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Monologhi dall’aldiquà (e altri rovesci in terza persona)

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Quanto può essere malinconica un’esistenza?
Quanto ci si può sentire soli prima di sparire fra la gente?
È questa una galleria di ritratti di uomini intrappolati in una vita angusta e claustrofobica, un coro di monologhi in cui ciascuno canta con voce stonata la propria melodia. I personaggi, imprigionati nel loro monotono aldiquà, incrociano le loro solitudini, sfiorandosi senza mai vedersi realmente, e lasciando al lettore il compito di ricucire le proprie storie.

Poteva essere una rivoluzione

Quante volte si saranno sfiorati per le viuzze del grande paesino, incrociando passi frettolosi e preoccupazioni minute. Se i cattivi pensieri lasciassero delle scie, come aerei in avaria, la geografia del posto sarebbe un labirinto d’insoddisfazioni.
Nessuna uscita d’emergenza a incoraggiare un finale diverso.
Si sono incontrati tante volte senza mai vedersi, è capitato anche che si urtassero, sotto i portici deserti, nella luce sporca del mattino, proseguendo a testa bassa come soldatini caricati a molla. Ognuno perso nel proprio orizzonte interrotto, tutti alla pasticciata ricerca di qualche briciola di felicità, pure tiepida e già masticata. Di seconda bocca.
Non si sono mai visti né si vedranno mai, ora che il contorno delle cose si è sbavato e la loro scheggia di mondo s’è fatta ancora più incerta. Niente più lavoro a distrarre l’inquietudine e addormentare la rabbia, niente più soldi ad appesantire le tasche e zittire il ronzio.Continua a leggere
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Solo una volta si sono trovati fianco a fianco nello stesso spicchio di marciapiede, sotto la cupola disordinata degli ombrelli aperti, a un passo dal riconoscersi. È stato quando la maestra in pensione si è arrampicata fino alla grondaia – una figurina sfocata, battuta dalla pioggia – e per un largo istante dilatato tutti gli sguardi si sono interessati al suo destino dondolante.
Poteva essere una rivoluzione, è presto sbollita in un’alzata di spalle che ha riconsegnato ognuno alla propria scia d’aereo guasto. Si sono slacciati l’uno dall’altro che la vecchia ciondolava ormai con una mano, senza più ciabatte, indifferenti alla sua sorte con la stessa ostinazione che soltanto un istante prima li aveva appassionati al suo destino. Che cadesse pure, tanto che differenza avrebbe fatto per le loro vite? È finita in niente, senza che nessuno si preoccupasse di chiamare i soccorsi, confidando che a farlo fosse il vicino d’ombrello. Cancellando tutto nell’istante successivo. La vecchia, il suo destino dondolante, la pioggia e pure il vicino d’ombrello.
Il cassintegrato si scordò del trans, che cancellò la coppia stracciona con le mani allacciate, che dimenticò gli operai della fabbrica sul fiume, che voltarono le spalle ai fessi dell’azienda concorrente, che non si filarono più l’assassino per gioco, che rimosse il tizio in ribellione permanente contro il fantasma del padre, che ignorò il commesso unto con la luna al posto del sole.
Solo lui, il commesso unto con la luna al posto del sole, rimase inchiodato al marciapiede dall’incertezza del momento, ma si riscosse presto e anche lui tirò dritto lungo la sua strada. Proprio dritto no, zigzagando come un vagabondo aggrappato al suo carrello pieno di cianfrusaglie.
Neppure il tizio in ribellione permanente contro il fantasma del padre ebbe un moto di compassione, con tutto che abitava nello stesso palazzo della vecchia penzolante.
Sospesa nel vuoto del proprio scontento, la vecchia nemmeno li vide, i suoi spettatori.
Anche a volerne incollare assieme i coriandoli di vita, ne verrebbe fuori una mappa stropicciata, inservibile.
Andate in guerra, che per voi non ci sarà mai preghiera alcuna.
O forse no.
Forse il ronzio sveglierà una fame nuova, e l’inquietudine si addomesticherà nel desiderio di un’altra ripartenza.
Forse.

Mica facile (un altro, per favore)
Dicevano che era morto di lavoro, ché la fabbrica ne ammazza tanti ma la disperazione ne uccide di più. La fatica di cucire l’oggi al domani con il filo lento della rassegnazione, ché a cinquant’anni suonati, con la tegola del mutuo sulla testa e il peso della famiglia sulla groppa, la strada è tutta in salita. Mica facile. A cinquant’anni suonati sei troppo giovane per la pensione e troppo vecchio per riciclarti. Brutta parola, riciclarsi, come se fossimo rifiuti. E in quale contenitore lo butti un operaio senza più il suo posto al mondo? Nell’umido oppure nel secco? O magari nel vetro. Vite in frantumi. Forse nella plastica, tra le bottiglie schiacciate.
Vuoti a perdere.
All’inizio s’erano pure organizzati. Fischi, picchetti, baccano. Si andava ai cancelli della fabbrica chiusa per dare ancora una meta alle gambe allenate dalla sveglia. Misero in marcia qualche corteo, ogni volta un po’ più fiacco e sfilacciato. Non sapendo cosa farsene di tutta quella rabbia che li stava avvelenando, alla fine se la presero con il sindaco, abbaiandogli sotto le finestre del municipio, dicendo che non aveva battagliato abbastanza per difendere la loro dignità di lavoratori. Ma quando il padrone decide di chiuder bottega non ci sono santi. Quando si mette in testa di delocalizzare è già tardi. Brutta parola, delocalizzare, troppo fredda e marziale. Come fosse un gioco da tavolo. Tiro i dadi e attacco la Kamchatka. E quanti carrarmati vale un operaio?
Poi la rabbia s’era ossidata in rancore, che è pure peggio. Contro il padrone che se n’era scappato in Kamchatka, i compagni corrosi dallo stesso tormento, le mogli che se ne andavano a piangere nell’altra stanza, i figli con la loro colpevole giovinezza. Contro l’immagine riflessa dallo specchio del bagno. Ogni mattina più livida e storta.
Tempo sei settimane e ai cancelli della fabbrica chiusa non si presentò più nessuno, i passi deragliarono verso il bar della Licia. Se ne stavano tutti aggrappati al bancone a girare il cucchiaino all’infinito, finché il caffè si freddava e non potevano più berlo.
Un altro, per favore.

Oppure si lasciavano trascinare fra le aiuole del parco dai loro cani dai nomi banali – Bobby, Fido, Lilly – schiacciati dal sospetto che il guinzaglio fosse agganciato al polso e non al collo della bestia. Oppure spignattavano in cucina, sbagliando dosi e tempi di cottura. Oppure s’incantavano a interrogare i palmi delle mani ispessiti da tutti quegli anni di fabbrica, ma riuscivano a leggerci soltanto il passato. Il futuro era già colato via.
Così pure l’Arturo, che non era né meglio né peggio degli altri suoi compagni. Campava di cassa integrazione, caffè freddi e spaghetti scotti. Anche se.
Dicevano che era morto di lavoro, l’aveva scritto pure il giornale. In prima pagina, mica un francobollo annegato in quelle interne che non legge mai nessuno. Licenziato dalla fabbrica si butta nel Po, a caratteri cubitali. Ma tanto scrivono quello che vogliono. Che ne sanno dei cani che ti portano al guinzaglio e delle mogli che piangono nell’altra stanza?
La bicicletta l’aveva abbandonata sull’argine, con la patente infilata nel pedale sinistro. Com’era giovane in foto, l’Arturo. La maglietta e i pantaloni erano piegati con cura, pronti per l’armadio. Il corpo, però, non l’avevano mica trovato.
Dicevano che l’Arturo era morto di lavoro, ché a cinquant’anni suonati sei troppo giovane per la pensione e troppo vecchio per riciclarti. A cinquant’anni suonati chi ti prende più? Vero, però.
Una mattina di pioggia e fango spuntò pure una troupe della televisione, una tizia tanto truccata e molto nervosa infilò il microfono sotto il naso della Licia, che s’aggiustò la messa in piega con le mani sudate e riuscì a spremersi due lacrimucce di circostanza. Disse che l’Arturo era un padre di famiglia, con la sua tegola del mutuo e i figli da mandare all’università, un lavoratore onesto, tutto casa e fabbrica, qualche volta s’affacciava anche al bar, poche però, un povero cristo, insomma, come ce ne sono tanti in giro. Disse che la disperazione era una brutta compagna da portarsi appresso, che a cinquant’anni suonati non era facile rimettere assieme i cocci. Piagnucolò che il padrone della fabbrica aveva rovinato anche lei, ché quando pure la cassa integrazione sarebbe finita nessuno avrebbe più bevuto niente di niente, e chi l’avrebbe campata a lei? A quarant’anni appena accennati hai ancora tutta la vita davanti, ma con le macerie di un divorzio alle spalle e due figli piccoli da crescere è un tale casino. Imprecò contro i cinesi che si stavano comprando tutti i bar della zona e le rubavano i clienti, che se ne stessero a casa loro. Urlò contro i marocchini sempre ubriachi che le puntavano gli occhi addosso, tuffando lo sguardo nella scollatura, come se la cosa le facesse schifo. Ma il microfono era spento da un pezzo e la tizia con il rimmel sbavato aveva già deviato la sua attenzione altrove.
“Dramma della disperazione” sparò il tiggì della sera. Ma senza corpo niente funerale, e comunque la via per il paradiso è troppo stretta e accidentata per chi sceglie di ammazzarsi. Il prete, però, non rinunciò ad abbozzare la sua orazione tra i tavolini del bar. Rubò le parole a santa Teresa d’Avila per dire che la vita presente è una notte cattiva passata in un cattivo albergo. Ci mancò poco che i cassintegrati lo prendessero a schiaffi. Ci dormisse lui nelle loro case che non avrebbero mai finito di pagare.
Dicevano che l’Arturo era morto di lavoro, che quella mattina aveva messo troppo sale nel sugo e gli spaghetti gli erano venuti più scotti del solito, che uscendo di casa aveva incrociato lo sguardo nello specchio e aveva visto solo due orbite vuote, che nemmeno Fuffy voleva più portarlo a passeggio, che la moglie aveva finito tutte le lacrime, che tanto i figli non gli rivolgevano la parola quando ancora lavorava in fabbrica.
Dicevano che l’Arturo se l’era ingoiato il fiume, col suo scontento di piombo a fargli da zavorra, per questo l’acqua non l’aveva più risputato. Troppa pena, troppo pesante.
Così dicevano e così continuarono a dire per un paio di settimane, finché la storia dell’Arturo ingoiato e mai risputato non sbiadì in una fola di paese, una delle tante, e a parlarne facevano tutti spallucce, girando sempre il cucchiaino in tondo, aggrappati al bancone del bar come fosse un salvagente.
Un altro, per favore.

Così continuarono a raccontare dell’Arturo povero cristo – ma pure un po’ vigliacco, ché ci vuole più coraggio a rimanere che ad andarsene a quel modo – con un’intonazione svogliata, un intercalare meccanico. Finché una mattina sbatterono i passi contro la saracinesca della Licia. Sigillata. Se ne stettero un po’ ad aspettare, guardandosi la punta impolverata delle scarpe. Senza sapere cosa dire, sorridendo muti all’idea che, alla fine, pure la Licia avesse preso la sua rincorsa. Quindi allungarono la linea delle labbra in una smorfia obliqua e se ne andarono a bere il caffè.
Dai cinesi.

09 luglio 2019

Aggiornamento

Qui l'intervista realizzata con gli studenti dell'istituto Carlo d'arco - Isabella d'Este di Mantova: esperienza intensa, quella della radio, per chi lavora e si diverte con la parola scritta. Buon ascolto
15 maggio 2019

Evento

Camera del lavoro di Mantova, via Altobelli 5, ore 17.15 Quale luogo (concreto e simbolico) più appropriato della Cgil per raccontare di un testo costruito attorno al rapporto tra identità e lavoro? Igor Cipollina vi aspetta mercoledì 15 maggio alla Camera del lavoro di Mantova, in via Argentina Altobelli 5, per un’anteprima dei suoi “Monologhi dall’aldiquà (e altri rovesci in terza persona)” e per ragionare di diritti, precarietà, narrativa con il segretario della Cgil Daniele Soffiati. Camera del lavoro di Mantova
04 maggio 2019

evento

Sarà l’attrice Edvige Ciranna a dar voce all’umanità stropicciata che abita i Monologhi dall’aldiquà (e altri rovesci in terza persona) di Igor Cipollina. Sabato 4 maggio Igor parlerà del suo nuovo progetto al Cinema del Carbone di Mantova, in via Oberdan. Ispirati a spunti di cronaca, monologhi e racconti sono percorsi dal filo della precarietà. Il reading inizierà alle 17.30. Edvige Ciranna Monologhi dall’aldiquà

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Igor Cipollina
nato al Nord da genitori siciliani, ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza su e giù per l’Italia, sulla scia del padre impiegato di banca.
Oggi ha 44 anni e vive a Mantova, dove racconta storie e cronache cittadine per il quotidiano Gazzetta di Mantova. Giornalista professionista,
appassionato del proprio mestiere, ha cominciato a scrivere narrativa per
assecondare la fantasia: Monologhi dall’aldiquà è la sua quarta opera.
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