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La legge dell’equilibrio

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La Confederazione è un insieme di piccoli pianeti governati da un autorevole potere centrale tramite la Legge dell’Equilibrio, secondo cui è possibile lasciare il proprio pianeta solo un giorno ogni cinque anni.
Guido e Anna si conoscono per la prima volta appena nati, sul pianeta-ospedale della Confederazione, quando un’ostetrica distratta fa cozzare le loro testoline l’una contro l’altra. Da quel momento i loro destini saranno intrecciati, per quanto abitino su due pianeti diversi.
Cosa succede se ci si innamora di qualcuno che abita su un altro pianeta?
Com’è nata la Legge dell’Equilibrio e, soprattutto, è possibile infrangerla senza venire uccisi?

Guido e Anna si incontrarono per la prima volta il 29 settembre 3890. Guido era nato da qualche ora e aveva ancora gli occhi pieni di grosse lacrime quando venne al mondo Anna, che, sporca di sangue, fu messa in braccio a sua madre, Beatriz Moretti.

«Solo pochi secondi, però» le disse il medico.
Nell’espressione della donna trapelò un certo sollievo.
Con un cenno del capo, il dottor Wu ordinò alla neoassunta infermiera, la signorina Blisset, di prendere quello scricciolo con qualche capello rosso sul capo e dargli una pulita veloce. Al loro esordio, le mani della signorina Blisset tremarono nell’esecuzione del comando, ma fecero il loro dovere.

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La madre di Anna, una volta libera dall’ingombro, si fece portar via dalla sala parto. Giunta, poi, nella sua stanza nell’ala ovest, quella riservata agli abitanti di Brahe, si fece passare il computer portatile e, stremata, ricominciò a lavorare da dove si era interrotta la sera prima. Quando le venne consigliato di riposare, andò su tutte le furie e chiese di essere lasciata sola.
Anna fu messa nell’incubatrice, non prima, però, di dare una testata a Guido. La signorina Blisset, infatti, tutta concentrata nel tentativo di non farsi scivolare dalle braccia la neonata, non si era accorta della presenza della collega con in braccio il bimbo, e le era finita addosso. Guido e Anna, entrambi affamati e assonnati, si erano scontrati. La collisione tra i loro crani, per quanto violenta, aveva dato vita a un rumore sordo, appena percettibile. I due neonati erano scoppiati a piangere come matti. La signorina Blisset aveva grosse guance rubiconde e lunghi capelli scuri che le finivano in bocca e le ostacolavano la vista. Prima di iniziare il turno, aveva cercato nella borsa un elastico, un fermaglio o anche una matita in grado di legarle i capelli, ma non c’era stato niente da fare: non aveva trovato nulla. La tradizionale cuffia non aveva la forza di tenere la sua folta chioma, così vedeva poco e male, come un barcaiolo di Samo sotto una pioggia torrenziale.
I due neonati, terrorizzati dall’urto, erano scoppiati a piangere. Urlavano così forte che sembrava si stessero strozzando.
A osservare la scena da oltre la vetrata c’erano i rispettivi padri, sconvolti e felici. Erano diventati genitori per la prima volta. Antonio, il padre di Guido, e Ivan, il padre di Anna, decisero di preparare un esposto per far licenziare la neoassunta infermiera che – possiamo anticiparlo già da ora, dato che il suo coinvolgimento nella storia finisce qui – si sarebbe iscritta alla facoltà di Legge e sarebbe diventata una facoltosa avvocatessa. Alcune voci, addirittura, sostengono che la signorina Blisset sia in procinto di diventare il primo ministro della Confederazione.
Come spesso succede in situazioni affini, i genitori di Anna e Guido, uniti dal comune nemico, diventarono amici e si dissero che si
sarebbero rivisti. Non si piacevano, e in qualsiasi altra occasione avrebbero fatto in modo di evitarsi. Come biasimarli? Erano così diversi, venivano da realtà così lontane! Ivan Moretti era un uomo distinto e controllato, basso e tarchiato, abituato a muoversi in ascensore e a guardare il mondo dal suo ufficio all’ottantaduesimo piano.
Da parte sua, Antonio Guasto era una persona semplice, un uomo alto e magro, abituato a macinare migliaia di kropov per arrivare in cima alle sue montagne e ad ascoltare con attenzione le esigenze dei suoi clienti alla bottega di Rue de la Ville. Le grandi orecchie a sventola gli venivano assai comode in quei casi…
Ivan e Antonio trascorsero insieme alcuni giorni su Pitagora, il satellite di Ipparco e sede dell’unico ospedale della Confederazione, in attesa che le rispettive mogli si riprendessero dal trauma del parto e che i bambini, entrambi nati prematuramente, imparassero a cavarsela da soli fuori dalla botte di vetro delle incubatrici, in grado di riprodurre condizioni molto simili a quelle della vita intrauterina.
Quando i due piccoli raggiunsero un peso corporeo adeguato, furono dimessi. I genitori si diedero una veloce stretta di mano e ripartirono, ansiosi di ritornare ai rispettivi pianeti di residenza.

1. Dodici ore

Come tutti gli abitanti del suo pianeta, Guido trascorse la sua adolescenza su Hubble, dove avevano passato la loro vita i suoi genitori e i genitori dei suoi genitori. A guidare le scelte grandi e piccole della famiglia Guasto, come di tutti gli abitanti di Hubble e dell’intera Confederazione, era una certa tendenza alla reiterazione, una sorta di affezione all’abitudine, un sentimento talmente profondo da far venir loro in odio qualsivoglia cambiamento, spostamento o trasferimento. D’altronde, la famiglia di Antonio Guasto, il padre di Guido, gestiva da parecchie generazioni una bottega di scarpe con annessa calzoleria, e a nessuno di loro sarebbe mai venuto in mente di cambiare attività.
Il locale, all’inizio di Rue de la Ville, non era grande, ma la fitta disposizione di alti scaffali gli permetteva di contenere una vasta gamma di prodotti.
Nella bottega della famiglia Guasto il tempo collassava. Sempre uguale a se stessa, la bottega non aveva né passato né futuro, ma era immersa in un eterno presente senza contorni né sfumature. Sulla parete dietro la cassa erano appesi i ritratti di tutti gli antenati di Antonio. Con orgoglio, ai bambini che venivano a riprendere le scarpe dei padri, riverniciate a nuovo, il calzolaio diceva che un giorno ci sarebbe stato anche il suo faccione su quella parete, orecchie a sventola comprese.
Stava aperta tutto il giorno, la bottega, dalla mattina alla sera inoltrata. Era così da sempre. C’erano pomeriggi interi in cui non passava nessuno, neanche a chiedere informazioni. Appeso a un angolo stava un grosso televisore a schermo piatto – unico oggetto dell’arredamento in costante e periodica mutazione – che, senza sosta, trasmetteva sceneggiati, vecchi e nuovi; storie di fidanzamenti, di sogni realizzati, di rivincite; storie di amicizia e di compassione; storie che mostravano che la felicità era a portata di mano e che la gioia era costituita da piccoli gesti.
Un’idea era universalmente condivisa e accolta da tutti su Hubble: per vedersi realizzati non bisognava andare troppo lontano, tanto meno su un altro pianeta.
Ed è proprio per questa ragione che Angela e Antonio andarono nel panico quando Guido, un pomeriggio di tarda estate, vedendo Brahe e i suoi altissimi grattacieli sopra le loro teste e a poche centinaia di kropov di distanza, chiese quale pianeta fosse.
«Si tratta di Brahe» gli rispose sua madre. «È uno dei dieci pianeti che compongono la nostra Confederazione.»
«Ci andiamo, mamma?»
Guido aveva cinque anni. Era estate ed erano in vacanza, stavano passeggiando tutti insieme in riva al lago. La mamma e il papà rimasero atterriti. «Perché vuoi andare lì, amore mio?» gli chiese Angela, cominciando a sentire caldo.
Guido non aveva alcuna intenzione di far entrare nei suoi ragionamenti di bambino spiegazioni e argomentazioni, quindi si limitò a ribadire la richiesta. «Ci andiamo, mamma?»
Angela parlò col marito. Era preoccupata. Non si sentiva in grado di gestire la situazione. Quel figlio, che aveva voluto per anni e che si era deciso ad arrivare proprio quando avevano smesso di sperarci, la stava mettendo in grande difficoltà.
«Ma non è proprio su Brahe che abitano i genitori di Anna?» le chiese Antonio.
«Sì, è vero!»
Fu una scelta dettata più dalla pigrizia che da altre ragioni, quella di andare a trovare la famiglia di Anna su Brahe. Accontentare Guido era molto più facile e meno impegnativo che stargli a spiegare che si doveva dare una calmata, che non poteva pensare di poter partire e andare come e quando voleva. La Legge dell’Equilibrio consentiva a ogni abitante maggiorenne della Confederazione di lasciare il proprio pianeta soltanto un giorno ogni cinque anni. I minorenni potevano partire soltanto se accompagnati dai genitori o da chi ne faceva le veci. In seguito alla prescrizione, il desiderio di viaggiare si era spento velocemente in tutto il Sistema.
Angela e Antonio pensarono che fosse opportuno consumare così quel giorno a loro disposizione. D’altra parte, se non fosse stato per Guido, probabilmente non l’avrebbero mai sfruttato.
Tornarono dalle vacanze un giorno prima del previsto. Scesi dalla navetta, Antonio disse a sua moglie di avviarsi verso casa con Guido perché lui aveva una commissione da sbrigare. Prese la via che dalla stazione portava in centro. Era un’ampia strada piena di negozi di ogni genere. Ogni tanto, in quei lunghi pomeriggi solitari nella bottega, gli era venuto il desiderio di trasferire lì la sua attività. Si immaginava il via vai di persone che, affascinate dai prodotti in vetrina, si sarebbero affacciate dentro, ansiose di soddisfare la loro curiosità. Avrebbe dovuto prendere un garzone per poter star dietro ai clienti, in attesa che Guido fosse abbastanza grande per aiutarlo. In ogni caso, il mestiere avrebbe dovuto impararlo, prima o poi. La bottega, un giorno, sarebbe stata sua.
Ma quando Antonio si accorgeva che stava fantasticando, quando si rendeva conto del sopraggiungere di uno di quei sempre più frequenti momenti di debolezza, reprimeva il desiderio e lo scacciava – se necessario, anche con un vero e proprio gesto della mano.
In fondo alla via della stazione, si trovava la sua farmacia di fiducia.
«Buongiorno, Marco» disse Antonio, entrando.
«Oh, Antonio» rispose il farmacista, emergendo da sotto il bancone. «Che ci fai qui? Il vaccino non l’hai già fatto quest’anno?»
«Sì, sì, l’ho fatto il mese scorso. No, sono qui per un’altra cosa.»
«Oh, pensavo che avresti retto ancora un po’, e invece… Be’, non ti preoccupare, ognuno ha i suoi tempi. Però, per iniziare, partirei da quelle a basso dosaggio.» E si sporse verso uno scaffale nascosto dietro la tenda. «Queste dovrebbero andare.»
«Ma cosa hai capito?! Ho bisogno di un tranquillante. Quel testone di mio figlio ha deciso che vuole andare su Brahe e io e mia moglie lo accompagneremo.»
«Un tranquillante? Addirittura? Da quant’è che non prendi un aerobus?»
«Cinque anni, Marco. E l’ho preso solo due volte. Me la sto facendo sotto dalla paura.»
Salirono sulla prima navicella disponibile. Guido continuava a parlare, come se dovesse riempire quel silenzio che i suoi genitori non accennavano a rompere. Antonio sudava, stringendo la mano grassa di sua moglie.
«Papà, papà, papà!» lo chiamò Guido, tirandogli la maglietta. «Posso andare nella cabina di comando?»
«Ma quale cabina di comando! Vedi di startene zitto dieci minuti!»
Guido ripeté la richiesta e si beccò un bel ceffone sul volto.
Suo padre tremava e l’eccitazione di Guido lo rendeva ancora più nervoso.
Allacciarono le cinture e misero Guido sul lato finestrino.
Angela era in mezzo, tra suo marito e suo figlio. Il suo grosso sedere sporgeva dallo spazio che le era stato assegnato.
Antonio tirò fuori una piccola fiala di plastica e ne fece uscire una minuscola pillola gialla, che si spedì in gola. Mentre Guido saltava, cercando di slacciarsi la cintura di sicurezza, Antonio si addormentò.
Angela passò il resto del viaggio a tentare di far stare calmo il figlio.
In men che non si dica si ritrovarono su Brahe.
Guido era sopraffatto dalla gioia. Alzò la testa e vide una serie di pianeti. Tra questi individuò anche il loro, quello verde – come gli alberi che lo popolavano – con una chiazza blu scuro, l’unico lago presente. «È bello il nostro pianeta visto da qui» disse a sua madre.
«Eccome se lo è» gli rispose lei, abbracciandolo.
L’aria su Brahe era un po’ più rarefatta e la forza di gravità leggermente meno forte che su Hubble. Così respiravano tutti meno agevolmente e camminavano con più calma. Persino Guido pareva più tranquillo di prima.
In stazione chiesero all’ufficio residenti dove si trovasse la casa della famiglia Moretti e vi si recarono. Uscirono dalla Business Zone, fatta di quegli immensi grattacieli che spezzavano il cielo in strisce di diverse forme e colori, finché non si trovarono nei quartieri residenziali, dove gli edifici erano meno imponenti, per quanto altissimi. Ogni grattacielo poteva ospitare migliaia di famiglie. Ai piani più alti si trovavano gli appartamenti più prestigiosi. Anna abitava nel quartiere dell’Edera, al decimo piano di un palazzo nella periferia della City of Glass, dove gli edifici erano ricoperti quasi interamente da rigogliose piante rampicanti. Angela, Antonio e Guido erano persone di montagna, poco abituate alle linee dure degli edifici, alla velocità degli spostamenti e a quegli oggetti che parevano venire dal futuro: androidi che, a mo’ di facchini, portavano borse e fogli rincorrendo i rispettivi padroni, biciclette a vela che solcavano le strade volando a tre o quattro metri da terra e misteriosi caschi indossati da tanti passanti. D’altra parte, la tecnologia su Hubble era poco sviluppata, eccezion fatta per gli schermi – in continuo aggiornamento. Sul loro pianeta, l’unico modo per capire se fossero passati degli anni era guardare i volti delle persone. Non c’era da stupirsi: tra i pianeti della Confederazione non esistevano né comunicazione né commercio. Ogni pianeta, da quando era entrata in vigore la Legge dell’Equilibrio, era un mondo chiuso, un’isola nell’arcipelago della Confederazione.
I coniugi Moretti si stupirono parecchio nel trovare Guido e i suoi, dopo tutto quel tempo, sul ciglio della loro porta. Era domenica ed erano tutti in sala a guardare un vecchio sceneggiato televisivo. Ci misero un po’ a capire chi avevano davanti, quasi avessero dimenticato la fisionomia dei loro volti e quando le loro strade si fossero incrociate. Ivan, il papà di Anna, provò un certo disappunto nel mettere lo sceneggiato in pausa. Guido lo notò ma decise che a quel pensiero sarebbe tornato più tardi, perché in quel momento gli si parò davanti la bambina più bella che avesse mai visto. Aveva i capelli rossi e un mare di lentiggini sul volto tondo. Indossava una vecchia salopette di jeans, scucita e sbiadita. Anche le guance erano rosse, come quelle di un clown.
«Ciao, io sono Anna.»
«Ciao, io sono Guido.»
«Ragazzi,» intervenne il padre di Guido «non fate i timidi, vi conoscete da quando siete nati. Non ricordate?» E scoppiò a ridere in maniera sguaiata, tirando una manata (tutt’altro che gradita) sulla schiena del padre di Anna. Antonio stava tentando di ritrovare una sorta di complicità con Ivan; una complicità che, forse, non era mai esistita.
«Che brutto nome che hai» disse Anna a Guido.
«Il tuo invece è molto bello.»
«Grazie, lo so. L’ha scelto la mia mamma, perché mio padre avrebbe voluto un figlio maschio. Mi dice sempre che lo avrebbe chiamato Max.»
Guido pareva a suo agio. Tirò la madre per la manica, facendola chinare, e, all’orecchio, le disse: «Come mai Anna ha gli occhi così distanti dai capelli? Ha la fronte altissima». Le parlò nell’orecchio ma senza abbassare la voce, o non abbassandola quanto avrebbe voluto.
«Amore mio, semplicemente non ha le proporzioni perfette che tu hai ereditato da me e tuo padre. Tante persone hanno la fronte così alta. Certo, magari non così tanto, però è una cosa piuttosto diffusa. Non ti devi preoccupare.»
«Be’, però non è una bella fronte, anche se ce l’hanno in tanti…»
«Su questo sono d’accordo con te, amore mio.»
Anna, che aveva ascoltato ogni parola di questo sconclusionato dialogo, era troppo imbarazzata per offendersi.
Si stavano per sedere sul divano – la madre di Anna aveva obbligato il marito ad alzarsi e a spegnere lo schermo –, quando la madre di Guido diventò paonazza. Il viso le si stava gonfiando, più di quanto già non lo fosse normalmente. Angela svenne, ma il marito riuscì ad afferrarla prima che toccasse il pavimento.
Il papà di Anna disse loro che era tutto normale, considerata la stazza della madre di Guido e la differente forza di gravità tra Brahe e Hubble.
«State tranquilli e fate i bravi» dissero i genitori ai bambini. «Andiamo dalla guardia medica. Torniamo subito.»
Le ore passavano e i genitori non tornavano.
La sala d’attesa della guardia medica era affollata, quindi i paramedici consigliarono ai quattro coniugi di andare all’ospedale. Così avevano preso il primo aereobus disponibile per Pitagora ed erano partiti, benché il padre di Anna non ne avesse nessuna voglia. Angela aveva pregato Beatriz di mandare qualcuno a casa a dare un’occhiata ai due bambini, che erano rimasti soli in quell’appartamento che Guido non conosceva. Era intervenuto Ivan, dicendo che non c’era motivo di preoccuparsi. «Cosa ci sarebbe di cui aver paura?» le aveva chiesto. Ad Angela quell’uomo non piaceva affatto.
Di tutto questo, Guido e Anna erano all’oscuro. Erano stati lasciati soli di punto e in bianco.
Anna accese il grande schermo e fece partire una puntata di Jimmy il papero. Passarono davanti alla televisione parecchie ore, rapiti da quelle immagini in movimento. Ogni tanto, quando riuscivano a staccare gli occhi dallo schermo, si scrutavano, cercando di capire a cosa l’altro o l’altra stesse pensando. Stavano tentando di capire se potevano fidarsi l’uno dell’altra. Impiegarono non poco tempo per giungere a una decisione definitiva. Fu Anna a rompere il ghiaccio. «Ti va di vedere camera mia?» chiese a Guido.
Lui, che era ben lontano dal sapere cosa fosse la malizia, si disse contento. Voleva vedere i luoghi di Anna. Per quanto fosse giovane, cominciava a capire che dai luoghi e dagli spazi si può scoprire molto delle persone che li abitano. Qualche anno dopo, il professor Gerace, docente di letteratura al liceo, gli avrebbe spiegato che tra luoghi e persone avviene una reciproca influenza: gli spazi forgiano le persone e le persone forgiano gli spazi a loro somiglianza.
Salirono una lunga scala a chiocciola. Anna adeguò il passo al moto rallentato dell’amico. Quando finalmente giunsero in cima alle scale e infilarono la testa nella stanza della bambina, quello che Guido vide lo lasciò senza parole. Decine di sfere erano appese al soffitto, fotografie di luoghi che non aveva mai visto riempivano le pareti.
«Questo è il tuo pianeta?» gli chiese Anna, indicando una palla verde sopra la sua testa.
«Credo proprio di sì.»
«Dev’essere bellissimo. Ci sono montagne altissime, vero?»
«Sì, così alte che non riesci neanche a vederne la cima dalla valle.»
«Mi piacerebbe visitarlo, prima o poi.»
Guido le sorrise. Anna cominciava a piacergli parecchio.
«Sai, uno dei miei giochi preferiti è quello dell’infante viaggiatore. Lo conosci?»
Guido non lo conosceva.
«Siediti qui vicino a me e stringimi la mano.»
Guido obbedì, completamente assuefatto da quella compagnia.
«Allora, funziona così: guardati attorno, osserva il nostro Sistema, scegli uno dei pianeti e me lo sussurri all’orecchio. Poi chiudi gli occhi e mi fai strada. Io ti seguo.»
Guido scelse il pianeta rosso, di cui ancora non poteva conoscere il nome. Si avvicinò ad Anna e le sussurrò all’orecchio la sua scelta. Poi sentì lungo la schiena un brivido sconosciuto, un fermento che non aveva mai provato. Stavano per partire entrambi, quando sentirono dei rumori oltre la porta: c’era qualcuno che stava salendo le scale. I loro passi erano pesanti e veloci. Erano passi di persone di fretta, e dovevano indossare degli anfibi. Arrivate in cima, sfondarono la porta, nonostante non fosse chiusa a chiave.
«Signorino Guasto» disse l’uomo che capirono subito essere un soldato della Confederazione. «Dobbiamo andare.»
«Chi siete voi? Perché dobbiamo andare?»
«Le basti sapere che la Legge dell’Equilibrio non ammette eccezioni. Andiamo.»
«No, io voglio restare qui» rispose Guido, alzandosi in piedi e guardando il soldato negli occhi.
La milizia si prese Guido, costringendolo a interrompere il gioco sul più bello. Lui provò a opporsi, tentando di mordere quelle braccia che parevano di acciaio, ma ogni sforzo risultò inutile. Ancora non lo sapeva, ma il tempo che aveva a disposizione per lasciare il pianeta era terminato e, non essendosi presentato di sua spontanea volontà alla stazione, le forze dell’ordine erano venute a prenderlo.
La Legge dell’Equilibrio era ferrea e non ammetteva trasgressioni. Era talmente tanto tempo che nessuno osava infrangerla, che quasi si erano dimenticate le relative sanzioni. Uno dei due soldati prese Guido per il colletto della camicia e lo trascinò fuori dalla camera di Anna, giù lungo le scale e infine fuori, in strada. Anna guardò quel bambino – che aveva appena conosciuto ma che già cominciava a starle simpatico – allontanarsi sulla camionetta dell’esercito, con lo sguardo rivolto verso di lei. Avrebbe voluto far qualcosa, tentare di fermarli, a costo di prenderli a botte, come facevano alle volte quei delinquenti dei film che piacevano tanto a suo padre, ma si limitò a osservare la scena, impotente. D’altra parte, aveva solo cinque anni. Guido fu trattenuto in stazione finché i suoi genitori non tornarono dall’ospedale. Sua madre stava bene. Doveva solo bere tanta acqua e passare qualche giorno in assoluto riposo. Non appena la famiglia Guasto si ricongiunse, la navicella partì e furono rispediti su Hubble. I genitori di Guido, dopo quell’esperienza, erano ancor più risoluti a non lasciare mai più il loro pianeta.
Guido, da parte sua, prese a sognare di viaggiare per l’universo.

2. La specialista

Guido cresceva curioso e vivace. Diventava grande assomigliando sempre più al bambino che sua madre, una notte, incontrò in un incubo.
Nel sogno erano mano nella mano e stavano andando a scuola. Era al primo anno, Guido, e senza di lei non voleva mettere piede fuori di casa. La strada era la solita, solo che, a un certo punto, lui le confidò di conoscere una scorciatoia. «Svoltiamo qui» le aveva detto. Lei lo aveva seguito lungo una strada che non aveva mai percorso e di cui non si era mai accorta. Avevano svoltato a destra, poi a sinistra e ancora a destra. «Attenta! Giù la testa» le aveva sussurrato Guido, improvvisamente. Poi si erano nascosti dietro a un muretto.
A poche decine di kropov di distanza da loro, c’era una pattuglia di soldati armati. Ridevano, commentando il seno della madre del più mingherlino di loro.
«Vorrei affondarci la testa e non uscirne più» aveva sentito dire a un certo punto Guido.
Poi aveva preso per mano sua mamma e le aveva fatto fare il giro dell’isolato. «Dobbiamo passare quel posto di blocco senza farci vedere. La scuola è poco oltre.» Con le spalle rasenti al muro, erano andati avanti.
C’era una rete di filo spinato. Guido l’aveva sollevata ferendosi le mani, che avevano cominciato a versare sangue. Non sembrava provare dolore, però. «Vai prima tu.»
Lei si era piegata, ma era grassa e si era incastrata con la pancia. Le spine avevano trapassato la veste colorata e ferito la carne. Indossava un abito bianco che – ne era sicura – era ormai da buttare, sporco come era di sangue e di terra, e bucato in più punti.
Guido aveva tentato di sollevare ancora di più la rete per lasciarle uno spazio maggiore.
Lei si era fatta forza e aveva spinto coi piedi più che poteva.
«Cosa pensate di fare, voi due? È proibito passare da questa parte.» Era un soldato. In mano stringeva un fucile. Senza pensarci due volte, aveva sparato due colpi nel petto di Guido, ancora oltre la rete. Poi il militare aveva appoggiato la canna del fucile, fredda e pesante, alla fronte di Angela. Aveva premuto forte, facendole male.
All’improvviso, un boato la fece svegliare.
Era sudata, come nelle estati più torride, ma era inverno e faceva freddo. Scese come sempre, con addosso la vestaglia di lana.
Guido era già seduto in cucina, le mani attorno alla calda tazza di tè. Un grande pacco di biscotti al burro era aperto sul tavolo. «Ne preparo uno anche per te?»
«No, grazie, amore mio. Oggi mangio solo una mela. Credo sia arrivato il momento di perdere qualche lince.»
«Intendi qualche decina di linci, mamma? Ho sentito dire a papà qualcosa del genere qualche giorno fa.»
«Ah sì? Puoi dire a papà che potrà avere qualcosa da ridire sul mio peso quando la smetterà di russare come un vecchio trattore.»
«Già,» disse Guido, scoppiando a ridere «a volte mi sveglio la notte perché fa troppo rumore.»
«Vedi? Ha ragione la mamma, vero?»
«Certo» confermò Guido, addentando l’ennesimo biscotto. «Tra dieci minuti andiamo, va bene?»
«Certo, amore mio, ma facciamo la solita strada.»
«Perché? Che strada dovremmo fare, altrimenti?»
«No, infatti. Lascia perdere. Sbrighiamoci che è tardi.»
Guido voleva conoscere, esplorare, andare dappertutto e, considerato che in un paio di giorni era possibile percorrere l’intera circonferenza del suo pianeta a piedi, potete immaginare quanto questo gli andasse stretto. Quando, nel tardo pomeriggio, il padre chiudeva bottega, Guido si faceva trovare fuori dalla vetrina, pronto per la solita camminata. Era successo una volta per caso che andassero a fare una passeggiata, ma era diventata ben presto una solida abitudine. Guido non lamentava mai stanchezza o fame. Potevano proseguire per ore senza mai fermarsi a riposare. Durante i primi anni di scuola del piccolo, giorno dopo giorno, girarono mano nella mano il pianeta intero.
«Ti stanno comode le scarpe che ti ha fatto papà?»
«Comodissime» rispondeva Guido, e il calzolaio lo baciava sulla fronte, sollevando quei capelli che, troppo lunghi, gli ricadevano sugli occhi.
Guido portava delle scarpe di cuoio, resistenti, impermeabili e leggere, le stesse che aveva ai piedi Antonio, soltanto diverse per la taglia, più piccola. Alcuni fori così stretti da essere invisibili a occhio nudo permettevano ai piedi di respirare come se calzasse delle infradito.
Era in prima elementare quando presero questa abitudine. A volte si facevano prendere la mano, e tornavano a casa che era così buio che, per vedere la strada, dovevano fare luce con la vecchia e indistruttibile torcia comprata dal padre quando era bambino. Sapevano che Angela avrebbe fatto la predica a entrambi, ma sapevano anche che, nel giro di qualche minuto, si sarebbe dimenticata di quella lunga attesa e si sarebbe seduta a tavola con loro, come se nulla fosse successo.
Antonio, come detto, era alto e magro. Le sue gambe erano forti, abituate a scalare le montagne. Eppure, mentre Guido cresceva, energico e robusto, il vecchio calzolaio si accorgeva che la sua schiena non era più forte come un tempo e che le sue ginocchia a volte cedevano; per nascondere tale debolezza, simulava interesse per elementi del paesaggio che giustificassero il suo rallentamento: un albero da una forma particolare, un fiore dal colore insolito, una farfalla eccezionalmente grande… Quando poi capitava che di straordinario attorno a loro ci fosse ben poco, accusava il figlio di aver perso la capacità di meravigliarsi e di stupirsi.
«Non ti pare incredibile questo quadrifoglio?» gli disse, un giorno, Antonio.
Guido tornò indietro di qualche passo e si piegò per osservarlo meglio. «Verde, quattro foglie… sinceramente, mi sembra un quadrifoglio molto simile a tutti quelli che ho visto finora.»
«Dici davvero? Ti facevo più acuto, figlio mio.» E, accennando a uno scatto, riprendeva a camminare, lasciando sul posto Guido, perplesso e irritato.
Non facevano mai lo stesso percorso, ogni giorno prendevano una strada nuova – che fosse asfaltata o sterrata, in pianura o in montagna – e la percorrevano finché c’era modo di andare avanti. Aveva22
no provato qualche volta anche a portarsi dietro Angela, ma lei non tardava ad accampare scuse per sottrarsi. Aveva un’accesa fantasia in fatto di scuse.
Nel week-end, poi, seguivano quei percorsi che durante la settimana non avevano tempo di fare. In particolar modo, il sabato e la domenica si dedicavano alle montagne. Avevano preso a girarle a una a una. Erano partiti dalla più bassa, il K3, per arrivare alla più alta, il K1, della quale, tuttavia, non poterono raggiungere la cima. Uno strano villaggio, chiuso ai visitatori, ne occupava l’intera vetta.
«Un giorno, ci verrai in gita con la scuola» gli aveva detto suo padre.
Tornando a valle, Guido notò una lapide che all’andata non aveva visto. Amadeo Gerace, c’era scritto. Sotto il nome, la data di nascita e la data di morte: 17 aprile 3828 – 11 dicembre 3874. “Eterno sia il ricordo dell’uomo buono che al mondo sorrideva” erano le parole poste al centro della lapide. Guido chiese a suo padre perché non fosse nel cimitero cittadino e perché quell’uomo fosse morto a soli quarantasei anni.
Antonio gli spiegò che lui stesso era piccolo quando morì il ministro Gerace. «Si è trattato di un brutto incidente» raccontò a Guido. «C’è stato un guasto al motore e l’aerobus su cui viaggiava è finito contro la montagna. Lui e il pilota sono morti sul colpo.»
Guido annuì e passò oltre. Non gli era ancora ben chiaro cosa fosse la morte.
Un pomeriggio, Antonio annunciò al figlio che sarebbero andati a trovare un vecchio amico. Erano alle pendici del K2. «Però non parlarne alla mamma. Non le è mai stato tanto simpatico» gli disse, avvicinandolo a sé.
A poche centinaia di kropov dalla vetta, presero un sentiero secondario e si addentrarono nel bosco. La vegetazione era così fitta da fare quasi buio. Guido si avvicinò a suo padre, che camminava con sicurezza tra gli alti pini. Doveva esserci stato parecchie volte. Poi, tutt’a un tratto, comparve uno chalet. Doveva avere, al più, un paio di stanze. In quel punto la vegetazione si diradava e Magna Lux illuminava lo spiazzo dove la casa era stata costruita. Una distesa di fiori gialli la circondava. Un uomo anziano, con una lunga barba bianca, era chino su di loro. Il naso grande e rosso, gli occhi scuri.
Aveva le mani piene di gambi e petali raccolti da terra. Quando si accorse dell’arrivo dei due ospiti, appoggiò a lato del vialetto quello che aveva tra le dita e si avvicinò a loro. Antonio lo abbracciò e gli presentò Guido.
«Ho sentito tanto parlare di te» gli disse il vecchio.
Guido notò che aveva le lacrime agli occhi.
«Perché piangi?» gli chiese.
«Quando si è vecchi, le tubature cominciano a perdere, non te l’hanno mai detto?»
Era ora di pranzo. Il vecchio si chiamava Carlo e li invitò a entrare. Chiese al ragazzo se avesse mai mangiato carne di cervo. Guido rispose che no, non l’aveva mai mangiata. L’uomo prese un fiasco di vino rosso e lo mise sul tavolo. Prese anche due calici e li poggiò vicino a quello. «Mi spiace, ma non sono attrezzato per ospitare ragazzi della tua età. Ti posso offrire solo dell’acqua e un po’ di formaggio, in attesa del pranzo.»
Guido rispose che un paio di bicchieri d’acqua sarebbero andati più che bene. Chiese al padre il permesso di fare un giro intorno alla casa, e Antonio gli raccomandò di non allontanarsi troppo.
Il ragazzo uscì, passò in mezzo ai fiori gialli e si riaddentrò nel bosco. Aveva paura ad andarci da solo, ma non tornò indietro. Non c’era un sentiero da seguire, progrediva saltando da una roccia all’altra. Molte erano scivolose a causa del muschio; cercava di evitarle allungando il passo o, all’occorrenza, accorciandolo. Le foglie ballavano e facevano sentire la loro voce spezzata. Gli abitanti del bosco parevano muoversi di soppiatto, come obbedendo a segrete abitudini di decoro; era difficile che si facessero vedere.
Poi sentì un suono diverso, come di masticazione. Qualcuno stava mangiando qualcosa. Si fermò un istante, indeciso sul da farsi. Le gambe si erano fatte molli e le mani furono assalite da uno sconosciuto tremore. Fece un passo avanti, un altro ancora e si rifermò. Salì su una roccia più alta delle altre e aguzzò la vista, tentando di vedere tra gli alberi la sorgente di quel suono così familiare e, al tempo stesso, così misterioso. Non vide niente, quindi decise di proseguire.
Percorse ancora qualche kropov, cercando di far meno rumore possibile, e si accorse di avere il fiatone. Tese le orecchie: il suono si era fatto più nitido. Alzò lo sguardo e vide due lupi dal pelo chiaro, chini sulla carcassa di un cervo. Lo riconobbe dalle corna, maestose e distese per terra, integre. I lupi mordevano la carne con voracità. Avevano il pelo folto, grigio, bianco e azzurro. I loro occhi verdi e tristi. Alzarono lo sguardo e videro il ragazzo, lo fissarono dritto negli occhi. Guido si voltò di scatto e prese a correre nella direzione da cui era venuto. Fece pochi passi e scivolò, cadendo per terra e colpendo con lo stinco una pietra sporgente. Il male fu grande ma non lo fermò. Si rialzò subito e, in breve tempo, raggiunse lo chalet di Carlo.
Suo padre e il vecchio erano seduti su due sedie di legno davanti alla porta. Quando lo videro accorrere, si alzarono, preoccupati.
Solo quando si fermò, Guido si accorse del male che gli faceva la gamba.
Il vecchio gli disse di non preoccuparsi, lo fece sedere e gli chiese, con la sua voce impastata, di raccontar loro cosa fosse successo. Mentre ascoltava, Carlo aprì la porta e da un mobiletto prese una boccetta di vetro. Sopra c’era un’etichetta con scritto “Arnica”. Si bagnò le dita con un po’ dell’olio che conteneva e glielo spalmò sulla gamba, dove c’era la contusione. Raccontò a Guido che quell’unguento lo faceva lui, con i fiori gialli che circondavano la casa.
Il dolore si calmò.
«Veramente lo fai tu?» chiese Guido, sorpreso dell’efficacia dell’olio.
«Sì, te lo giuro sulle pareti di pino di questa vecchia casa.»
«È difficile fare l’olio con i fiori?»
«No, basta raccoglierli d’estate e lasciarli essiccare dentro una boccetta di vetro per qualche giorno. Poi va aggiunta una buona dose di olio d’oliva e va lasciata la boccetta al buio, lontana da fonti di calore, per un mese.»
«Perché al buio?»
«Perché i cambiamenti sono momenti di grande fragilità.»
«Non credo di aver capito» disse Guido, dopo averci pensato su qualche istante.
«Non ti preoccupare, capirai.»
«Poi, cosa resta da fare?»
«Trascorsi i trenta giorni, basta filtrare l’olio e liberarlo dai residui dei fiori. Tutto qua.»
L’arnica lo aveva affascinato. Pensò che un giorno avrebbe provato a fare quell’olio anche lui. Quando si riprese ed entrarono in casa
per mangiare, sentì un forte odore di carne e vide, su una mensola, una dozzina di boccette di vetro con dentro dei fiori di arnica essiccata. Ognuno portava una etichetta con contrassegnato il giorno di raccolta dei fiori.
Mangiarono. La carne di cervo non era così buona come gli avevano detto, ma la divorò lo stesso. Pranzarono in silenzio. Sembrava che l’avessero già fatto tante altre volte.
Dopo pranzo, Guido si sdraiò sul divano e si addormentò. Quando, un po’ di tempo dopo, si svegliò, una coperta di lana gli scaldava le gambe.
Suo padre e il vecchio erano ancora a tavola a bere. Un altro fiasco di vino era stato posto accanto a quello vuoto.
La gamba non gli faceva più male.
Qualche minuto dopo, raccolsero gli zaini e ringraziarono il vecchio. Le tubature perdevano ancora. Lasciarono lo chalet immerso nei fiori gialli e presero a scendere verso casa.
Un giorno, percorrendo l’ennesimo itinerario, avevano svoltato a un angolo e Guido si era fermato.
«Che c’è, Guido? Perché ti sei fermato? Sei forse stanco?» gli chiese il padre, sperando col tutto il cuore che Guido volesse tornare a casa. Al lavoro era stata una giornata pesante – era passata la signora Mitchell che, quando capitava in negozio, lo tormentava per ore prima di scegliere un paio di scarpe – e non vedeva l’ora di tornare a casa.
«Non sono stanco, papà.»
«E allora, cosa c’è?»
«Qui ci siamo già stati» gli rispose Guido.
Antonio si guardò attorno. Scorse l’alta e folta quercia ai piedi della quale si erano seduti a mangiare una mela non molto tempo addietro. «Mi sa che hai ragione. E ora? Dove andiamo?»
«È tutto qui? Non c’è altro su Hubble?»
«Ti sembra poco? Quanti angoli meravigliosi abbiamo visto?»
«Certo, però…» Guido si fermò un attimo, come se si fosse reso conto solo allora di qualcosa che aveva avuto da sempre davanti agli occhi. Poi si voltò e cominciò a tornare indietro. Non disse più una parola finché non rientrarono a casa. Quella fu l’ultima volta che uscirono a camminare.
Qualche giorno, d’estate, sarebbero andati in montagna assieme, ma Antonio non trovò mai più suo figlio ad aspettarlo davanti alla vetrina della bottega. Sta crescendo velocemente, si disse, tentando di dar una giustificazione plausibile a quel repentino cambiamento.
Guido aveva dieci anni e stava per terminare le scuole dell’infanzia. Troppo presto si era reso conto di quanto angusto fosse il loro pianeta. Ma se i limiti esterni erano chiari e invalicabili, ben diversi erano quelli interni, più simili al nostro orizzonte, che, per definizione, più ti avvicini e più si allontana.
Non passava momento in cui Guido non guardasse il cielo, non sognasse di volare, non pensasse ad Anna e a quel gioco interrotto sul più bello.
Hubble, per quanto piccolo, era pieno di ragazze con cui giocare all’infante viaggiatore, ma il suo pensiero tornava inesorabilmente a Brahe.
Lui non amava gli sceneggiati. Fin dai primi mesi di vita, a tutti i bambini venivano messi in mano piccoli teleschermi, sui quali, a ripetizione, venivano trasmessi cartoni animati e film a puntate. Allora, come sotto ipnosi, i fanciulli smettevano di piangere, aprivano la bocca e mangiavano. Il cucchiaio pieno usciva vuoto dalle loro bocche. Da mattina a sera, il teleschermo diventava un compagno di gioco, un amico con una miniera di storie da raccontare. Sapeva confortare, all’occorrenza, come una mano sulla spalla al momento giusto, come una guida integerrima che non ammette deviazioni dal tracciato, un padre autoritario che ottiene sempre quello che vuole. Con le buone o con le cattive.
Quelle storie erano una presenza costante nella loro vita. Crescendo, i bambini cominciavano a condividere questa passione. Il pomeriggio si trovavano a casa di qualcuno del gruppo e, chi sul divano e chi per terra, con gli occhi si mangiavano lo schermo. A un tratto, il mondo intorno a loro scompariva.
Quando, verso il decimo anno di età, cominciavano questi ritrovi, a Guido venne naturale aggregarsi.
«Oggi alle cinque da me» gli disse un giorno Freddy, senza aspettare la risposta. Freddy era alto, quasi quanto Guido, e carismatico, nonostante la giovane età. Aveva i capelli biondi e le spalle robuste – tutti i week-end andava al lago ad allenarsi con la squadra di pallanuoto.
Guido, quindi, chiese per la prima volta a sua madre di poter uscire da solo.
«Chi è Freddy?»
«Il mio compagno di classe, quello alto con i capelli biondi.»
«Anche i suoi genitori sono biondi?» gli chiese Angela, dopo essersi fermata qualche istante a pensare.
«Mi pare di sì.»
«Credo di aver capito di chi parli. Quei due non fanno che ripetere quanto è bravo loro figlio. Fa un qualche sport acquatico, no?»
«Sì, mamma, fa pallanuoto.»
«Allora ho capito chi sono. Cerca di non essere troppo gentile con loro, non se lo meritano.»
Finiti i compiti, Guido si incamminò lungo il vialetto alberato di casa sua e lo percorse fino in fondo. In mano aveva una torta alle fragole che sua madre aveva preparato per l’occasione. Era pesante, e per non farla cadere era necessario tenerla con due mani.
La casa di Freddy si trovava poco lontano, ed era identica alla sua: una villetta monofamiliare costruita su tre piani, di cui uno interrato e uno sopraelevato; con il vialetto davanti e i mattoni esposti.
Quando Guido citofonò, venne Freddy ad aprire la porta. «Sbrigati! Sta per iniziare!» Lo spinse dentro, invitandolo a prendere posto. Alfred Woods stava per cominciare.
Si sedette accanto ad Adam, un suo compagno di classe, che, da quanto era concentrato sul grande schermo appeso alla parete, neanche si accorse dell’arrivo di Guido. La sigla partì non appena prese posto. Le luci erano spente e nella stanza era calato un assoluto silenzio.
Alfred Woods era un bambino come loro, vivace e simpatico. A scuola non andava molto bene, finché non aveva incontrato Betta. Era al suo stesso anno ma in un’altra sezione. Intelligente e sveglia, Betta aveva un grande sogno: quello di diventare una scrittrice di sceneggiati, quelli che lei, come i suoi genitori, aveva imparato ad amare fin dall’infanzia. Per poter fare un lavoro del genere, bisognava studiare tantissimo. I concorsi erano ministeriali e soltanto i più bravi riuscivano a farcela. Piano piano, il sogno di Betta era diventato anche il sogno di Alfred e la sua vita era cambiata radicalmente. Nel nuovo episodio, quello che stavano vedendo a casa di Freddy,
Alfred tentava di studiare insieme ai suoi compagni, tra un calcio al pallone e una patatina. Dopo un minuto di studio si distraevano, per una mosca o per il rumore di una pancia affamata, scatenando grasse risate tra i compagni di Guido.
Nessuno di loro però fiatava. E anche lui guardava, in silenzio.
Quella fu la prima e ultima volta che Guido uscì con i suoi compagni di classe.
Tornato a casa prima di cena, sua madre gli chiese come fosse andata.
«Bene» rispose, facendole capire che non gradiva l’idea di tornare sull’argomento.
La sera, a letto, Angela e Antonio ne parlarono. Angela faticava a capire cosa fosse preso a suo figlio, del quale si riteneva la più grande conoscitrice. Era un bambino felice, educato, sempre cordiale con tutti, intelligente (forse troppo) e dotato di una incredibile sensibilità. Quante volte, in momenti di sconforto, aveva tentato di far finta di niente di fronte a lui, cercando di nascondere il suo malessere, ma a Guido bastava un’occhiata per capire. Le diceva di buttarsi sul divano, di mettersi sotto la coperta e di svagarsi. Le avvicinava il cruciverba – una sua vecchia passione – e le metteva in mano la penna.
Angela e Antonio non chiusero occhio quella notte.
Guido ancora non se ne rendeva conto ma era molto diverso da tutti i bambini della sua età. Ed essere diversi non è sempre facile. La curiosità era fame e, in quanto tale, andava soddisfatta. Il suo sguardo era rivolto in alto, verso il cielo, verso gli altri pianeti, mentre i suoi compagni non parevano neanche accorgersi della loro esistenza.
Negli sceneggiati, non si parlava che di Hubble. A scuola era stato detto loro solo che esistevano altri nove pianeti simili, che il Governo Federale si occupava della pace e del benessere di tutti, e che non dovevano preoccuparsi di nient’altro.
Storia non esisteva come materia scolastica, così come non esisteva come campo di ricerca in tutti i pianeti della Confederazione. E il terreno di studio della Geografia era limitato al rispettivo pianeta di residenza.
Fu così che Guido, insoddisfatto, aveva preso a riempirsi la pancia di storie e informazioni. Il luogo dove preferiva rifornirsi era la sua biblioteca. La lettura gli pareva un’attività meno passiva degli sceneggiati. Viveva i libri come dei canovacci, sui quali era lui a dover dar vita alla storia. Nel giro di poco tempo, cominciò a scordarsi degli inviti al parco dei suoi compagni di classe e prese a trovarsi sempre più spesso sdraiato sul prato dietro casa, a leggere. Non lo faceva per cattiveria. Semplicemente, le cose stavano così.
Fu in quegli anni che Guido cominciò a scrivere storie. Le storie che leggeva nei libri, in fin dei conti, erano chiuse e claustrofobiche come quelle degli sceneggiati. E più si chiudeva nel suo mondo, più questo, segreto ed eccitante, assumeva dimensioni inedite. Scriveva in camera sua, per lo più, alla fioca luce della lampada. La sera, prima di andare a letto, sparecchiava la tavola e correva su. Si chiudeva la porta alle spalle e regolava lo schienale della sedia girevole – era una vecchia sedia che suo padre aveva usato per decenni in bottega, e che non teneva più lo schienale all’inclinazione desiderata.
I suoi genitori non tardarono ad accorgersene. Capire loro figlio, dopo l’interruzione delle camminate quotidiane con Antonio, era diventato sempre più difficile. Sbirciavano dalla porta di camera sua, aperta per qualche centesimo di kropov. Lo vedevano concentrato, era capace di non alzare la testa per ore. Quando si faceva troppo tardi, si avvicinavano alla scrivania con la stessa cautela con cui ci si avvicina a un cane che sta facendo colazione dopo una lunghissima nottata di digiuno. Nonostante qualche rimostranza, Guido finiva per cedere e coricarsi. A turno gli rimboccavano le coperte e tentavano di capire, chiedendoglielo, cosa scrivesse tutto quel tempo. Ma loro figlio era reticente, alzava le spalle, come per dire che si trattava di cose di poco conto, e con un veloce bacio sulla guancia li liquidava, spegnendo lui stesso la lampadina poggiata sul comodino. A tentoni, allora, uscivano dalla stanza, per poi rientrarci mezz’ora dopo, quando avevano la certezza che Guido stesse dormendo. Rovistavano tra le carte sparse per la scrivania, nell’armadio e sotto al letto, ma non trovavano nulla; soltanto formule matematiche ed esercizi di chimica, alcuni disegni e qualche appunto di geografia. Quei fogli, su cui aveva passato l’intera serata, sembravano scomparsi.
30
Un giorno, Angela era a casa – in cucina, per l’esattezza – e stava preparando il pranzo. Sulla spalla aveva il solito strofinaccio. Canticchiava, riepilogando gli ultimi episodi di Storie d’amore ai fornelli, la sitcom che guardava da quando era bambina. Presa dai suoi pensieri, faceva ballare quei fianchi pieni come il tacchino che stava farcendo, quando squillò il telefono. Con le mani ancora unte, sollevò la cornetta e rispose. Ascoltò con attenzione quello che le veniva detto. L’espressione sul suo volto si era fatta a un tratto più tesa, accigliata. Fu una telefonata veloce, al termine della quale, Angela si congedò, assicurando che si sarebbe mossa subito. Si vestì velocemente, lasciando il tacchino cotto solo a metà, e passò in bottega da suo marito. Si era abbioccato con i piedi nudi sul tavolo. «Sei una barzelletta!» gli disse, scuotendolo forte. «Andiamo.»
«Dove?» chiese Antonio, ancora mezzo addormentato.
«Ti spiego tutto strada facendo.»
Nel giro di qualche minuto arrivarono a scuola. Nell’ufficio del preside non c’erano mai stati, così dovettero chiedere informazioni al guardiano all’ingresso. «Prendete la scala C, salite al terzo piano. Usciti dall’ascensore, girate a sinistra e prendete il primo corridoio alla vostra destra. Non potete sbagliare.»
Invece sbagliarono subito. Erano così agitati che non avevano ascoltato nemmeno una parola. Mezz’ora dopo, riuscirono a raggiungere l’ufficio del preside, il professor Johnson. «Accomodatevi pure» disse loro.
Nel frattempo, arrivò la professoressa Lucy Gandhor, insegnante di letteratura e coordinatrice della classe di Guido. Prese posto su una sedia accanto alla scrivania del preside. Il suo sguardo cercava invano spazi aperti, fuggendo gli sguardi dei signori Guasto. Dava l’impressione di essere finita in mezzo a qualcosa di più grande di lei.
«Si può sapere cos’è successo?» chiese spazientita Angela. «Cos’ha combinato Guido?»
Il preside e la professoressa Gandhor tentennarono. Presero qualche secondo, nella speranza che l’altro iniziasse a parlare. Dopo un lungo sospiro, il preside ruppe finalmente il silenzio. «Sapete, siamo convinti che sia meglio prevenire che curare» esordì. «Ci stiamo rendendo conto che Guido sta sviluppando un carattere particolare. Appare strano ai suoi compagni. Sta sempre sulle sue, chiuso in una botte di vetro. Per dire: durante l’intervallo, i suoi compagni si radunano attorno a tre o quattro schermi e guardano le nuove puntate di Alfred Woods. Capite bene che sia più che naturale che ragazzi della loro età siano attratti dalle disavventure di uno studente di dodici anni che cerca di trovare il proprio posto nel mondo, e che amino condividere questi momenti di visione. Eppure, Guido, a ogni intervallo, appena suona la campanella, tira fuori dallo zaino un quaderno nero e comincia a scrivere.
«Tutto ha avuto inizio, secondo la nostra ricostruzione dei fatti, due anni fa, ma allora lo faceva solo di rado e sembrava più predisposto a condividere i momenti di svago con i suoi compagni. Negli ultimi mesi, tuttavia, con l’inizio del nuovo anno scolastico e il passaggio alla scuola secondaria, la situazione si è aggravata. L’intero corpo docente e io stesso abbiamo provato a spingerlo a socializzare, ma l’unico con cui pare a suo agio è Arturo.»
«E chi è Arturo?» chiesero all’unisono Angela e Antonio Guasto.
«Il bidello. Sapete, il problema è che è un po’, come dire…»
«Folle, pazzo» intervenne in suo aiuto la professoressa Gandhor.
«Esatto. Grazie, professoressa. Lavora qui da quella volta che… sapete…»
«No, in realtà non sappiamo» risposero i coniugi, perplessi.
«Be’, in ogni caso, sarebbe meglio che Guido smetta di averci a che fare. In tutti questi anni, Arturo era sempre stato per conto suo. Nessuno studente, a parte sua nipote, aveva mai voluto avvicinarglisi, ma i fatti ci dicono che non è più così» affermò il preside. «Tornando a Guido, vi eravate accorti di questo suo idiosincrasico carattere?»
«A dire il vero sì, signore» disse Angela. «Sono parecchi mesi che Guido ci preoccupa, che si comporta in modo strano, ma abbiamo sempre pensato che fosse parte del gioco.»
«Quale gioco?» chiese la professoressa Gandhor.
«Sa, l’adolescenza, la crescita, gli ormoni… quelle cose lì» rispose Antonio, raccontando ai due delle camminate che erano abituati a fare.
«Ebbene, pare chiaro quanto sia necessario che Guido venga seguito dalla nostra specialista. Crediamo sia fondamentale intervenire in maniera repentina, prima che sia troppo tardi.»
Antonio e Angela annuirono. Qualcuno era venuto finalmente in loro soccorso.
Quando tornarono a casa, trovarono Guido in camera sua, chino su un foglio, con la penna in mano. Il ragazzino, sentendo chiamare il suo nome, si destò come da un lungo sogno.
«Scusa, non volevamo spaventarti.»
Lo fecero sedere sul letto e, con la voce incerta di chi è costretto a far qualcosa che non vorrebbe mai fare, gli raccontarono tutto, della loro preoccupazione per l’isolamento in cui lui stesso si era confinato, della chiamata del preside, dell’incontro a scuola e della necessità di risolvere il problema. «Dovrai vedere la specialista della scuola» affermarono alla fine, con un lungo sospiro di sollievo. «Troviamo che sia fondamentale che tu ti inserisca nella tua classe.»
Guido fece molta fatica a capire cosa stesse succedendo e ad accettarlo. Cosa c’è di più innocuo di una storia? Si chiedeva. Di più confortevole di un personaggio di cui seguire le avventure? Eppure, e lo avrebbe capito solo molto più tardi, quelle storie sfuggivano al controllo del Governo e questo non andava bene per niente. Senza averne consapevolezza, il piccolo Guido era andato a scovare l’unico strumento a disposizione su Hubble per creare mondi diversi da quello esistente. Gli sceneggiati, di cui le persone si nutrivano come biscotti alla vaniglia e riso alla cantonese, erano sotto il controllo del Ministero e proponevano modelli di vita approvati e meticolosamente studiati dalla Confederazione. Nessuno, su Hubble e in tutto il Sistema, se ne rendeva conto: le storie degli sceneggiati facevano sognare i giovani, certo, ma rigorosamente entro le rigide griglie definite da chi comandava. In un qualche modo molto difficile da indovinare, Guido, però, doveva averlo capito, a giudicare dalla foga con cui si buttava nelle pagine bianche che velocemente andava a riempire. D’altra parte, è difficile che i desideri nascano dal nulla. Piuttosto si alimentano nelle suggestioni che gli eventi del mondo ci lanciano addosso, e prendono vita all’interno dell’immaginario che i racconti di cui ci nutriamo vanno a comporre. Ecco, quello a cui aspirava la Confederazione era proprio il controllo assoluto dell’immaginario. Guido, oltremodo curioso e sensibile, aveva scritto e immaginato qualcosa di diverso dallo status quo. Naturalmente, il fatto che raccontasse nelle sue storie di viaggi in luoghi lontani, che un bambino della sua età non avrebbe dovuto neanche sospettare che fossero possibili, era cosa assai grave.
La Legge dell’Equilibrio 2. La specialista
33
A ogni modo, il primo appuntamento era già stato fissato per il giorno dopo. Guido aveva tentato di chiedere qualche chiarimento su queste sedute e sull’identità di questa “specialista” ma non c’era stato niente da fare.
«È una psicologa?»
«No, direi di no» aveva risposto sua madre.
«Una psichiatra?»
«Nemmeno.»
«Un’assistente sociale?»
«Guido, sinceramente non lo so. Ci hanno solo detto che raggiunge sempre l’obiettivo. Non hai di che temere. Sei in buone mani, figlio mio.»
Dopo scuola si diresse verso la stazione. L’ufficio della specialista era là vicino. Si sedette su una panchina da dove poteva vedere gli aerobus in partenza. Non ne partivano tanti, ma quando capitava, li osservava sollevarsi delicatamente e poi schizzare via velocissimi. Avevano un’accelerazione spaventosa. Non a caso potevano essere guidati soltanto dagli allievi dell’accademia dell’aviazione militare. Aveva sentito dire che entrarvi era praticamente impossibile.
Tirò fuori il panino che gli aveva preparato sua madre e lo mangiò un morso alla volta. Per la cronaca, il panino era farcito con salame, pomodori secchi e maionese. Aveva ancora mezz’ora prima dell’appuntamento, così decise di sedersi a un tavolino del bar della stazione, ordinò un succo di pera e tirò fuori un quaderno. Prese alcuni appunti riguardo al modo in cui gli aerobus prendevano il volo. Voleva raccogliere e mettere su carta il maggior numero di impressioni.
«Ma tu cosa ci fai qui?»
Era Arturo. Guido si stupì di vederlo. Non lo aveva mai incontrato fuori da scuola.
Quello si chinò per abbracciarlo, brusco come al solito.
Guido gli raccontò della specialista e di tutti i problemi che avrebbe dovuto risolvere.
«Ma lasciali perdere. Vogliono controllare ogni nostra mossa perché hanno paura che salti tutto.»
«Tutto cosa?» gli chiese Guido, ma Arturo non ebbe tempo di rispondere perché gli saltò addosso una ragazza. Sembrava un po’ più
grande di Guido. Aveva lunghi capelli biondo cenere, due grandi occhi castani e la faccia serena di chi sa di essere nel posto giusto.
«Guido, lei è Penelope, mia nipote.»
Guido restò di sasso. Imbarazzato, allungò la mano per presentarsi, ma lei la spinse via e lo abbracciò. Nel contatto, Guido sentì il seno di lei premere contro il suo petto. Doveva avere qualche anno in più di lui – tre, più precisamente, come avrebbe scoperto più tardi. A scuola, ogni tanto, gli era capitato di intravederla nei corridoi. Era difficile non voltarsi a guardarla quando passava.
«Ciao Guido, il nonno ci parla sempre di te. È un piacere conoscerti.»
«Ora devo andare, purtroppo. Ci si vede» disse Guido, ricordandosi improvvisamente dell’appuntamento con la specialista. Lasciò i soldi del succo sul tavolo, tirò su il suo zaino e si avviò verso l’uscita. Il suo sorriso si inclinò leggermente.
Seguendo le indicazioni riportate da sua madre, raggiunse facilmente lo studio. Bussò e gli aprì un uomo anziano, piegato dagli anni, che lo fece entrare nell’anticamera bianca e spoglia. C’era soltanto un piccolo banco che pareva rubato da scuola. L’uomo portava occhiali tondi e due baffi folti, la fronte era rigata da profonde rughe e due pesanti borse gli solcavano gli occhi. Guido ebbe l’impressione di averlo già visto.
«Prego, signor Guasto. La dottoressa la sta aspettando.»
Attraversò un’altra porta e trovò davanti a sé una stanza grande, troppo grande, tutta dipinta di bianco. Da fuori non avrebbe mai potuto immaginare che oltre la porta dell’anticamera potesse esserci uno spazio di tali dimensioni. Pareva un grande magazzino svuotato, pronto per passare da un proprietario all’altro. Al centro vi era una piccola scrivania. Completavano lo scarno arredo due sedie in pelle nera, una davanti, vuota, e una dietro il tavolo da scrittura, sulla quale era seduta una donna. Indossava un tailleur nero, e da sotto la scrivania spuntavano eleganti scarpe color corallo col tacco.
«Siediti» le disse in tono pacato la donna.
Lui ubbidì. Si avvicinò alla scrivania come si ci avvicina a qualcosa che, per esperienza, sappiamo che ci farà del male.
«E questi, cosa sono?» chiese a Guido di punto in bianco, gettando sulla scrivania un plico di fogli strappati con tutta evidenza da un quaderno.
Guido li riconobbe. Tirò su lo zaino che aveva appoggiato ai suoi piedi e prese il quaderno nero che portava sempre con sé. Lo aprì e si stupì non poco, notando che era pieno di fogli bianchi. Capì subito che era stato sostituito con un altro in tutto e per tutto identico. «Come fa ad avere quei fogli?» le chiese, irrigidendosi.
«Questo non ti deve riguardare.» Il tono della donna era quello di chi non ammette repliche. «Piuttosto, cosa sono queste cose?» indicò con disgusto i fogli di quaderno sparsi sulla scrivania.
«Storie. Ma immagino che lei lo sappia già, dato che me le ha sottratte di nascosto.»
«“Guido riuscì a nascondersi a bordo di un aerobus diretto su Brahe. Il viaggio fu veloce. Il suo obiettivo era restare lì un po’ e poi esplorare un altro dei pianeti della Confederazione, ma ancora non sapeva quale tra i tanti…”» aveva letto la specialista da uno di quei fogli. «Sono parole tue, giusto?»
«Esatto.»
«Non hai avuto neppure la furbizia di cambiare il nome al personaggio.»
«Non credevo occorresse. Quei fogli sarebbero dovuti rimanere nel mio zaino. E non pensavo di fare qualcosa di male.»
«Invece sì, e il fatto che tu non te ne renda conto mi fa dubitare delle parole di tutti coloro che hanno tanto decantato la tua raffinata intelligenza. Hubble è il tuo pianeta. Qui sei nato e qui trascorrerai la tua vita. Queste storie che hai preso a scrivere sono segno di un disturbo, di un guasto che va riparato il prima possibile. Qui hai tutto ciò che potrai mai desiderare, e il fatto che tu senta il bisogno di inventare racconti strampalati, di pensare a stupidi viaggi per il Sistema, sono la spia che qualcosa dentro di te non funziona. Ma non ti preoccupare, siamo ancora in tempo per far rientrare l’emergenza. Ora, non servono terapie o ulteriori incontri» disse la dottoressa, facendogli capire che voleva chiudere la questione una volta per tutte. «Da quando metterai piede fuori da questo posto, userai la penna solo per svolgere i compiti che ti verranno assegnati a scuola. Se trasgredirai quest’ordine, puoi stare certo che lo verrò a sapere. In secondo luogo, il tuo dorato isolamento finisce adesso. Non mi interessa se non ti diverti con i tuoi compagni o se li picchieresti tutti, e non mi importa neppure se li vorresti far scomparire dalla faccia di Hubble. D’ora in poi, dovrai stare con loro ogni volta che ce ne sarà l’occasione. Dovranno diventare le persone più importanti per te, dovrai dedicare loro tempo ed energie. Non c’è posto per comportamenti eversivi su questo pianeta. È tutto chiaro?»
Guido, in men che non si dica, fu di nuovo in strada. La stazione era semideserta, come al solito. Buttò un occhio nel bar ma non c’era traccia né di Arturo né di Penelope, per quanto gli fosse parso di essersi assentato solo per pochi minuti. Era confuso. Quello che aveva visto e quello che gli era stato detto stonavano con tutto quello che aveva visto e ascoltato fino a quel momento della sua vita.
Passarono dei ragazzi in bicicletta. Avevano qualche anno in meno di lui e scorrazzavano spensierati per la strada.
Il giorno dopo incontrò Arturo a scuola. Al cambio d’ora era andato in bagno e l’aveva trovato che passava lo straccio per terra. Il suo movimento era lento e accurato – a Guido venne da pensare a qualcuno che pulisce gli occhiali. Gli disse che gli doveva parlare. Si diedero appuntamento al bar della stazione: «Ci vediamo lì oggi pomeriggio alle cinque».
All’intervallo si avvicinò a Freddy e guardò insieme a lui la nuova puntata di Alfred Woods. Il professore di matematica, il prof. Wilson, andò subito a chiamare la professoressa Gandhor, che, trafelata, accorse, si sporse dalla porta e assistette alla scena. Abbiamo fatto la cosa giusta, pensò.
La mattinata scivolò via e presto arrivò l’ora di tornare a casa. Guido pranzò velocemente sotto lo sguardo preoccupato di sua madre. Poi corse in bagno, si lavò i denti e fece per uscire. «Vado al parco con alcuni compagni di classe. A dopo. Torno per cena!»
Sua madre non fece in tempo a rispondere che Guido era già fuori dalla porta.
Era in anticipo, ma per la strada corse ugualmente. Continuava a guardarsi in giro, come se temesse che qualcuno lo stesse seguendo. Voltava la testa da una parte e dall’altra in modo forsennato. In fondo al viale incontrò Freddy e Adam. Stavano andando a vedere un nuovo sceneggiato che si prospettava entusiasmante. «Vuoi venire?» gli chiesero.
«Vi raggiungo più tardi» rispose Guido, senza fermarsi. «Mio padre ha bisogno di me in bottega.»
«Ma questa non è la strada per andare da tuo padre» precisò Adam, ma Guido era già scomparso dietro l’angolo.
Arrivato al bar della stazione, finalmente prese fiato. C’era libero un tavolino all’aperto. Ordinò il solito succo e attese. Era in anticipo, così si allungò verso lo zaino e fece per prendere il quaderno nero, ma si bloccò.
«Ecco il suo succo alla pera» disse il cameriere, porgendogli il bicchiere.
«Grazie.»
Passarono i minuti e arrivò l’orario dell’incontro, ma Arturo non si fece vedere. Non sapeva bene per quale ragione, ma Guido aveva sempre pensato che l’amico, per quanto imprevedibile, fosse una persona puntuale. Sorseggiò il suo succo, era fresco e molto gradevole. A La Terrace – così si chiamava il bar – c’erano una coppia di signori in tuta da lavoro, una coppia di ragazzi sui vent’anni – quasi certamente studenti universitari – che parlavano di esami e di crediti, e un uomo con un cappellino in testa e la Gazzetta di Hubble aperta davanti a lui. Di Arturo, ancora non c’era traccia.
«Ciao, Guido, scusa il ritardo» la voce veniva dalle sue spalle e non era quella di Arturo. Penelope gli sorrise. «Il nonno mi ha chiesto di venirti ad avvisare. È successa una cosa incredibile, ci ha sorpreso tutti. Il nonno è stato trasferito su Ipparco e lavorerà per il Ministero. “A causa dell’eccezionale condotta di questi anni” diceva la lettera “abbiamo deciso di usufruire di una tale eccellenza”.»
«Ed è già partito?»
«Sì, poco fa. Devi averlo mancato di minuti.»

19 Giugno 2019

Critica letteraria

Su Critica letteraria la recensione da parte di Gloria Ghioni de La legge dell'equilibrio, libro d'esordio di Dario Boemia. La recensione completa a questo link.

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Dario Boemia
DARIO BOEMIA è nato nel 1991 a Milano, dove si è laureato in Lettere moderne. Dal 2011 lavora nel mondo dell'informazione letteraria, prima in radio e poi scrivendo su diverse riviste e blog letterari. Attualmente è insegnante e dottorando di ricerca presso l'Università IULM. I suoi interessi di ricerca vanno dalla recensione letteraria alla letteratura italiana del Novecento, dalla letteratura della migrazione al fumetto. La legge dell'equilibrio è il suo romanzo d'esordio.
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