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L’infinito in un incontro

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Samia decide di passare il capodanno a Istanbul, da sola, ma un incontro inaspettato trasforma la vacanza in qualcosa di magico. Lui, famoso, bello e impossibile, diventa, con sorprese e semplici gesti, parte inscindibile delle sue giornate. Tra un sentimento che non sa controllare e il timore di ritornare con il cuore spezzato, incoraggiata dalla sua amica e da una mamma appena guarita da una grave malattia, Samia intraprende un viaggio tra moschee, minareti e i profumi di tè e di spezie.

Arrivato il nuovo anno, innamorata e corrisposta, si prepara però ad affrontare da sola il ritorno in Italia e la mentalità chiusa di un padre che la ama profondamente e vorrebbe proteggerla da tutto, ignara che non sarà da sola a far valere il loro amore davanti a tutta la famiglia. Una nuova difficoltà attende i due ragazzi, ma il loro sentimento sarà più forte dell’odiosa legge di Murphy.

27 Dicembre

Samia

Il canto tipico delle moschee aveva iniziato a diffondersi, i fedeli erano chiamati a raccolta sotto un cielo grigio che si rifletteva imponente sul Bosforo e che potevo ben vedere dalla portafinestra che immetteva sulla terrazza. 

Istanbul si era svegliata da pochi minuti, pronta ad accogliere il quotidiano tran tran. Immaginai una lunga serie di taxi gialli riempire a fiumi le sue strade, dando un tocco di colore a quel mattino spento e assonnato, e i gabbiani che col loro volare sicuro ad ali spiegate si lasciavano trasportare dal vento e sorvolavano quella città, unione di due continenti. 

Mi ero svegliata da poco, i miei occhi facevano ancora fatica ad abituarsi alla flebile luce del mattino. La stanchezza del giorno precedente si faceva sentire; le interminabili ore passate all’aeroporto di Fiumicino il giorno prima pesavano ancora. Non amavo viaggiare in inverno. Era la prima volta che lo facevo da sola e, come in ogni storia che si rispetti, la terribile legge di Murphy si era accanita contro di me. “Se qualcosa può andare male, lo farà”, mi risuonavano in testa queste parole che lessi una volta nel web. E così fu. Per una volta che decisi di viaggiare a dicembre, si scagliarono contro di me sciopero e maltempo e, di conseguenza, quelle meravigliose dodici ore di attesa prima di salire sul volo diretto a Istanbul. 

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Ora che, appena sveglia, la mia mente si stava riprendendo, ripensai alla sera precedente e ripercorsi quanto accaduto. Ero arrivata a notte fonda. L’aeroporto immenso e nuovissimo era distante svariati chilometri dalla città. Ricordai che, nonostante l’ora tarda, c’era un gran via vai, come in una delle grandi metropoli che non dormono mai. Spaesata e insicura avevo deciso di prendere un taxi e di farmi accompagnare direttamente al mio hotel. Avevo un pessimo turco, ma un buon inglese e per mia fortuna il ragazzo alla guida mi capì facilmente. Era giovane, moro, occhi neri e profondi. L’incarnato leggermente olivastro e i capelli ricci che contornavano il suo viso mi avevano fatto pensare a qualcuno che avevo già visto, forse proprio in una delle serie turche di cui mi ero appassionata da qualche mese. Non mi sforzai troppo a pensarci, il mio cervello non me lo avrebbe permesso; chiedeva solo un letto e un pigiama. Impiegammo quasi un’ora per raggiungere il luogo in cui avevo deciso di alloggiare. 

Ripensai al tragitto e mi resi conto che, durante il viaggio in auto, non avevo fatto altro che scrutare ogni minimo particolare attraverso il finestrino mentre una musica turca dava il ritmo ai battiti del mio cuore. Ricordai che aveva quel classico ritmo orientaleggiante che ti entra nelle vene e ti fa venire voglia di iniziare a ballare anche nei posti più inadatti. All’improvviso il famoso profilo dei minareti della Moschea Blu era apparso di fronte ai miei occhi. Mi sembrò di sentire ancora quell’emozione che aveva stretto il mio stomaco poche ore prima e ricordai la mia immagine riflessa nel finestrino: un misto tra stupore e felicità si era manifestato sul mio volto davanti a tanto splendore! Era stato quello l’istante in cui avevo capito che eravamo giunti nella zona di Sultanahmet, dove avevo deciso di alloggiare come il più classico dei turisti. 

L’auto aveva percorso ancora qualche centinaio di metri addentrandosi nei vicoli stretti del quartiere, fin quando il ragazzo alla guida, con il suo strano accento inglese, si era rivolto a me guardandomi dallo specchietto retrovisore. Il lampione, sotto cui si era fermato, mi aveva permesso di osservarlo meglio e di riconoscere lo sguardo profondo tipico dell’uomo mediterraneo. 

«This is the address you told me!» mi aveva detto, gentilmente, e io avevo ricambiato con un grazie e avevo saldato il debito. Mi fece molto strano sentir parlare di lire turche, la parola lira mi ricordava l’infanzia. Ero scesa dall’auto accompagnata dalla valigia con il necessario per la mia settimana di vacanza. Sarei dovuta tornare il primo gennaio. Avevo in mano il foglio della prenotazione: Cağaloğlu Hamamı Sokak, questa era la via indicata; alzai gli occhi e riconobbi l’ingresso dell’hotel che avevo visto in foto. Sette bianchi scalini mi separavano dalla reception. Riorganizzai le forze, sollevai la valigia ed entrai, avevo già pronti i documenti per il check-in. Una ragazza dal viso gentile mi accolse e, nonostante fossero le due di notte, aveva un’aria riposata, a differenza mia.

«Hoş geldiniz!» mi disse, sorridendo. 

«Hoş bulduk!» risposi, sperando di aver azzeccato la pronuncia. Soddisfatta di ricordare qualcosa del poco turco che avevo iniziato a studiare da autodidatta, mi ero avvicinata al bancone. In breve tempo avevo completato il check-in e ottenuto la chiave della mia stanza. 

Numero 12, ultimo piano. Con passo spedito mi ero ritrovata in ascensore e in breve ero entrata in quella stanza che avrebbe dovuto ospitarmi per i giorni seguenti. Accesi le luci e feci ciò che ero solita fare all’arrivo in ogni hotel: andai a scoprire il panorama. Come avevo chiesto, mi era stata data una camera con terrazza. La vista che si presentò ai miei occhi mi sconvolse: i minareti si confondevano con i moderni grattacieli in lontananza; il mare divideva il passato dal presente e li riuniva grazie ai ponti che, illuminati da mille colori, sembravano spingersi dinamici verso il cielo. Ero rimasta a guardare quella cartolina per diversi minuti. 

La stanchezza, però, aveva iniziato a vincere la sua battaglia, così avevo deciso di prepararmi per la notte. Il mio corpo e la mia mente avevano iniziato a manifestare il bisogno urgente di dormire e di continuare a sognare. E ora mi ritrovai lì, tra quelle lenzuola. Socchiusi gli occhi, stiracchiai le braccia intorpidite dal sonno e in breve, ritornai a me. Avevo dormito poco più di quattro ore. Non abbastanza, ma contavo sul fatto che, le emozioni che quella giornata mi avrebbe regalato mi avrebbero fatto trovare la giusta energia per seguire il programma di viaggio che mi ero proposta. Mi alzai, doccia al volo e iniziai a sfogliare la guida tascabile di Istanbul che avevo acquistato in aeroporto. Amavo la tecnologia, ma per certe cose non sapevo fare a meno della carta stampata. Con zaino in spalla, giacca termica e comode scarpe idrorepellenti, scesi nella sala colazione. 

«Günaydın» dissi alla cameriera che sorvegliava attenta i tavoli e che ricambiò con un cenno del capo. Il buffet che si presentò alla mia vista mi fece dimenticare i piani per la giornata e mi aiutò a ricordare che erano svariate ore che il mio stomaco digiunava. Mi avventai voracemente sui dolci, nel mangiare ero eccessivamente tradizionalista e per me, italiana doc, la colazione non poteva che essere dolce. Dopo il terzo pezzo di baklava decisi che era il caso di darci un taglio. Un sorso di acqua e via, ero pronta a iniziare un’avventura che certamente avrei portato dentro per tutta la vita. 

Mi alzai, salutai e varcai la porta dell’hotel, ritrovandomi nel mezzo della via in cui ero giunta nella buia notte precedente. Alzai gli occhi, il cielo aveva iniziato a rischiararsi, le nuvole leggere del mattino stavano lasciando spazio all’azzurro intenso del cielo nitido d’inverno. La luce vivace metteva in risalto i caratteristici colori delle vie di Istanbul: palazzine gialle, rosse, azzurre si susseguivano a perdita d’occhio e solo ora mi resi conto dei particolari che mi erano sfuggiti.

Iniziai a camminare, poi a un tratto il mio naso fiutò un profumo inconfondibile. Respirai ancora; l’odore del tè aleggiava nella via, mi girai e vidi che a poche decine di metri da me stava passando, preceduto da un carretto pieno di teiere e dai classici bicchieri a tulipano, un venditore ambulante. Nonostante il sole, faceva freddo, così decisi di approfittarne. Fu il miglior tè bevuto in tutti i miei trent’anni. Forse per il luogo, forse per la felicità di essere nella città che da tanti mesi sognavo di vedere, fatto sta che se ci penso ora sento ancora il sapore in bocca. 

Mi incamminai per le vie della zona, diretta alla famosa Moschea Blu. Seguii le indicazioni per Yerebatan Caddesi, una delle principali strade di Sultanahmet, che portava dritta lì. Avevo il cuore pieno di emozioni. Piccoli bazar, chioschi di kebab, odori di spezie inconfondibili mi circondavano in ogni dove, pronti a farsi largo nella mia mente e a fissarvisi per sempre. La mia carnagione chiara come la luna e gli occhi verdi smeraldo, accompagnati da una bella Nikon appesa al collo, erano chiari segnali che fossi una turista e la gente attenta del posto non nascondeva certo di averlo capito.

Lungo il cammino incrociai molti ragazzi. Occhi neri e profondi che sembravano scrutarti dentro, sorrisi sinceri che mettevano allegria; si muovevano disinvolti per le strade con fare sicuro, rivolgendomi a tratti occhiate intriganti. 

Di lì a poco le cupole tanto attese iniziarono a mostrarsi in tutta la loro bellezza. Mi guardavo intorno stupita, come quando un bambino scopre per la prima volta qualcosa di estremamente interessante. I turisti iniziavano ad avvicinarsi in massa, era ora di liberare l’obiettivo della Nikon dalle grinfie della borsa. La vacanza aveva inizio. Le cupole a cascata dominavano la visuale e, tutto intorno svettavano, come braccia rivolte al cielo, i sei esili minareti. Mi addentrai al suo interno, un enorme portico mi diede il benvenuto. Mi soffermai per scattare foto tra le sue colonne e per cercare di ottenere quegli effetti tipici delle geometrie delle architetture. Intorno a me lingue di ogni dove raccontavano pacatamente le proprie emozioni e io, come sempre, fui ammaliata da quei suoni. Adoravo le lingue straniere, adoravo sentir parlare qualcuno in una lingua anche incomprensibile; ero attratta da tutto ciò che potesse trasportare la mia mente in giro per il mondo e cosa poteva esserci di meglio, se non l’idioma che contraddistingue un popolo. 

Mi concentrai e chiusi gli occhi, il silenzio del luogo trasmetteva pace e serenità. Decisi che era il momento di entrare. Mi avvicinai all’ingresso visitatori, entrai e tolsi le scarpe; indossai il velo che una gentile signora mi porse. Coprii i miei capelli, liberati poco prima dal pesante cappello che avevo indossato; ora ero definitivamente pronta per accedere in quel luogo sacro.

Una meravigliosa sensazione avvolse i miei piedi non appena toccarono il morbido tappeto rosso, ricamato con un motivo floreale che si ripeteva a perdita d’occhio. Grandi fiori blu ed elementi gialli sembravano animare il pavimento e dare tepore a ogni passo. Non feci in tempo a metabolizzare tanta grandezza che, a un tratto, il mio sguardo fu catturato dalle meraviglie che sovrastavano la mia testa. Decine di metri sopra di me, migliaia di minuscole piastrelle in ceramica tempestavano le pareti, il soffitto e l’intera cupola della moschea. Enormi lampadari circolari scendevano, sorretti da funi, al centro della sala, rischiarata dalla luce di svariate finestrelle con fantastici mosaici di vetro che, d’accordo con le imponenti colonne, creavano un’atmosfera quasi surreale, in grado di catapultarti indietro nei secoli. 

Rimasi estasiata da tanta bellezza. Ruotavo su me stessa con lo sguardo fisso al soffitto, aiutandomi con l’obiettivo della mia reflex che fu indispensabile per osservare anche i particolari irraggiungibili. Non avrei saputo trovare parole per descrivere tanta maestosità. Decisi di sedermi e gustarmi quel luogo magico, in grado di racchiudere storia, religione e arte in ogni suo spazio. I turisti camminavano estasiati e con i nasi rivolti all’insù; smartphone e fotocamere si succedevano negli scatti, quasi come se ognuno volesse portarsi via un pezzetto di quel luogo da conservare come ricordo di un viaggio indimenticabile.

Passai parecchio tempo a visitare la moschea, poi, fui costretta a sottostare alla fame. Lasciai quel luogo meraviglioso e mi diressi in strada in cerca di qualcosa che potesse saziare il mio stomaco. Ovunque mi girassi street-food di ogni tipo invitava i miei sensi, alla fine optai per una pide farcita di carne macinata. Una bella barchetta di pasta di pane, per certi aspetti simile alla nostra pizza, mi aspettava fumante su un pratico vassoio di cartone. Un’esplosione di sapori colpì le mie papille: il gusto del peperone si fondeva con quello della paprika, mentre la cipolla sembrava danzare con la carne. Una vera prelibatezza saziò i miei appetiti e mi permise di rimettermi in cammino e di scoprire le vie del quartiere, affiancata dalla mia migliore amica di viaggio. Camminai per tutto il giorno. 

Le architetture tipiche della città mi avevano riempito gli occhi e scorci indistinti erano ormai intrappolati nelle camere dei miei ricordi. I magnifici mosaici, l’adhan dei muezzin che riecheggiava nei parchi e nelle vie, le fontane zampillanti che adornavano le piazze, i chioschi del cibo da strada e gli odori di spezie e tè mi avevano segnata. E poi c’erano gli abitanti di Istanbul. Gentilezza, animo profondo, modernità mista a tradizione e valori radicati in ogni famiglia. Catturai scatti in ogni dove per non dimenticare nessun particolare e, solo nel tardo pomeriggio, sentii il bisogno di guardare l’orologio. La luce stava cambiando; mi resi conto che, a breve, il giorno avrebbe lasciato spazio alla sera. Decisi di tornare in hotel per rinfrescarmi e cambiarmi; non ero distante, nel giro di un’ora avrei potuto fare tutto. Camminai velocemente, quasi come se conoscessi già bene le vie di quella immensa città. La hall dell’hotel era vuota a quell’ora. 

«Iyi akşamlar» dissi, rivolgendomi alla ragazza alla reception e salii velocemente in camera. La coperta rossa ben sistemata dava calore all’ambiente. Sciolsi i miei lunghi capelli rimasti tutto il giorno sotto un morbido cappello in pile, mi spogliai ed entrai nella doccia. Subito dopo li sistemai con schiuma e phon e indossai un bell’abito corto con delle calde calze invernali. Un paio di stivali al ginocchio, una spruzzata di profumo e un filo di matita. Pronta! La pide che avevo mangiato a pranzo era ormai svanita; avevo fame. Decisi che era il momento di cercare un locale in cui poter cenare. 

Mi incamminai verso il porto di Eminönü decisa a raggiungere la zona del Bebek; la guida consigliava molti locali rinomati per il buon cibo, un po’ meno per i prezzi, ma non mi importava. Era la mia vacanza e volevo il meglio. Nel giro di mezz’ora il traghetto salpò. Stranamente non era molto affollato e potei sedermi in uno dei posti più panoramici. I sedili grigi a file di tre mi permisero di distendere e riposare un po’ le gambe stanche. Il tramonto, già iniziato, tingeva di rosso e arancio il cielo sopra Istanbul e rincuorava l’animo. La Kız Kulesi apparve presto in lontananza. Che sensazione! L’ avevo vista così tante volte, nella mia serie turca preferita, che quasi mi sembrava un posto familiare. Aveva fatto da sfondo a scene d’amore di ogni tipo, tanto da farmi sognare che un giorno, qualcuno, prima o poi, avesse potuto portarmi su quel lungomare e, guardandomi negli occhi, avesse potuto darmi un bacio che non avrei mai più dimenticato. Chissà che non avessi incontrato proprio lui: lo scrittore turco che stava spopolando dopo aver preso parte a una serie tv che stava avendo enorme successo non solo in Turchia, ma anche in Europa. Scrollai la testa e risi tra me e me. 

Per favore! Ma la vuoi smettere? Se qualcosa può andare male, lo farà. Ti ricordi? Era stato questo l’incipit del tuo viaggio… e credi veramente che tra tutti i milioni di abitanti che ci sono a Istanbul il destino ti permetterà di avverare il tuo sogno così facilmente? Ma per favore, Samia! Torna in te.

Quella mia vocina malefica era emersa dal nulla e mi aveva fatto ripensare all’altra me, quella pessimista e scettica. Terminato il dialogo con me stessa, scostai lo sguardo e mi resi conto che stavamo per attraccare. Il Bebek mi stava aspettando. Avevo deciso di scendere a Bebek Arnavutköy Caddesi, e da lì sarei andata a piedi fino al centro nevralgico del quartiere. Il sole aveva ormai lasciato spazio alla notte. Centinaia di luci, che si affacciavano dalle finestre di palazzi e locali, disegnavano il contorno delle strade. Scesa dal traghetto mi ritrovai catapultata nella frenesia di una zona di alto livello piena di locali, uffici e auto. Auto ovunque. Le notizie sul traffico di Istanbul erano tutte vere. Zigzagavo tra la folla lungo la via. Le vetrine dei negozi catturavano la mia attenzione da un lato e, dall’altro, la bellezza incontrastata dello skyline illuminato mi faceva distogliere lo sguardo e distraeva il mio incedere. Camminavo freneticamente, i miei occhi non volevano perdere nessun particolare, le mie orecchie erano colme di musiche di ogni tipo che uscivano dalle porte dei locali. Ero così “distratta” dal dare attenzione a ciò che mi circondava che dimenticai di guardare avanti a me e, all’improvviso, un inatteso calore pervase la mia guancia, misto a un leggero dolore. Che botta! La mia borsa cadde a terra, in pochi istanti mi ripresi, pronta a scusarmi con quel poveretto su cui mi ero praticamente catapultata addosso. 

Il mio metro e sessantacinque mi fece sentire piccola; avevo urtato in pieno il suo petto, dovetti alzare gli occhi per cercare il suo volto, pronta a pronunciare un sorry nel modo più convincente possibile. Non appena lo trovai, il fiato rimase in gola. Dovevo avere un’espressione tra il mortificato e lo scioccato. Lui sorrise. Il mio cuore accelerò. Ero momentaneamente incapace di intendere e di volere, forse la botta era stata così forte da svalvolarmi. O forse era il suo profumo che mi dava alla testa. Furono degli istanti interminabili. 

«Are you ok?» disse mentre posava una mano sulla mia spalla e si accingeva a raccogliermi la borsa. Riuscivo solo a fare cenno con la testa, ma dove erano le parole? E soprattutto come potevo rallentare il mio cuore? Temevo che stesse per scapparmi dal petto. Una cosa sola riuscivo a pensare in quel momento: cara legge di Murphy, questa volta ho vinto io!

Lo fissai per qualche istante, incredula. Zeus, Marte o il David di Michelangelo? Flash confusi dei libri di storia dell’arte si riproposero alla mia mente, in cerca di un’immagine adatta a descrivere la bellezza che mi trovai di fronte. Non era certo facile trovare il giusto paragone, o forse era la somma di tutti e tre. Cercai di scrollarmi quelle immagini dalla testa, scossi il capo e ricominciai a sentire il vociare dei passanti e il frastuono del traffico. Il sangue riprese a rifluire rendendomi di nuovo consapevole della presenza dei miei arti. 

«Sì… ehmEvet, ehm… yes!» Le lingue si confusero, le provai tutte.

«Ah… italiana? Bene!» Ed eccolo lì il suo sorriso e quelle sue fossette che si intravedevano ai lati del suo volto. Non sapevo che fare, né che dire. Avevo sognato quel momento così tanto, sicura che non sarebbe mai potuto accadere, e ora, invece, ero lì e lui, Görkem, era in piedi avanti ai miei occhi in carne e ossa. Facevano cinque gradi, ma ne percepivo almeno trenta; sentivo il viso in fiamme. Con il suo fare gentile mi porse la borsa. Feci un respiro profondo, allungai la mano per riprenderla e sfiorai la sua; un brivido mi corse lungo la schiena e si fece largo fino a scuotermi lo stomaco. 

«Scusa! Non volevo. Ma…» provai a giustificarmi nella mia lingua dato che sembrava capirla. 

«Tranquilla… immagino tu sia stata distratta dalla bellezza di Istanbul, o dalla sua confusione!» Sorrise ancora con fare sicuro. Accennai a un sì. Mi sistemai la borsa in spalla, aggiustai il vestito e i capelli, che fluttuarono al vento lasciando una leggera scia di cocco del mio shampoo preferito. Dopo la figuraccia che avevo fatto non avevo certo il coraggio di comportarmi come facevano tutte le fans. Decisi che era meglio proseguire per la mia strada. In fin dei conti lo avevo visto, avevo realizzato il mio sogno. Cosa potevo aspettarmi di più? I miei battiti erano diminuiti, le mie funzioni vitali sembravano essere tornate nella norma, ma lui continuava a fissarmi. Non riuscivo a sostenere il suo sguardo, ma era come se lo percepissi su di me. Ciondolava da una gamba all’altra come se stesse aspettando la mia prossima mossa; forse era così abituato a essere assediato e circondato da smartphone al vento e pronti a scattare selfie, che quasi ci stava rimanendo male vedendo me che non accennavo a una minima richiesta. E dio solo sa quanto avrei voluto stringermi a lui per un bel selfie da riportare in Italia, ma mi vergognavo troppo e la mia timidezza non mi stava dando una mano nello sfruttare al meglio quell’opportunità. 

«Grazie, Görkem! E scusa ancora!» dissi improvvisamente quasi senza rendermene conto, pronta a farmi da parte e proseguire nel mio percorso. 

Grazie, Görkem? Ma dico io… stai parlando con tuo fratello? Samia… ma come ti è venuta? borbottai tra me e me e sperai che una voragine nel marciapiede potesse inghiottirmi all’istante. 

«Ah, allora mi conosci? Iniziavo a pensare il contrario…» rispose. 

Presi coraggio e alzai lo sguardo, lo osservai di nuovo. Il tempo sembrò arrestarsi. I clacson e le musiche turche nel quartiere divennero, nella mia mente, la più bella delle colonne sonore. Per un attimo confusi la vita reale con quella cinematografica. Che bello che era! Di una bellezza sconvolgente. Mi osservava con espressione curiosa; il viso leggermente inclinato accennava a un mezzo sorriso ornato da una dentatura perfetta; le mani ai fianchi facevano risaltare le sue spalle. Indossava un maglione nero e una giacchetta di pelle marrone di ottima fattura, con un paio di jeans attillati scuri che terminavano sopra a dei semplici, ma griffati, scarponcini marroni. 

Allah, Allah! ripetevo tra me e me, anche se non bastava chiamare a raccolta un solo dio per salvarmi dall’emozione del momento; ma mi feci coraggio. 

«Certo che ti conosco! Come non potrei!» risposi, cercando di apparire sicura e per niente destabilizzata dalla situazione, ma il mio viso era di nuovo incandescente. Solo in quel momento mi resi conto che vicino a noi, un ragazzo che avrà avuto all’incirca la nostra età, ci stava fissando, braccia incrociate. Mi parve di riconoscerlo, forse era uno dei suoi amici con cui spesso appariva nei post di Instagram. Si avvicinò a Görkem e gli fece cenno con la testa e con la mano, indicando la porta di un locale, avanti alla quale, una decina di persone sembrava stessero aspettando solo lui. Erano passate le 20:00, forse lo attendevano per cena. Mi voltai anche io verso il punto indicato: la scritta luminosa sopra il locale non lasciava spazio all’immaginazione, era il suo locale preferito. 

Ma certo, Samia, hai camminato così distrattamente che non ti sei resa conto di essere arrivata nella tana del lupo! E che lupo!

Shakerai la testa per tornare in me. 

«Ops, immagino di aver interrotto qualcosa; scusa ancora. Piacere di averti conosciuto. Buon proseguimento» cercai di farla breve per togliermi da quella situazione imbarazzante. Indietreggiai e, dopo un cenno del suo capo, ripresi i miei spazi e mi rimisi in marcia tanto scioccata quanto confusa. I miei piedi andavano uno avanti l’altro, non sapevo neanche io dove. Tutti i piani per la cena erano stati dimenticati. Non mi voltai, avrei tanto voluto farlo. Chissà se mi stava guardando? Chissà cosa stava pensando di me? Che vergogna! Sicuro l’avrei ricordata per sempre quella figuraccia. Avevo percorso qualche decina di metri, le mie mani ancora tremavano. Dovevo raccontarlo a qualcuno. Smartphone alla mano iniziai a scrivere un sms alla mia migliore amica. 

Non ci crederai mai!!! L’ho incontrato! È qui a pochi metri da me. Ed è meraviglioso.

Invia.

Mamma, tutto ok. Vado a cena. Ci sentiamo domani mattina.

Invia. 

Mi sembrava doveroso avvertirla che era tutto ok! Anzi era tutto più che ok! Ripresi in mano la mappa del Bebek. Ero su una delle vie principali, continuai diritta in quella direzione. L’incontro, o meglio, lo scontro era avvenuto vicino a una cabina che riportava la scritta Bebek Taksi. Un messaggio pieno di emoticons con gli occhi a cuore mi avvisò che la mia amica stava morendo di invidia. Non volevo pensare alla delusione che avrebbe mostrato quando le avrei detto che non avevo neanche una “prova” dell’accaduto. Intanto, camminavo scortata dalle auto incolonnate e da decine di passanti controcorrente. Proseguii su quella strada fino a quando potei scorgere il Bosforo aprirsi alla mia destra. Costrinsi la mia memoria a fare un grande sforzo per ritornare nei ranghi e fortunatamente i miei pensieri tornarono sotto il mio controllo: stavo cercando un locale di cui tutti parlavano egregiamente e dal quale la vista sullo stretto sembrava lasciare senza fiato. 

Scorsi l’insegna, era a una cinquantina di metri. Stavo per svoltare l’angolo quando, a un tratto, una mano calda cinse la mia e delicatamente mi trattenne. Mi voltai di scatto; il cuore perse un battito. 

«Vai così di fretta? Tu sai tutto di me, io non so neanche il tuo nome!» La sua voce profonda riecheggiò nella mia testa come quando da bambini si gioca a fare l’eco in montagna. Mi aveva seguita. Forse la mia borsa rossa si distingueva troppo bene tra la folla scura dell’inverno. La mia mano era ancora nella sua; quel profumo mi avvolse di nuovo e pervase i miei pensieri, i suoi occhi scuri più dell’ebano fissavano i miei, verdi e luminosi come quelli delle ninfe protagoniste delle antiche leggende orientali. 

«Allora… come ti chiami?» incalzò. Deglutii a fatica, respirai profondamente sperando non se ne accorgesse. 

«Mi chiamo Samia. Ma… tu… non ti stavano aspettando?» ribattei con voce curiosa e indicando dietro di lui la via appena percorsa. 

«Sì, mi stavano aspettando. Ma so come liberarmi dagli impegni quando ho qualcosa di meglio da fare; ti va se ci mangiamo qualcosa insieme?» Aveva lasciato la mia mano, ma mi resi conto che aveva diminuito la distanza che ci separava; sorrideva ancora, l’indice e il medio della mano destra accarezzarono il labbro inferiore. Oddio, quante volte glielo avevo visto fare! Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. 

Samia, per favore controllati, togliti quell’espressione inebetita dal tuo viso, riattiva i neuroni. Terra chiama Samia! Samia, rispondi! Aprii e chiusi gli occhi. 

«Io… ehm… a dire la verità stavo andando laggiù!» E indicai il locale a pochi passi da noi. 

«Perfetto, vengo anche io! Conosco il proprietario, magari se siamo fortunati ci riserva un tavolo vista mare all’ultimo piano! Vorrei farmi perdonare per essermi trovato così all’improvviso sul tuo cammino!» rispose prontamente. 

Era uno scherzo? Si stava prendendo gioco di me? Sapere che tutte le donne erano pronte a cadere ai suoi piedi gli aveva, forse, fatto montare la testa? O era veramente così gentile come tutti lo descrivevano? Non ci capivo più nulla. La mente offuscata, lo stomaco affamato e le gambe infreddolite chiedevano riparo. Non sapevo che fare. Mamma, che situazione! A me? Come era possibile, che una cosa del genere stesse accadendo proprio a me? 

Non attese neanche la mia risposta. Fece un cenno col braccio sinistro come a dirmi “Prego, prima tu”; la mia mente sembrò rifiutarsi di controbattere, così ci ritrovammo a camminare insieme, senza proferir parola, con me ancora incapace di realizzare cosa stava accadendo. Solo qualche istante dopo mi resi conto degli occhi dei passanti puntati su di noi. Ma che stavo facendo? Io, di passaggio a Istanbul, a cena con la celebrità del momento, lì nella sua città, tra la sua gente. Sapevo che a breve mi sarei svegliata. Non poteva che essere un sogno.

Percorremmo fianco a fianco gli ultimi trenta metri prima di raggiungere la meta. Le pareti esterne, tappezzate di listelli marrone scuro mettevano in risalto la vistosa bandiera turca che scendeva leggera dal tetto del locale. Ci accolse una longilinea scultura bianca che sembrava sorreggere l’ingresso invitando i clienti a entrare. Görkem si fece avanti. Salì i pochi scalini e si accinse ad aprirmi la porta in vetro, accennando un mezzo inchino con la testa. 

«Prego, madame!» disse guardandomi negli occhi. Mi affrettai a entrare, un po’ perché iniziavo veramente ad avere freddo, un po’ per l’insostenibile calore dei suoi occhi. Ci addentrammo nella sala; l’atmosfera del locale mi fece sentire bene. Lampadine a filamento gialle scendevano da moderni lampadari appesi al soffitto e si riflettevano sui tavoli in bianco lucido. Decine di candele facevano capolino nel mezzo di grandi bicchieri in vetro trasparente e piatti grigi abbinati alle sedie. Con passo sicuro si diresse al bancone e alzò le braccia in segno di saluto. Il proprietario, un ragazzo poco più grande di me, ricambiò il gesto con una amichevole stretta di mano alla Braccio di ferro e una bella pacca sulla spalla. Guardavo la scena da non troppo lontano. Provai a pizzicarmi la guancia, non ci credevo ancora. Parlavano velocemente in turco, sentivo poco e non riuscii praticamente a capire nulla di cosa si stessero dicendo, ma nel giro di due minuti tornò da me. 

«Seguimi!» esclamò. 

E chi non lo farebbe! pensai dentro di me. 

Salimmo le scale, due rampe e ci ritrovammo all’ultima sala. Pochi tavoli e tantissime vetrate che mi lasciarono stupita. La stanchezza della sera prima nella mia camera d’hotel non mi aveva permesso di cogliere Istanbul in tutta la sua bellezza notturna. Ci venne assegnato un meraviglioso tavolo vicino alla vetrata principale, con vista diretta sul Bosforo. Feci per andare al mio posto, ma lui fu più veloce di me e si precipitò per scostare la sedia dal tavolo e farmi accomodare. Non ero abituata a questi gesti, ma devo confessare che non mi dispiacevano affatto. Mi voltai per ringraziarlo. Era così vicino che potevo percepire il suo respiro sulla mia guancia. Fui grata a Dio per avermi dato un cuore forte, altrimenti non so quanto sarei potuta resistere in quella situazione senza farmi venire un infarto. 

Fece il giro del tavolo, tolse la giacca posandola sullo schienale della sedia e si sedette di fronte a me. Il maglione a girocollo ampio metteva in evidenza due spalle perfette e lasciava intravedere l’inizio dei pettorali. 

Nefes Al! Respira, Samia, respira. Era magnetico!

«Adoro il Bosforo dopo il calar del sole! Mi fa sentire in pace» disse, con lo sguardo verso il mare. E non potevo contraddirlo.

Lo scorrere lento delle decine di imbarcazioni e traghetti, che componevano un mosaico di luci, donava veramente tranquillità. Intanto i minareti delle moschee definivano i profili dei colli e, in lontananza, le luci delle auto, sull’alto ponte illuminato di rosso, tracciavano una delle molteplici linee di congiunzione delle due terre. Provai a sciogliere il ghiaccio, non sopportavo più quella tensione; mi guardai intorno, mi sentivo ancora osservata; lui era abituato a ciò, ma io no di certo. 

«Allora… cosa penseranno i tuoi amici che ti stavano aspettando poco fa?» mi venne spontanea questa domanda. 

«Tranquilla, Samia! Ci vediamo così frequentemente che non fa niente se non sarò presente questa sera. In fin dei conti è stata una buona opportunità per staccare dalla frenesia delle serate. Ne ho davvero bisogno» disse, lasciandosi andare comodamente sulla sedia. Nel frattempo, il cameriere ci aveva portato il menù. Decisi di provare degli spiedini di agnello accompagnati da verdure e salsa yogurt; lui optò per le classiche köfte di manzo. Da bere non poté che scegliere una buona bottiglia di prosecco, italiano. Continuava a guardarmi con quel sorrisetto stampato in faccia che sembrava nascondere stravaganti pensieri. Il mio vestito nero con scollo a V metteva in risalto la carnagione chiara e la collana in argento con scritto il mio nome che portavo sempre con me. La stava fissando, me ne accorsi. 

«Come mai questo nome?» si affrettò a dire. «Non mi sembra sia rigorosamente italiano!»

«Hai ragione.» Sorrisi e lo vidi allungare la mano verso il mio ciondolo. Doveva essersi girato. Le sue dita sfiorarono la base del mio collo e sentii il suo indice accarezzare la scritta in tutta la sua lunghezza. Mi colse impreparata. 

«È stata mia mamma a decidere di chiamarmi così; si innamorò di questo nome durante il viaggio di nozze che fece l’anno prima che nascessi. Un bel tour del Marocco. Da quel giorno disse che, se avesse avuto una bimba, l’avrebbe chiamata Samia. Era settembre del 1988, otto mesi dopo nacqui io. Non lo sapeva ancora, ma mi stava già aspettando.»

Bene, avevo rotto il ghiaccio. Ero riuscita a pronunciare tutte quelle parole in fila e avevo anche respirato. Potevo farcela. Iniziavo ad abituarmi a quella presenza. Mangiammo con gusto i fantastici piatti del locale. L’odore del coriandolo e del peperoncino si erano diffusi in fretta e ci avevano inebriato, o forse era stato il prosecco, so solo che a fine cena mi sentivo leggera e tranquilla. Si rivelò essere un ragazzo semplice e alla mano. Mi raccontò di lui e della sua città. Parlammo molto e il tempo sembrò passare velocemente; a un tratto ci ritrovammo in una sala ormai vuota, nella quale ci raggiungevano le musiche dei piani sottostanti in cui aveva preso il via la movida notturna del Bebek. Fu il cameriere, giunto per il conto da saldare, a farmi tornare sull’attenti. Guardai l’orologio: a breve sarebbe scoccata la mezzanotte. Mi alzai per avvicinarmi alla vetrata e osservare ancora quel meraviglioso scorcio di panorama. Il traffico in mare era diminuito, in lontananza le bandiere turche continuavano a sventolare, la luna era ora alta nel cielo e sembrava volersi mettere in mostra. Mi rivolsi a lui senza guardarlo e dissi: «Görkem, io dovrei andare. Domani vorrei proseguire nella visita della città. Pensavo di recarmi al Gran Bazar. Se non ti dispia…» E fui costretta a interrompere la frase. 

«Cosa aspetti allora… andiamo, ti accompagno; non mi va che giri da sola a quest’ora!» sentii sussurrarmi lievemente all’orecchio. Quel profumo, ancora così intenso. Era dietro di me, il suo respiro sul mio collo. Ebbi i brividi. 

Non voltarti, non lo fare… ma sì, voltati, quando ricapita? 

Nella mia mente le voci si confondevano. Mi girai lentamente, indietreggiando fino a trovare la parete di vetro: era così vicino che mi sembrò quasi difficile metterlo a fuoco. Mi agitai. 

E ma così non vale! Queste azioni non sono legali… dovresti saperlo! mormorai silenziosamente tra me e me. 

«Ehm… Va bene, mi hai convinta.» Cercai di indietreggiare ancora, ma non potevo; ero in trappola. Fortunatamente lo fece lui, adagio. Prese la mia giacca, me la porse e mi aiutò a indossarla; mi passò la borsa guardandomi ancora. Nel frattempo, prese la sua di giacca e si rivestì. Si avviò e mi fece strada, scesi le scale dietro di lui. Ora che non poteva vedermi inspirai ed espirai profondamente. Salutammo e ringraziammo il titolare, pronti a ritornare tra la folla e ritrovare l’uscita. La temperatura era scesa, credo sotto lo zero. I nostri respiri condensavano; strinsi le braccia intorno alla vita e inarcai le spalle. Se ne accorse. Lo vidi spogliarsi di nuovo della sua giacca, non capivo cosa stesse facendo, ma tutto divenne subito più chiaro. Mi si parò davanti all’improvviso, una scena che mi pareva di aver già vissuto. Tenendo la giacca con una mano per il colletto, alzò le braccia e la portò dietro di me; aiutandosi con l’altra mano me la posò dolcemente sulle spalle. 

«Così dovresti stare meglio!» Sorrise. Gli sguardi delle ragazze tra la folla si fecero stupiti, mi sembrava quasi di sentirle bisbigliare l’una con l’altra. Mi allacciò un bottone del colletto che era solito portare alzato e me la sistemò meglio. La presa delle sue mani sulle mie braccia mi scaldò più di ogni altra cosa avessi potuto mettermi addosso. Si riportò al mio fianco e mi posò un braccio intorno alle spalle, mi strinse a sé, come a ripararmi dall’alito di vento che aveva iniziato a soffiare lungo la via. Non opposi resistenza. Il suo petto divenne un comodo appoggio, sentivo il suo cuore battere. Allineai il passo al suo, e con andatura veloce ci spostammo tra le macchine su una delle traverse secondarie poco distanti dal locale. Il suo braccio scivolò sulla mia schiena, verso il basso, e con la mano si mosse a cercare la tasca della giacca per tirarne fuori la chiave della macchina. Bip bip. I fari al led di una Jeep parcheggiata al lato della strada si illuminarono: un fuoristrada rosso fuoco, con la scritta Rubicon impressa sopra il passaruota, ci stava salutando; eravamo arrivati. Mi aprì lo sportello e mi fece salire. Il cruscotto rosso e grigio dell’auto catturò la mia attenzione. Tutto quel rosso mi stava dando alla testa, sicuro non passava inosservato. Saltò su e mise in moto, ingranò il cambio automatico e partì. Il gomito sinistro appoggiato allo sportello, la mano che muoveva con disinvoltura il volante. 

«Allora, dove posso portarla, cara Samia?» domandò con voce profonda e sguardo fisso sulla strada. Tirai fuori dalla borsa la brochure che avevo preso alla reception, gliela mostrai.

«Alloggio qua.» Annuì con il capo e mi fece l’occhiolino. La musica proveniente dalle casse dell’auto mi risuonava in testa, il ritmo accattivante mi faceva venir voglia di ballare, ma mi trattenni. Erano passate così poche ore dal mio arrivo, che ancora non pensavo possibile potessero essere successe così tante cose tutte insieme. Un accenno di sorriso si presentò sul mio volto. Credo se ne fosse accorto perché continuava a guardarmi e sorrideva, lo vedevo riflesso nel finestrino attraverso il quale scrutavo le vie della città. Nel giro di mezz’ora fummo sotto il mio hotel. La via era vuota, fermò la macchina e spense il motore; ci guardammo. Non sapevo veramente cosa dirgli. Lo fissai a lungo, volevo fare il pieno di quella bellezza e delle emozioni che aveva saputo regalarmi con una semplice cena al ristorante. Gli riconsegnai la giacca e ripresi la borsa.

«Grazie mille… per tutto!» mi uscì semplicemente così, con voce dolce e lenta. Si voltò verso di me, il suo sguardo mi trafisse e scombinò le mie sinapsi, non so cosa stessero recependo i miei sensi, ma il mio sistema nervoso ne fu sconvolto.

«Grazie a te, Samia… per tutto!» disse, accarezzandomi la guancia.

«Iyi geceler!» esordimmo all’unisono. Mi feci forza, mi voltai e scesi dalla sua auto.

Lo presi come un addio; mi si gelò il sangue.

Attese fin quando la porta a vetri dell’hotel non si richiuse alle mie spalle; sentii il motore rombare.

Mi guardai indietro: non c’era più!

Salii le scale due a due. Era passata l’una di notte, ma l’adrenalina in corpo era ai massimi livelli. Arrivai in camera, tolsi giacca e borsa e mi distesi sul letto. Gli occhi erano rivolti al soffitto, ma la mia mente mandava in onda solo immagini della serata appena trascorsa. Lentamente mi addormentai cullata dalle emozioni di quella magia; ero pronta a proseguire per la mia strada quel meraviglioso viaggio appena iniziato convinta che un “imprevisto” del genere non si sarebbe più ripetuto.

2022-08-28

Aggiornamento

... stanno elaborando la copertina!!!!!!!!!!! Ci siamo quasi!!! ✨️🙏🤞🤞🤞🤞
2022-02-16

Aggiornamento

CI SIAMOOOOO!!! Abbiamo raggiunto le 200 copie, anzi 201 per la precisione!! Il mio racconto finalmente si trasformerà in un libro vero e le sue pagine potranno essere sfogliate, profumeranno di inchiostro e di carta e potremo tenerlo tra le mani e leggerlo con calma quando ne avremo voglia. Ho usato un NOI non tanto per fare, non come plurale Majestatis, ma proprio perché questo libro prende vita ,non tanto perché io l'ho scritto , quanto perché voi ci avete creduto! Quindi grazie infinite davvero. Ora il prossimo obiettivo è quello delle 250 copie, e poi le 400, ma sono traguardi complessi. Se ci arriveremo ben venga, altrimenti va benissimo così. Voi continuate a diffondere il titolo; vi anticipo che a fine mese forse ci sarà un codice sconto ... ma vi darò gli aggiornamenti quando sarà il momento. Per ora spero siate felici di aver contribuito a regalarmi una felicità immensa! Grazie ancora, all' "infinito".
2022-02-04

Aggiornamento

Ci stiamo avvicinando all'obiettivo. Restano all'incirca una ventina di copie o poco più... non posso che ringraziarvi ! Ovviamente potete continuare a fare passaparola alle vostre amiche ... magari qualcuna che si incuriosisce la trovate!!! ;)
2021-12-16

Aggiornamento

Siamo a poco meno del 50% dal raggiungimento dell'obiettivo delle 200 copie. Intanto Grazie mille a chi ha già contribuito a sostenere questo progetto. Non dimenticate che il passaparola è essenziale in questo momento, quindi se vi va... tempestate i vostri contatti con il link di questa campagna di crowdfunding 😉 e fatela conoscere il più possibile!!! Vi ringrazio in anticipo!

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Cara Melissa,
    Anzi cara piccoletta spero con tutto il cuore che tu possa raggiungere l’obiettivo e vedere realizzato il tuo sogno e sai perché? Perché hai un dono: con la tua scrittura fluida, dettagliata, piena di particolari racconti emozioni che ti arrivano al cuore e ti portano ad immedesimarti con i personaggi e a continuare a leggere sperando non finisca mai. Per non parlare dei momenti intimi dei protagonisti dove non sei mai volgare e fai venire la pelle d’oca e le farfalle allo stomaco. Non smettere di scrivere e non smettere di sognare! Un abbraccio enorme

  2. (proprietario verificato)

    Cara Melissa, la tua scrittura è fluida ,coinvolgente, capace di materializzare ciò che si legge, capace di emozionare e di trasportarti in un’altra dimensione ,lo si legge tutto d’un fiato e si sente quel pugno allo stomaco che solo una grande emozione sa dare.
    Solo una persona con ricchi sentimenti può descrivere una passione così.
    Ti auguro il meglio!

  3. Maria Delia

    (proprietario verificato)

    Ciao Melissa! Mi conosci con uno pseudonimo su Ig. Ti seguo da un po’ e quindi so perfettamente come e cosa condividi con noi tutte che amiamo “lui”… Il tuo modo di scrivere fa sì che i tuoi pensieri e la tua immaginazione si materializzino davanti ai nostri occhi. Hai un modo immediato e concreto di trasformare le parole e le immagini in realtà. Mi arrivi tutta in pieno cuore! Anche io amo scrivere e soprattutto leggere, quindi leggerti non può fare altro che arricchire il mio “patrimonio mentale”. Spero continuerai a deliziarci con i tuoi scritti, perché sono pura magia e spero che tu possa realizzare ogni tuo sogno. Dopotutto, il primo passo per realizzare un sogno è crederci anche quando si è ad occhi aperti! Ciao tesoruccia💙

  4. Monica Mazza

    (proprietario verificato)

    Carissima Melissa,il tuo” scritto” l’ho amato fin da subito.Ho amato il linguaggio così coinvolgente ma mai volgare,il tuo modo dettagliato di raccontare nei minimi particolari tutto ciò che Samia aveva intorno,tanto da sentire sul viso il vento del Bosforo.La pelle che si accapona, quando si leggono i passaggi così reali dell’intimità dei protagonisti,non ha eguali.Cosi’ come le lacrime che arrivano agli occhi quando si presume ci sia un addio…I complimenti sono scontati,hai un dono e nessuno può negarlo con le tue parole guarisci l’anima e questo te l’ho detto già diverso tempo fa.
    Buona vita a te!

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Melissa Gentili
Classe 1989, di Fabriano, laureata in Scienze dell’Educazione e della Formazione, lavora attualmente come educatrice. Lettrice occasionale, scrittrice per caso e amante dei tramonti, ha deciso di usare le loro sfumature per colorare le pagine de “L’infinito in un incontro”, suo romanzo d’esordio.
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