un moto di sorpresa e facendola gemere
appena. «Quando ti ho visto entrare nella hall, ho
pensato di aver bevuto troppo» confessa la donna, sorridendo.
«Perché?» chiede Darren, prendendo entrambe le mani
di lei e fermandole sopra la testa, ricevendo in cambio uno
sguardo lussurioso che va dal suo petto scoperto e si ferma
nei suoi occhi verdi.
Ore prima, quando aveva intercettato i suoi sguardi furtivi,
aveva avuto la certezza che lei lo trovasse attraente, ma adesso
ha intenzione di farla parlare: lo fa sentire compiaciuto e
desiderato. «Perché, prima d’ora, non avevo mai visto un ragazzo
così bello. Ho pensato che, pur di averti, sarei stata disposta
a qualunque cosa, anche a morire.»
Darren fa un piccolo sorriso, quasi un ghigno. «Ti accontento subito» dice.
Britt sorride, ma il suo sorriso lascia subito il posto a
un’espressione sorpresa quando Darren stringe con più forza i
suoi polsi e, liberando una mano, afferra il cuscino da sotto
la sua testa. Approfitta dell’attimo di perplessità per portarlo
sul volto muovendosi veloce, premendo quanto basta per non
far passare aria.
Britt, che in realtà all’anagrafe è Barbara Hailey, ereditiera
di un’antichissima quanto potente famiglia di narcotrafficanti,
comincia a dimenarsi sotto di lui, che la tiene ferma fino a
quando la donna smette di muoversi, ormai senza vita.
Darren si alza, senza spostare il cuscino e si dirige verso il
bagno per guardarsi allo specchio. Gioisce nel notare che la
donna non gli ha lasciato segni: odia portare addosso le impronte
delle sue vittime. Ricorda ancora quando, l’anno prima, ha dovuto
aspettare due settimane prima che un vistoso
quanto imbarazzante succhiotto sparisse dal collo.
Resta qualche secondo fermo, a guardarsi nello specchio:
non si sente in colpa, non può permetterselo, ma quella è ormai
una sua abitudine, quasi un rituale. Ha un lavoro da portare a
termine, ma sa di avere abbastanza tempo: ha studiato le abitudini
della donna a lungo da sapere che nessuno la
cercherà fino alle sette e ventotto del mattino dopo, quando
il padre la chiamerà per il buongiorno. Fissa lo sguardo nel
suo riflesso e resta così, immobile, a guardare i propri occhi
e ad ascoltare il suo respiro. Inspira ed espira con calma, per
ventiquattro volte, le conta mentalmente, prima di chiudere
le palpebre e voltarsi per tornare nella camera da letto.
È tutto un po’ in disordine: le scarpe della donna sono ai
piedi del letto, le ha lanciate lei poco prima; il suo bracciale è
rotolato fino alla porta del balcone, lo scansa quando la apre
per arieggiare la camera eliminando ogni odore.
Poi raccoglie giacca e gilet da una poltrona e si riveste con
calma. Infine prepara la scena per nascondere il suo lavoro e
facilitare quello della polizia.
Estrae i suoi inseparabili guanti di pelle nera da una tasca
interna della giacca e li indossa con attenzione, poi prende
anche l’astuccio di metallo. Quello che, all’apparenza, sembra
un semplice e anonimo portasigarette, ma che al suo interno
nasconde qualcosa che non può essere portato in giro con
tranquillità: una siringa piena di eroina purissima e un laccio
emostatico.
Si avvicina a Barbara, distesa inerme, e le prende un braccio.
Non sente la sua temperatura corporea, ma immagina
sia ancora calda e per questo indossa i guanti: vuole avere il
minor contatto possibile con le vittime dopo aver fatto il suo
lavoro. Prende il laccio emostatico, lo srotola e lo lega, poi,
appena sopra il gomito della donna. Afferra la siringa e, senza
molta premura, fa penetrare l’ago nella sua pelle e le inietta la
sostanza, facendo in modo che, dall’angolazione in cui è infilato,
sembri che l’abbia fatto da sola.
Quando la siringa si svuota, la lascia sul materasso, come
se fosse scivolata via dalla mano della donna, poi si avvicina al
suo viso per spostare il cuscino che ancora lo copre. Ha
una spiacevole morsa allo stomaco quando la vede, ma dura
solo pochi istanti: sta lavorando e in quel momento non può
dare spazio a nessuna emozione. Quando sta per avvicinarsi all’armadio
per cercare una nuova federa, Darren sobbalza
e poi si blocca, sentendo delle voci in lontananza: sembrano
due uomini, probabilmente ubriachi date le risate rumorose che
arrivano fin lì. Decide quindi di non preoccuparsene
e procede con il suo lavoro. Cambia con attenzione la federa
del cuscino e, prima di riporlo sotto la testa della donna, le
chiude gli occhi ancora spalancati, le alza con delicatezza la
testa e la adagia sul cotone soffice. Controlla ancora una volta
la stanza, guardandosi intorno, per avere la sicurezza di non
aver lasciato tracce della sua presenza. Richiude la portafinestra
del balcone, si avvicina alla porta, la apre cercando di non
fare rumore e se ne va.
Nonostante Barbara lo abbia assicurato che le telecamere
degli ascensori non funzionano – e lui sa che aveva ragione
perché ha studiato quel posto per tre settimane –, Darren
preferisce scendere dalle scale, evitando così di passare per
la sala principale e d’imbattersi in qualcuno che possa averlo
notato durante la serata. Quando è ormai lontano un centinaio di
metri dall’edificio, prende il cellulare e fa partire una
chiamata. «Qui BS. È tutto okay.»
«Hai avuto difficoltà?» gli chiede un uomo.
«Assolutamente nessuna.»
«Perfetto. Dopotutto le sue debolezze erano la droga e i bei
ragazzi. Dovrebbe essere contenta della sua fine.»
«Sempre un poeta.»
Una risata riecheggia nel ricevitore. «Come sempre hai fatto un
ottimo lavoro. Ora vai a riposare, te lo meriti. Ti aspetto
domani in ufficio.»
«Grazie» risponde prima di riattaccare.
Fortunatamente, quella volta il lavoro lo ha portato poco
lontano da casa, o meglio, dal piccolo alloggio che ha occupato
durante l’operazione. Così, mezz’ora dopo, Darren sta infilando
le chiavi nella serratura dell’appartamento. È lì da poco più
di tre mesi, uno dei periodi più lunghi da quando ha iniziato
le missioni: di solito, infatti, si ferma in hotel per qualche
settimana. Vorrebbe avere una casa fissa in cui tornare,
si considera infatti una persona piuttosto tradizionalista: darebbe
qualsiasi cosa pur di avere una casa nello stesso paese in
California dove vivono sua madre e le sue due sorelle, in quel
piccolo quartiere dove tutti si conoscono e si aiutano. Invece,
ora, è costretto a girare per il mondo. Non che gli dispiaccia
vedere sempre posti nuovi, ma non ama particolarmente il
suo lavoro: al momento, si trova ai confini con il Canada e c’è
fin troppo freddo per i suoi gusti rispetto al caldo clima californiano.
Darren entra in casa e accende le luci del salone, la stanza
più grande dell’appartamento: per fortuna, prima di uscire,
si è ricordato d’impostare il timer del riscaldamento, quindi
l’ambiente è già caldo. Si toglie le scarpe e la giacca, appoggiandola
sulla poltrona di fianco alla libreria praticamente
vuota, fatta eccezione per cinque libri che gli ha regalato sua
sorella l’ultima volta che si sono visti e che Darren ha portato
con sé, ma senza trovare il tempo per leggerli, lasciandoli così
in quell’angolo a prendere polvere.
Si siede sul divano e afferra il suo cellulare privato che aveva
lasciato lì e lo accende: tre chiamate e tre messaggi. Le prime due
sono di sua madre. Strano che si sia limitata solo a due
chiamate senza risposta, ma forse sarà andata a dormire presto, pensa.
La terza è del ragazzo che avrebbe dovuto riparargli il rubinetto del
lavello della cucina e che dovrà richiamare
per dirgli che non ha più bisogno di lui: la missione è finita e
spera di lasciare quel posto il prima possibile.
I messaggi, invece, sono tutti di sua sorella, la più grande,
Lauren.
Ore 19:34. Torni a casa per Natale? Ti prego, non posso sopportare
due bambini e mamma che sente la tua mancanza.
Ore 22:09. Immagino tu sia a lavoro. Dovrai spedire diecimila regali
per i miei figli, se non vieni.
Ore 23:32. Chiamami domani mattina.
Darren guarda l’ora e decide di avere il tempo per una doccia prima
di richiamare sua sorella: considerando il fuso
orario, dovrebbe svegliarsi tra una mezz’ora per preparare la
colazione ai suoi due bambini, Robbie e Greta, prima che suo
marito, Vincent, li accompagni a scuola.
Prima, però, si lascia andare alla malinconia e si alza per
prendere il primo libro della pila. Lo apre ed estrae una foto
scattata l’anno precedente che lo ritrae assieme a Lauren e
alla sua famiglia.
Lui e Lauren hanno solo cinque anni di differenza: Darren ne ha
compiuti trenta tre mesi prima, nella solitudine di
quell’appartamento. Lei quindi ne ha trentacinque e da sette è
sposata, mentre suo figlio maggiore, Robbie, ha sei anni.
Darren ricorda perfettamente il giorno della sua nascita: a
Lauren si erano rotte le acque in piena notte e la macchina di
Vincent aveva deciso di morire proprio quel pomeriggio. Sorride
ripensando al panico che lo aveva travolto nel sentire la
voce di sua sorella che lo pregava di andare a prenderla per
portarla in ospedale. Era uscito con il pigiama addosso: Lauren
ancora lo prendeva in giro per quello.
Greta invece era arrivata esattamente un anno dopo e Darren aveva
avuto la sua rivincita. Lui prendeva in giro sua sorella, invece,
per quell’assurda coincidenza: solo lei poteva
avere due bimbi nati nello stesso giorno. Secondo Darren era
un espediente per evitare di dimenticare i compleanni.
Sono due bambini vivaci e lui sa che lo adorano, anche se
non lo vedono quasi mai. Ci tiene sempre a precisare che gli
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vogliono bene non per i regali che porta loro ogni volta, ma
perché li tiene lontani dalle urla isteriche della madre. La prima
cosa che fa, quando torna dalle missioni, è andare a prenderli,
portarli al parco giochi e viziarli come solo uno zio può
fare. Ogni volta che riesce a far visita a sua sorella, Darren
non vorrebbe mai andare via: adora quel calore che c’è in casa
loro e che sa di famiglia e biscotti. Così come non vorrebbe
lasciare, quando ci torna, la casa in cui è cresciuto e dove
ancora vive sua madre, Rosemary, insieme ad Anne, sua sorella
di quindici anni.
È proprio a sua madre che pensa quando si versa del caffè
nero bollente, i capelli ancora bagnati e un asciugamano umido
sulle spalle. Infila due toast nel tostapane, per poi prendere
burro e marmellata dal frigo. Se lei lo vedesse, probabilmente
gli urlerebbe qualcosa come: «Darren, devi mangiare
qualcosa di caldo per colazione! E asciuga quei capelli!».
Il pensiero lo fa sorridere, mentre sorseggia il caffè non più
caldo, dato che lo ha preparato la sera prima, di corsa, mentre
nascondeva il necessario per la missione nella giacca.
Finisce di mangiare, mentre gli occhi si fanno pesanti e la
luce del sole comincia a entrare dall’ampia vetrata che illumina
l’ambiente. Poi mette nel lavello le cose da lavare e afferra
il cellulare facendo partire la prima telefonata. Anche se tutto
quello che vorrebbe fare è infilarsi sotto le coperte e dormire
per almeno dieci ore filate.
«Finalmente!» risponde dall’altro lato una voce talmente squillante
da fargli allontanare leggermente il dispositivo
dall’orecchio.
«Cavolo, Lauren, non urlare.»
«Oh, qui qualcuno ha fatto le ore piccole» insinua la donna,
mentre in sottofondo si sente il rumore di qualcosa che
sfrigola in padella. «Avevi compagnia?» chiede con la poca
discrezione che la caratterizza.
«Non dirmi che stai facendo il bacon, non dirmelo» quasi
piagnucola, ignorando volutamente la domanda e strofinandosi gli occhi.
Sente sua sorella, dall’altro lato del telefono, ridere di gusto.
«Certo che faccio il bacon! Non ti meriti che io menta per non
farti venire la voglia» dice. «Allora, Natale?» chiede poi.
Darren partirebbe anche in quel preciso istante: le sue valigie sono
sempre pronte, ma il suo capo lo vuole vedere e non
sa se avrà altre missioni né per quanto tempo lo terranno impegnato.
Perciò sussurra semplicemente: «Non lo so», e in risposta riceve solo
uno sbuffo che gli fa venire uno spiacevole
magone allo stomaco.
«Lo so che non c’ero nemmeno l’anno scorso, ma sai che è
proprio in questo periodo che il Canada mostra il suo aspetto
migliore» tenta, non convincendo nemmeno se stesso dato il
tono della voce che gli si incrina.
Darren odia mentire alle sue donne, in particolare a Lauren perché,
sin da piccoli, è la prima a scoprire le sue bugie.
Tuttavia, non ha assolutamente intenzione di confessare il
suo vero lavoro, sia per proteggerle sia perché ha paura di
cosa potrebbero pensare di lui. Perciò, quando gli chiedono di
cosa si occupi, lui risponde che fa il reporter per un famoso
magazine che tratta principalmente di “consigli per i viaggiatori”.
Grazie a questa copertura almeno può essere quasi sincero circa i suoi
spostamenti. Tra l’altro, il suo nome compare realmente sotto quelle
foto anche se non sono fatte da lui,
pur essendo un appassionato di fotografia. Ha sempre amato
tutte le forme d’arte, si era poi specializzato in letteratura,
ma le difficoltà economiche gli avevano impedito di avere la
carriera desiderata. I suoi studi lo avevano facilitato quando
aveva intrapreso quel lavoro: per qualche mese aveva infatti
detto di lavorare per un giornale provinciale, ma questo non
poteva giustificare i suoi lunghi, frequenti e costosi viaggi in
giro per il mondo. Inoltre, per i suoi diciannove anni, Lauren
gli aveva regalato un corso professionale per fotografo e aveva
scoperto che non se la cavava per niente male. Lei glielo
aveva pagato usando quasi un intero stipendio: «Non pensi
mai a te stesso e sei sempre preoccupato a rendere felici noi
e a farci vivere nel modo migliore» aveva detto. Darren aveva
accettato sorridendo, anche un po’ commosso per le parole
di sua sorella. Al termine del corso, era quindi stato semplice
convincere le sue tre donne che, durante l’esposizione finale,
un critico aveva notato i suoi scatti e lo aveva segnalato a una
nota rivista naturalistica. Da lì a fingere fama e successo, il
passo era stato facile e breve.
«Ho visto le tue ultime foto sul Kenya: come sempre sono
magnifiche. E i bambini hanno tantissime domande da farti.
Robbie vuole sapere se sei riuscito a contare quanti denti ha
un leone e se le righe delle zebre sono tutte uguali» dice
Lauren, interrompendo i suoi pensieri.
ZahurTa’Ziyah trafficava armi chimiche: Darren ci aveva
messo quasi due mesi prima di riuscire a individuare il suo
nascondiglio, avvicinarlo ed eliminarlo. E in tutto quel tempo
non era riuscito a vedere dal vivo né una zebra né, tantomeno,
un leone. Figurarsi contarne i denti. «Sono davvero felice che
ti siano piaciute. E sarò felice di rispondere alle domande dei
bambini» risponde, appuntandosi mentalmente di comprare
un libro sugli animali del Kenya per suo nipote e di fare una
ricerca sulla fauna del posto.
«Bene, ma questo non cambia il fatto che chiamerai la mamma»
ribatte Lauren «e le spiegherai che, probabilmente, non
ci sarai anche quest’anno» dice prima di mettere giù.
Darren si passa una mano sul viso, in un gesto esasperato.
Non vorrebbe deludere la sua famiglia, ma non può abbandonare
il lavoro. È proprio per la paura di ascoltare il tono triste
di sua madre che non la richiama subito. Invece si riveste ed
esce di casa per scoprire subito cosa ha da dirgli il suo capo:
riposerà quella sera.
Arriva presso l’enorme palazzo su cui campeggia una grande
insegna con una scritta in blu, “Must”: è il nome di una
marca di scarpe, totalmente fittizia e usata come copertura.
Entra e saluta con un cenno della testa il portiere, che lo fa
passare senza chiedere nulla e si dirige poi verso l’ascensore.
I pulsanti indicano fino al numero diciannove, ma Darren
estrae una chiave elettronica dal portafogli e la preme sul
Capitolo uno Kill
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numero due, poi sullo zero, per raggiungere il ventesimo piano,
l’ultimo e inaccessibile.
«Rimanere fermi, girarsi verso le porte scorrevoli» dice una
voce metallica e Darren resta quindi immobile, mentre un
fascio di luce rossa lo scansiona.
«Benvenuto, signor Lee. Il signor Burn la sta aspettando» la
voce questa volta è umana e femminile.
Darren sa che si tratta di Christina, il mercoledì c’è sempre
lei oltre le porte dell’ascensore. Capelli rossi legati ordinatamente,
tailleur nero, camicia bianca e un leggero sorriso a incorniciarle il viso.
Le sorride di rimando, poi si dirige verso la
grande porta in legno su cui sono intagliati due alberi di ciliegio.
La apre, senza bussare e avanza: trova un ambiente diverso rispetto a
quello visto la volta precedente. Non c’è più nulla
dell’arredamento barocco e sfarzoso, ma è tutto molto minimal.
«Questa volta è la Cina, signor Burn?» chiede sedendosi.
«Feng shui, ragazzo» risponde l’uomo sorridendo. «Farò realizzare
anche un giardino sul palazzo, prima o poi.»
Darren non ha idea di cosa rispondere, quindi si limita ad
annuire e a guardare l’uomo di fronte a sé. Non lo vede da
quando gli ha affidato quella missione, tre mesi prima. Da
quando ha iniziato a lavorare per lui, anni prima, non ha mai
notato qualche cambiamento nel suo aspetto: è sempre stato un
uomo distinto, dall’aria severa, nonostante un costante
sorriso sul volto. Darren ricorda di esserne rimasto quasi
turbato al loro primo incontro: gli sembra il sorriso di un uomo
che sa fin troppe cose di te e che ha il potere per spingerti a
fare qualsiasi cosa. Non che non sia veritiero, ma Darren preferisce
pensare che andrà via da quell’ambiente quando lo riterrà opportuno,
altrimenti non riuscirebbe a proseguire nel
suo lavoro e mantenere quella lucidità che ancora lo contraddistingue.
«Ottimo lavoro stanotte, l’hanno ritrovata appena un’ora
fa e il caso è stato archiviato come overdose» arriva subito al
sodo l’uomo. Poi allunga un assegno sulla scrivania: «Ecco il
tuo compenso».
«La ringrazio, signore. Posso andare o ha altro per me?» domanda
Darren, mentre piega il pezzo di carta e lo infila nella
tasca della giacca, senza neppure guardare la cifra.
Il signor Burn non risponde, ma si alza e si avvicina alla
libreria lasciando scorrere l’indice della mano destra su alcuni
fascicoli impilati ordinatamente. Ne estrae uno molto sottile
e glielo porge, facendogli segno con il capo, come per accordargli
il permesso di aprirlo. Darren obbedisce e legge le prime righe.
«Un hacker?» chiede, inarcando un sopracciglio.
«Non un semplice hacker» spiega l’uomo. «Un hacker che è
quasi riuscito a superare i nostri sistemi di sicurezza. Ce ne
siamo accorti giusto in tempo e l’abbiamo bloccato, ma lui ci
ha riprovato. Ieri è successo per la settima volta» conclude.
«Settima?»
«Settima, sì. I nostri informatici hanno provato in tutti i
modi a proibirgli di entrare nei nostri sistemi e, puntualmente,
lui riesce ad aggirare i codici di sicurezza e penetrare fino
al primo blocco. Di questo passo ci vorrà davvero poco prima
che riesca a ottenere ciò che vuole, anche se non sappiamo
chi sia di preciso, ma abbiamo delle ipotesi. Quindi non ci
resta che eliminarlo fisicamente.»
«E dovrò farlo io? Avete già qualche dato sulla sua posizione?»
Il signor Burn si risiede sulla sua grande poltrona in pelle
nera e si appoggia allo schienale, le mani incrociate sullo
stomaco e lo sguardo preoccupato. «No, ed è proprio questo
il problema. Non riusciamo a rintracciarlo, ma so che ci sai
fare con i sistemi informatici: sei un ottimo osservatore e hai
ottime intuizioni, soprattutto. Avrai comunque una squadra
di esperti, coordinata da Cameron, che asseconderà ogni tua
richiesta. Ci stai?»
Darren ci pensa un po’ prima di rispondere: giusto il tempo
di aprire di nuovo il fascicolo e dare una veloce occhiata alle
informazioni contenute oltre la prima pagina, che sono praticamente nulle.
Sul viso del signor Burn si distende un piccolo sorriso soddisfatto.
«Ne ero certo: sei il miglior agente reclutato negli
ultimi anni.»
«Dove sarà il mio appoggio questa volta?» domanda, non
abituato a quel tipo di complimenti, nonostante non sia la
prima volta che li riceve.
«Ho affittato un appartamento a tuo nome a San Francisco
e ho già fatto recapitare alcune cose» risponde l’uomo, estraendo
una busta gialla che, probabilmente, contiene le chiavi e
l’indirizzo dell’abitazione di cui sta parlando. «So che ci tieni
a passare il Natale con la tua famiglia e da lì ci puoi arrivare
in un’ora.»
Darren sorride, pensando che il suo capo non avrebbe potuto fargli
un regalo migliore, ma si trattiene perché non è
proprio abituato a esternare le sue emozioni. «La ringrazio,
signore.»
«Te lo meriti. Stai facendo un ottimo lavoro ed è giusto che
tu venga ricompensato» dice per poi proseguire seriamente.
«Le nostre identità sono a rischio così come le nostre famiglie.
Prendilo, Lee» conclude.
Darren annuisce, prima di prendere il fascicolo dell’hacker,
la busta e andarsene.
Sale in macchina e, prima di mettere in moto la vettura, ripone
fascicolo e busta nel cruscotto e fa partire una chiamata,
inserendo il vivavoce.
Una dolce voce femminile risuona nell’abitacolo, facendo
sentire Darren a casa. «Tesoro, come stai?»
«Ciao, mamma, sto bene. E tu?»
«Ho i soliti acciacchi, ma non mi lamento. Certo che, se fossi
sicura del ritorno di qualcuno, starei sicuramente meglio.»
Darren si ritrova a roteare gli occhi, non riuscendo a trattenere
uno sbuffo che però sa di risata. «Sono appena uscito
dall’ufficio del capo. Il tempo di raccogliere le mie cose e ho
già la nuova sistemazione per il prossimo incarico.»
«Oh, quindi niente riposo?» chiede la donna con la voce
chiaramente delusa.
Darren vorrebbe davvero tenerla ancora un po’ sulle spine,
ma proprio non ce la fa. «Mi fermerò per un po’ a
San Francisco» risponde, avviando il motore.
«Davvero? Quindi passerai il Natale con noi?»
«Sì, il capo ha detto che sto facendo un buon lavoro e me lo
merito.»
«Ha ragione, le tue ultime foto erano stupende.»
Darren arriccia il naso, come fa sempre quando è contrariato
da qualcosa: sua madre gli fa sempre notare quel gesto
inconsapevole, mentre Anne lo prende in giro dicendogli che
somiglia a un coniglietto. «Se tutto va bene, potremmo passare
del tempo assieme anche dopo le feste.»
«Conti di fermarti per molto?»
«Non lo so. Non ho ancora i dettagli del prossimo servizio.»
«Se ti serve una mano a sistemare il nuovo alloggio, chiama
pure.»
«Tranquilla, mamma, sai che non ho molto con me.»
«Ti fermerai mai?» chiede la donna con voce stanca, dopo
qualche secondo di silenzio.
A quella domanda a Darren si stringe un po’ lo stomaco:
fosse per lui si fermerebbe anche all’istante, ma non può, non
se vuole continuare ad aiutare la sua famiglia come ha fatto
negli ultimi dodici anni. «Per il momento no, sai che mi piace
quello che faccio» mente.
«Certo che lo so, ma hai trent’anni: dovresti cominciare a
pensare a creare una tua famiglia. I paesaggi restano dove
sono, ad aspettare il tuo ritorno, mentre il tempo no» dice la
donna.
«Mamma, ne abbiano già parlato. Quando conoscerò qualcuno per
cui ne varrà la pena, ci penserò.»
«Come fai a conoscere qualcuno, se non hai quasi nemmeno
il tempo di vedere noi?»
«Non c’è bisogno di fermare la propria vita per permettere
a qualcuno di farne parte. Spesso le persone inciampano in
noi e cominciano a starci vicino in maniera del tutto casuale
e inaspettata.»
«Da quando ho un figlio filosofo?» domanda, prendendolo
un po’ in giro per quel suo lato così romantico e sognatore.
Perché Darren, nonostante il lavoro che svolge, ha mantenuto
l’animo romantico tipico dell’artista che crede nel grande
amore in grado di sconvolgere l’intera vita di una persona.
Che poi lui sia convinto che non sia previsto il lieto fine nella
sua vita è solo un piccolo dettaglio, ma ama vedere intorno a
sé il lato favolistico delle cose. «Continua a prendermi in giro
e potrei decidere di fermarmi in Canada anche per Natale» ribatte,
fingendosi offeso.
«Certo, come se non sapessi quanto odi il freddo.»
«Esiste il riscaldamento anche qui, sai?»
«Ma non i miei biscotti.»
«Okay, okay, hai vinto!» si arrende, alzando le mani dal volante,
anche se sua madre non può vederlo.
«Ci vediamo presto. Ti voglio bene» ride la donna prima di
mettere giù.
«Anche io» sussurra Darren al telefono ormai muto.
Nel frattempo è arrivato al suo appartamento, parcheggia
nel garage sotterraneo e usa le scale per arrivare fino al suo
piano, inserisce la chiave nella serratura della porta ed entra.
Dopo essersi tolto le scarpe e aver guardato intorno per
controllare che sia tutto a posto – ormai è una deformazione
professionale – sospira e si dirige nella seconda camera, dove
si trovano le scatole da riempire. In genere tende a evitare
di togliere le sue cose dagli imballaggi, ma questa volta si è
fermato per molto tempo in Canada e, nella solitudine delle
fredde notti, ha sentito la necessità di rifugiarsi nel tepore dei
suoi ricordi.
Prende il primo contenitore, quello a cui è sentimentalmente più
legato nonché il più resistente, e si dirige verso la
camera da letto. Si siede sul letto, facendolo cigolare con il
suo peso e apre il cassetto del comodino: estrae una specie di
vecchio baule artigianale, grande poco più di una scatola per
le scarpe. È consumato, imperfetto ed evidentemente fatto
da mani inesperte, ma che avevano messo tutto il loro amore
per costruirlo. I colori, una volta vivaci, adesso ricordano solo
qualcosa che non c’è più. Darren ne accarezza dolcemente gli
intarsi prima di far scattare la serratura e aprirlo. Pensa siano
trascorsi pochi minuti ma, quando il suono del campanello distoglie
i suoi pensieri dai ricordi, guarda l’orologio e si
rende conto che è passata un’ora. Fuori è buio e dalle finestre
entrano solo le luci artificiali dei lampioni. Ha gli occhi lucidi
e deve riprendere per un attimo il contatto con la realtà prima
di richiudere il baule e avviarsi verso l’ingresso.
Sa già di chi si tratta: gli ha detto di non passare, che non
aveva bisogno di aiuto per il trasloco, ma lui fa sempre di testa sua.
Perciò, quando apre la porta, esordisce con un «Devo
insegnarti la differenza tra i sì e i no» che fa sorridere l’altro.
Poi si sposta per lasciarlo entrare.
Si tratta di Cameron Riggs, il suo primo compagno di missione, il suo
mentore e il suo unico amico. Darren ricorda la
scena del loro primo incontro come se un solo giorno sia passato dal
suo reclutamento: aveva appena staccato da un doppio turno al
ristorante in cui lavorava come cameriere ed era
seduto su una panchina con un caffè caldo in mano, mentre
tentava di studiare per un esame imminente approfittando
della pausa. Non era triste: quella fase l’aveva superata da un
po’, ma si sentiva quasi rassegnato, rassegnato alla vita. Ormai
aveva dato per certo che avrebbe dovuto accantonare i suoi
sogni o perlomeno lasciarli per un po’ in un cassetto chiuso
a chiave. Quella sera aveva anche poca voglia di studiare, più
volte si era ritrovato a osservare i passanti immaginandosi
quale fosse la loro vita.
Un attimo prima era passata alla sua destra una ragazza,
forse poco più giovane di lui. Darren spesso si perdeva nei
propri pensieri a immaginare storie di vita altrui, pur di
distrarsi dai problemi della sua di vita. Forse la ragazza stava
per incontrare un’amica per darle una bella notizia oppure
aveva un appuntamento con il suo ragazzo. Darren sorrideva
immaginando una scena romantica, quando un giovane uomo
distinto aveva interrotto il flusso di pensieri e si era seduto al
suo fianco osservandolo quasi con insistenza. Era alto, molto,
anche se, nonostante i vestiti lo facessero apparire più grande,
sembrava avere solo qualche anno più di lui. Aveva i capelli
biondo scuro e gli occhi, che sembravano grigi forse per la
luce, lo stavano guardando come se volessero leggergli nella
mente. Darren non era il tipo che si faceva intimorire facilmente,
così si era voltato verso di lui, inarcando un sopracciglio e aveva
chiesto: «Ha bisogno di qualcosa?».
«Io no, ma tu hai sicuramente bisogno di un aiuto economico
considerando il periodo che state passando» aveva risposto
l’uomo, continuando a fissarlo.
Darren si era immediatamente irrigidito e aveva chiuso il
libro di colpo. «Cosa ne sa lei dei miei problemi?» aveva
domandato, mettendosi sulla difensiva.
Non gli piaceva quando persone sconosciute parlavano della
sua famiglia come se la conoscessero.
«So che tuo padre ha abbandonato te, tua madre e le tue
sorelle portandosi via tutti i vostri risparmi» aveva iniziato
a elencare l’altro. «So che ti stai facendo in quattro per
portare del denaro a casa con un lavoro per il quale sei pagato una
miseria e, allo stesso tempo, cerchi di tenerti in pari con gli
studi e so anche che, di questo passo, non ce la farai mai. È
sufficiente?» aveva chiesto poi con una specie di ghigno.
Anche abbastanza inquietante.
E sì, per Darren era più che sufficiente per alzarsi e
scappare da lì il più in fretta possibile. «Devo andare» aveva detto
allontanandosi.
L’uomo, però, non sembrava intenzionato a lasciarlo andare,
così si era alzato e aveva cominciato a seguirlo. «Non vuoi
nemmeno sapere perché sono qui?» aveva domandato, camminando
al suo fianco con fare tranquillo e tenendo le mani
nelle tasche del lungo cappotto grigio scuro.
«No» aveva risposto Darren, lapidario.
L’uomo lo aveva afferrato per un braccio, perdendo la sua
compostezza e lo aveva trascinato dietro un vicolo, fuori dalla
strada principale. «Lavoro per il governo. Se deciderai di
ascoltarmi, questo è il mio numero» aveva detto, infilando un
semplice biglietto bianco, con una serie di numeri scritti con
inchiostro nero, nella tasca del suo giubbino. «Potrei davvero
risolvere i tuoi problemi» aveva concluso per poi infilare di
nuovo le mani in tasca e andarsene.
Quando la figura scura era sparita tra la folla, Darren aveva
tirato fuori dalla tasca il biglietto, rigirandoselo tra le mani.
Sul retro, erano stampati un nome e un cognome: Cameron
Riggs.
Darren era rimasto sconvolto da quell’incontro, ma non riusciva a
fare a meno di pensare che forse quell’uomo poteva
davvero risolvere i suoi problemi. Continuava a ripensare alle
sue parole, alle sue promesse e non riusciva a darsi pace. Da
un lato ne era spaventato: quell’uomo aveva dato prova di conoscerlo
bene, di sapere della sua situazione e la cosa non lo
tranquillizzava per niente. Ma, dall’altro lato, era tentato: si
sentiva come una falena attratta dalla luce. L’uomo aveva saputo
toccare tutti i suoi punti deboli e gli aveva messo un tarlo
nella testa che difficilmente sarebbe andato via. Se non avesse
chiamato, avrebbe mai saputo se le sue parole erano veritiere? Se
quell’uomo poteva davvero aiutare la sua famiglia,
chi era lui per negare a sua madre e alle sue sorelle la felicità
che tanto meritavano? Si era deciso a chiamarlo un giorno in
cui, rientrando a casa, aveva trovato la cucina illuminata solo
da alcune candele. Si era diretto di corsa nella stanza sbattendo
anche contro il portaombrelli dell’ingresso. «Non sono riuscita a
pagare la bolletta della luce in tempo» aveva spiegato
affranta sua madre, seduta su uno sgabello e appoggiata con
i gomiti al bancone, mentre si sorreggeva la testa e teneva lo
sguardo basso su quella che probabilmente era la bolletta da
pagare.
Darren aveva tirato fuori il portafogli dai jeans e aveva
estratto le ultime banconote che aveva, porgendole alla donna
senza parlare. Non ce n’era bisogno, ma nel compiere quel gesto
gli era capitato tra le dita il biglietto da visita di Cameron
Riggs. Aveva abbracciato Rosemary per rassicurarla, mentre
lei ancora singhiozzava promettendogli che prima o poi gli
avrebbe ridato tutti i soldi che le aveva prestato. Ribadendo
che lui doveva pensare al suo futuro e che a mandare avanti
la famiglia ci avrebbe pensato lei. Darren si era poi chiuso in
camera sua, sperando di non fare la scelta sbagliata. La chiamata
era durata una manciata di secondi e si era conclusa con
un appuntamento per il giorno seguente.
Quel pomeriggio, ad attenderlo seduto su una panchina del
parco cittadino, c’erano l’uomo che lo aveva fermato e il signor
Burn che, in seguito all’addestramento, sarebbe diventato il suo capo e referente.
Il signor Burn gli aveva spiegato che facevano parte di un
braccio fantasma dell’FBI, che si occupava di eliminare le minacce
per lo Stato e non solo. Gli aveva poi detto che, ovviamente, i
dettagli li avrebbe ricevuti solo se avesse accettato.
Inoltre, avrebbe dovuto pensarci bene perché, nel caso di una
risposta positiva, avrebbe dovuto mentire alla sua famiglia e
a chiunque altro. Avrebbe viaggiato per il mondo senza giorni
liberi, senza ampi preavvisi e, soprattutto, senza nessuno al
seguito.
Per Darren era stata la decisione più difficile della sua vita.
Era sempre stato un ragazzo riflessivo, che calcolava i pro e
i contro di ogni situazione e odiava fare cose avventate, non
programmate e che, soprattutto, avevano un alto fattore di rischio.
Aveva accettato solo per la sua famiglia. Lo aveva fatto una
settimana dopo: non dormiva da tre notti, divorato da dubbi
e domande. Sapeva, infatti, di non poter parlare con nessuno
della sua famiglia per evitare un loro coinvolgimento, ma il
restare in silenzio con le sue sorelle lo aveva reso insofferente.
Un giorno, tornando a casa dopo le lezioni pomeridiane,
aveva trovato il bidone dell’immondizia pieno, cosa alquanto
strana visto che erano passati a svuotarlo in mattinata. Non
aveva resistito alla curiosità e aveva aperto il sacco trovandoci
dentro tutte le cose di suo padre, quelle che non aveva
portato con sé quando li aveva lasciati. In cima alla pila, quasi
nuovi, i guanti in pelle che lui e le sue sorelle gli avevano
regalato il Natale prima. Fu in quel preciso istante che si rese
conto, forse per la prima volta, che suo padre non sarebbe più
tornato e che l’uomo della famiglia adesso era lui. Senza nemmeno
rifletterci, aveva preso i guanti e li aveva infilati nello
zaino. In futuro avrebbe ricordato quel gesto come un monito:
quello di riportare il sorriso sui volti delle sue tre donne. Erano
loro, infatti, il motivo per cui quella sera stessa aveva chiamato
Cameron per comunicargli che accettava la sua offerta.
Da quel momento avrebbe portato quei guanti, ricordo di uno
degli ultimi momenti felici della sua famiglia, sempre con sé.
E ora, dopo dodici anni, nonostante le difficoltà e l’insofferenza
che spesso prova nei confronti del suo lavoro, può affermare di non
essersene mai pentito: farebbe di tutto per aiutare la sua famiglia.
E non si è mai pentito di essere diventato
amico di Cam, che al momento gli sta sventolando la mano
davanti alla faccia.
«Ehi, bell’addormentato! A che pensi?» chiede, avanzando
fino a sedersi sul divano.
Solo allora Darren nota le sei birre che ha appoggiato sul
pavimento. «Al fatto che mi sono pentito di averti conosciuto»
risponde sarcastico. «Non ti avevo detto che ce la facevo
da solo?» chiede poi.
«Lo so, lo so. È solo che ti deprimi sempre quando ti devi
trasferire e ho portato rinforzi» risponde, indicando le bottiglie.
Darren va in cucina e, quando ritorna, lancia al suo collega
un apribottiglie. «Allora renditi utile» gli dice sorridendo.

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Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Libro strutturato molto bene con una trama intrigante e coinvolgente, adatto ad un pubblico giovane. Giovani come le sue autrici, le quali hanno messo passione e dedizione in ogni singola riga della storia. Consigliato per chi vuole abbandonarsi in una lettura fresca e poco impegnativa, ma che comunque abbia la capacità di trasmettere sentimenti forti e colpi di scena interessanti.

  2. (proprietario verificato)

    Finito di leggere oggi e sono davvero contento di avere contribuito alla realizzazione di questo fantastico libro … da quando ho letto parte dell’anteprima, ne ero rimasto soddisfatto e fino alla fine ho sperato nella sua pubblicazione. Il libro ha una storia molto coinvolgente che ti spinge nella lettura non deludendoti mai. i personaggi accanto al protagonista Darren rendono la storia piena di emozioni dall’inizio alla fine.
    Veramente bello complimenti ad Alessandra e Anna e spero di avere la possibilità di leggere in futuro un altro capolavoro come questo.

  3. (proprietario verificato)

    Ti tiene incollato dall’inizio alla fine. Capitolo dopo capitolo coinvolge sempre più, emozionante, complimenti. Assolutamente consigliato!

  4. (proprietario verificato)

    Una storia avvincente e tutt’altro che scontata che coinvolge il lettore fino a renderlo partecipe dell’incalzare degli eventi.
    Assolutamente da leggere!

  5. (proprietario verificato)

    Non potevo esimermi dal lasciare una recensione su questo libro!
    E’ una storia a dir poco travolgente, che ti cattura e stuzzica l’immaginazione, e ti sorprende capitolo dopo capitolo! Il protagonista, Darren, decide di vivere la sua vita in funzione della felicità e serenità della sua famiglia. Un susseguirsi di emozioni, condito dalla costante ricerca del chi e del perchè.
    Mi fermo qui per evitare di spoilerare.
    5 stelle!

  6. (proprietario verificato)

    Un ottimo esordio per queste due autrici.
    Questo libro sa catturarti dall’inizio alla fine e non ti permette di sospendere la lettura fino alla sua degna conclusione.
    Una menzione speciale va naturalmente, al protagonosta principale, Darren, che in definitiva si descrive pagina dopo pagina in un crescendo di emozioni e rivelazioni.
    I colpi di scena fanno da contrappunto ad una storia in costante evoluzione, ricca di sentimento ed energia trascinante.
    Una lettura che non delude di certo.

  7. (proprietario verificato)

    Si legge con interesse e soprattutto con una curiosità in costante crescendo, questa particolare storia, scritta con stile fresco, brillante. Le autrici sanno evocare emozioni nei lettori e in questo romanzo hanno fatto un ottimo lavoro portando il lettore dalla preoccupazione alla felicità. 
    Il romanzo è avvincente, i personaggi sono credibili ed il ritmo e la tensione sono costanti per tutto il libro.
    La trama, intricata e fluida, tiene viva l’attenzione dalla prima pagina del primo capitolo fino all’ultima. E alla fine il lettore ne vorrebbe altre.

  8. (proprietario verificato)

    Se cercate un libro avvincente, questo fa al caso vostro. Coinvolge dall’inizio fino all’epilogo e lascia con la voglia di sapere fino all’ultima parola. I colpi di scena aiutano, via via, ad entrare nella storia e quando si arriva all’ultimo colpo di scena, quello decisivo, si è talmente dentro da sentirsi toccati da esso. Una scoperta nuova ad ogni capitolo, assolutamente piacevole.

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Alessandra D'Errico e Anna Pampuri
ALESSANDRA D’ERRICO, classe ’92, vive nella provincia di Napoli fin dalla
nascita. Da sempre innamorata delle parole, si è laureata in Culture digitali
e della comunicazione nel 2014 e da due anni lavora come social media
manager.
ANNA PAMPURI è nata in provincia di Mantova nel 1987. Diplomata all’ITC
di Asola, ha interrotto gli studi universitari per l’arrivo della sua prima e
unica figlia. Ora vive in provincia di Cremona.
Ha già pubblicato, insieme ad Alessandra D’Errico, un racconto breve, Sogno blu-arancio, vincitore del concorso Racconti Campani del 2017.
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