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Tutto questo non cambia niente

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Il razionale e cinico Roger Bell si ritrova a Versailles a inseguire la sfuggente Valentine Beyle. A nulla valgono le parole di Paul, che cerca continuamente di mettere in guardia l’amico dalla frivolezza di quella donna. Roger è testardo, vuole andare fino in fondo alle cose, convinto che l’apparenza celi sempre altro.

È proprio a Versailles, nel giardino di Palazzo Mancini, di fronte la statua dello stravagante Pan, che un mellifluo personaggio fa per la prima volta la sua apparizione: il conte Nikolai Vsevolodovich Rask’olnikov, accompagnato da un inquietante assistente, Malfidato. Il conte sogghigna, ridacchia, sembra conoscere i pensieri di Roger, i suoi desideri… Vuole solo che lui accetti il suo dono, e per farlo userà tutta la persuasione di cui è capace.

1. BRUXELLES BRUSSELAIT

È ora di farla finita con tutte queste idee esaltate, bisogna tornare alla ragione. Tutto questo, l’estero e tutta questa vostra Europa, non è altro che una chimera… si rammenti delle mie parole, e se ne accorgerà lei stesso! (Fëdor Dostoevskij, L’idiota)

Ho sempre vissuto ogni giorno meravigliandomi dell’incredibile fortuna dell’essere vivi. Non nel senso che l’essere vivi sia una fortuna di per sé. Sentiamo sempre questo bisogno impellente di ringraziare qualcuno per il semplice fatto di averci donato la vita. Persino da atei ci sentiremmo in colpa a dire che la vita in sé non sia una fortuna. “La vita è un dono.” Ma chi l’ha detto? Vallo a spiegare a un bimbo birmano la fortuna che ha…

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  Riformulo: ho sempre vissuto ogni giorno meravigliandomi dell’incredibile sorte dell’essere vivi. E coscienti di esserlo. Quante possibilità c’erano di nascere? Non solo: di nascere dove siamo nati. Con le possibilità che abbiamo avuto. Nella specie senziente e dominante della Terra. Sulla Terra, per quel che conta. Quante possibilità? Tessi, tessitore del vento… E la gente che ha del tempo da perdere si chiede perché. Non l’ho mai capito. Perché, perché? È tutto così patentemente casuale che è ovvio che non ci sia alcun filo da seguire. Nessun filo. Siamo nel Labirinto, e un muro sottile ci divide dalla Bestia. Una svolta mistica… Ma poi, io so come dimostrare l’inesistenza di questo mitico “perché”. Siamo così rumorosi. Così R-U-M-O-R-O-S-I. Dovunque andiamo, qualunque cosa facciamo. Conquistiamo il mondo con i rumori. E cosa mandiamo in orbita? Suoni. Discorsi. Canzoni. Per carità, mandiamo anche i Beatles, certo. Ma Dio, è comunque suono, rumore. Una specie così non potrà mai dimostrarmi di avere un perché. Deve essere un prodotto del caso. Il caso non ha colpe. Ma Dio non ha meriti… E quelli di Occupy, composto da giovani occidentali in rivolta, vadano dal piccolo birmano a dire un: “Noi siamo il 99%”. Chissà dove li inviterebbe a mettere il loro percento, lui. Provate a pensare l’impensabile. D’altronde è un falso problema. Quello della nostra sorte, dico. Ce ne rendiamo conto solo perché siamo in grado di farlo. È una tautologia. Se fossimo stati lumache, o se non fossimo esistiti, non ce ne saremmo mai accorti. E dire la sorte diventa come dire: “È successo perché è successo”. Ecco il vostro “perché”. Forse facciamo tanto rumore per ricordarci che esistiamo: ce ne dimentichiamo così facilmente, dopotutto… «Spero vivamente che tu la pianti con questa storia, Roger.» «Ma perché? Stiamo conversando, no? Stiamo avendo una civile discussione e io ti sto semplicemente esponendo il mio punto di vista.» «Roger…» «Cosa? Ti sto solo spiegando perché Dio non esiste, ecco tutto.» «Non stiamo avendo una civile discussione. Stai facendo un monologo; un monologo che ho, peraltro, già sentito. Il mio punto di vista è un altro…»

1. Bruxelles brusselait

«Ma io non ti sto trascinando. Le parole sono importanti. Ti ho mai raccontato di quel cardinale, mi sembra che fosse di Lisbona, o di Bogotà, comunque si trovava a Roma…» «Me l’hai già raccontato, Roger. Più volte. E non sei mai arrivato al punto. Non ci arrivi mai. Come adesso, con questa storia su Dio…» «Non è una storia su Dio. È una teoria. Cristo, Paul, ma come le scegli le parole?» «Roger.» «Cosa?» «Stavamo parlando di tutt’altro.» In effetti, stavano parlando di tutt’altro. Non di qualcosa di estremamente rilevante, ma è pur vero che spesso sono le questioni meno importanti quelle più difficili da discutere. Roger allungò le gambe sotto al tavolo, fece un sospiro e si rese conto di non poter continuare a evitare il discorso. «Paul,» disse dopo una pausa circospetta «come ben sai, non festeggio la Pasqua, nemmeno quando la Settimana Santa» e circonflesse il “Santa” con molta attenzione «cade durante le vacanze di primavera. Non verrò a Bruges dalla tua famiglia, ma grazie mille.» Paul fissò i suoi occhi chiari e placidi in quelli di Roger, neri e sfuggenti. «Mettici un po’ più di impegno, Roger» disse infine. «Inventa una scusa, di’ che hai un meeting, un parente, qualcosa. Altrimenti» e a quel punto si alzò, si lisciò i pantaloni del completo e lasciò andare un sorriso storto «dovremo pensare che non parti a causa di Valentine.» Valentine! Roger ebbe un sussulto d’orgoglio. «Non dire sciocchezze, Paul» sibilò, punto sul vivo. Paul non fu scosso dallo sguardo infuocato di Roger. I suoi erano sempre deboli lampi, gli occhi gli si accendevano d’improvviso, credendo di essere stati sfidati a morte; ma poi la sua razionalità interveniva, s’adoperava, e la fiamma s’estingueva. «Devo dunque comprendere» rispose Paul, evidentemente divertito «che Valentine Beyle non ti ha fatto alcuna promessa? 18 Non ti ha fatto balenare nulla durante uno degli ultimi» i suoi occhi ebbero un guizzo da gatto «caffè platonici?» «Sei molto elegante, tu» disse Roger, allungandosi sulla sedia, ormai non più sulla difensiva. Il nemico aveva chiaramente vinto, a che pro innervosirsi? «Apprezzo soprattutto i tuoi fini sottintesi.» «Li ho provati i sottintesi» rimarcò Paul, abbandonando sedia e tavolo con un solo, fluido movimento permesso dalla sua magrezza quasi eterea e dai suoi due metri d’altezza. «Ma in questo modo ti renderei la vita facile: faresti semplicemente finta di non coglierli.» Gli lasciò una banconota da cinque euro sul tavolaccio. Il Pantin, un bar glorioso per la sua pretesa brussellese, sembrava far vanto di quei tavoli larghi, rovinati, nodosi, rigati, robusti, quasi fossero una metafora della città stessa. Paul afferrò la maniglia della porta e fece un respiro, prima di tuffarsi nella calca di Flagey. Roger sentì arrivare un’ultima folata di paternalismo, mentre la porta si chiudeva. «Pensaci, Roger. Non aspettare la Beyle.» Roger ebbe il subitaneo bisogno di massaggiarsi le tempie, e perse lo sguardo tra le innumerevoli bottiglie di liquore appese dietro al bancone del bar.

* * *

Ma insomma, chi era Valentine Beyle? Dicevano che Valentine Beyle fosse un fuoco fatuo. Un’illusione, un sogno. Mentre Roger compiva vent’anni, una decina d’anni prima, Valentine Beyle, a Parigi, era già un nome famoso. Figlia dell’aristocrazia repubblicana francese, Valentine era esattamente ciò che la sua famiglia si aspettava che fosse: una sofisticata causeuse, una il cui cerchio sociale era allo stesso tempo molto accessibile ed estremamente selezionato. Suo nonno era stato ministro gollista della seconda ora, ministro di Pompidou, a sua volta copia inesatta di qualcuno più 1. Bruxelles brusselait Tutto questo non cambia niente 19 grande di lui. E dunque suo nonno, il ministro, aveva intravisto in gioventù la possibilità di essere molto migliore del suo presidente, oppure di restare mediocre. Una scelta comune a tutte le copie. Dopo qualche anno di indecisione, aveva scelto la seconda opzione. Valentine era famosa, ma nessuno sapeva bene il perché; era l’ultima di una stirpe che era stata celebre e persino utile: quella delle organizzatrici di salotti. Ma che ora, nel ventunesimo secolo, era ormai quasi prosciugata di significato. Quando le élites francesi dovettero finalmente accettare il fatto che il centro dell’Europa non era più Parigi e che la Grandeur avrebbe dovuto attendere un altro de Gaulle, o un altro Napoleone, per diventare finalmente realtà, la famiglia di Valentine spostò il suo salotto a Bruxelles. Più stranieri, più politici, più industriali, più filosofi, più banchieri, più uomini soli le cui mogli aspettavano il week-end in luoghi meno grigi di Bruxelles, magari, ecco, a Parigi… Più burocrati, più lobbisti, più Europa. A modo suo, Mademoiselle Beyle amava l’Europa, dicevano. A Parigi il problema era sempre stato la concorrenza: l’intera città traboccava di frivolezza. A Bruxelles, invece, chiunque sentisse il bisogno di annegare la propria serietà cercava in tutti i modi di procurarsi un invito per il salotto di Mademoiselle Beyle, in una grande maison de maître seduta a sud della città. E il salotto di Mademoiselle Beyle non aveva nulla da invidiare ai fastosi salotti del passato di Madame de Staël o di George Sand per la clamorosa inutilità di tutto ciò che di materiale circondava i ricchi, colti e potenti ospiti. Ma per quanto riguardava l’immateriale, e cioè le idee, le parole, le volontà, dicevano che il salotto della Beyle rimbombasse per il silenzio, al netto delle sciocchezze. Sembrava che chiunque varcasse la soglia di quel palazzo si riflettesse in quegli specchi Secondo Impero, o adoperasse l’argenteria giapponese del periodo Tokugawa per assaggiare delicatezze adagiate in piatti in ceramica Ming… Chiunque frequentasse quel salotto, per quanto colto, ben intenzionato, intelligente, per quanto fosse perfettamente adatto a partecipare a un salotto di ben altro livello, era come se firmasse, una volta entrato a Palazzo Beyle, un contratto vincolante: “Faccio voto assoluto e irrevocabile di frivolezza”. E proprio come il suo palazzo, dicevano, anche Mademoiselle Beyle era frivola. “Ma come, Roger?” sussurravano spesso tra loro gli invitati, con plastica sorpresa. Roger lo spartiate, il cinico; Roger l’Uticense, come lo avevano soprannominato i suoi colleghi universitari a Oxford. Roger Bell da Basingstoke, Hampshire County, “cosa aveva da spartire con il salotto di Mademoiselle Beyle?” si chiedevano a bassa voce. Nulla, si rispondevano sicuri. Non dicono forse che è così che accade? Meno si ha a che fare con qualcosa, con qualcuno, e più quel qualcosa, quel qualcuno, ci attrae. È la stella della possibilità che ci chiama da lontano? Senti l’alternativa urlarti parole impastate e ovattate dalla distanza. Potresti essere stato qualcun altro? Potresti aver avuto qualcos’altro? Le tue scelte, il caso, ti hanno perduto? O piuttosto salvato? Chi è che diceva: “Presenta a chiunque l’incredibile assortimento di casi che lo hanno portato a essere ciò che è, ad avere ciò che ha, e questo chiunque sentirà il terreno tremargli sotto i piedi”? Il mondo non vuole che percepiamo quest’oceano di alternative, abbiamo quindi accesso soltanto a un’infima porzione di esse. Ma rispondere a quella stella che ci chiama da lontano non è mai una buona idea. Quel qualcosa non si è dato. Se non si è dato, la somma di tutte le cause, visibili e invisibili, ha determinato che esso non potesse essere. Solo il presente è davvero possibile. Il passato era presente. Il futuro non esiste, ed esiste a ogni momento. Determinismo? “Ma no” avrebbe risposto Roger. Non è altro che la presa d’atto che qualcosa, senza alcun motivo, si è verificato. Il caso precede il determinismo. Curioso: Roger avrebbe potuto non esistere affatto, e nessuno se ne sarebbe accorto; la sua esistenza, se non fosse esistito, non sarebbe mai stata davvero possibile. Ed era la sua condizione d’assoluta, necessaria contingenza che lo faceva respirare meglio di tanti altri: perché Roger pensava che se veramente la sua esistenza non aveva alcun motivo, allora non c’era alcun destino scritto per lui. E tanto più libero s’era sentito la prima volta che se n’era reso conto! Comunque, se Roger un giorno varcò il portone di Palazzo Beyle, un motivo, pur contingente, ci sarà stato. Lui, personalmente, se n’era dimenticato. Ricordava solo una cosa. Una donna stupenda, dicevano. Ma lui l’aveva vista per quello che era. Una persona straordinaria, gli sembrò di notare, e complessa. “Una gran causeuse” chiosavano, ma Roger vide altro. Un ricordo silenzioso gli rimbombava nella mente. E Valentine queste cose le riconosceva al volo. E poi Roger era un tipo interessante. Gli era affezionata. A modo suo, così dicevano, e soffocavano un risolino. Sempre a modo suo. Ora, noi potremmo anche dilungarci ulteriormente sulla questione. Potremmo persino prendere due parti diverse. Quella classica, che vuole Roger nel ruolo della vittima un po’ imbecille nelle mani di una donna più esperta e più intelligente di lui nello champ de bataille che è la vita, come si direbbe a Palazzo Beyle, ed è così che perlopiù valutavano la situazione; oppure una versione moderna: Valentine non obbligava nessuno a seguirla dovunque volesse andare; non obbligava nessuno a farsi trattare da cicisbeo in pubblico e a sopportare ogni genere di sgarbo al suo voluto, cercato, trovato ruolo da accompagnatore. Roger e Valentine non erano una coppia. Roger compiva tutti i giorni la scelta di essere umiliato, dicevano. Valentine non gli procurava solo umiliazioni, dicevano. Qualunque senso troviate nell’ultima frase “è il senso giusto” direbbero e ammiccherebbero. “Potremmo anche prendere in considerazione altre possibilità,” ammettevano “ma con quali dettagli?” Né Roger né Valentine parlavano della loro relazione, mai. Le possibili alternative andavano, purtroppo, messe da parte. O così dicevano. Per quanto lo riguardava, Roger riteneva di aver capito molto bene il suo ruolo al fianco di Valentine. Ne soffriva? Probabilmente. Lo dava a vedere? Quando gli conveniva. Ma il sentimento, quello, era autentico, sincero. Roger credeva davvero che Valentine lo avrebbe chiamato, che gli avrebbe proposto di andare con lei da qualche parte per le vacanze? Improbabile. Tant’è che aveva deciso autonomamente che per la Settimana Santa (circonflessa, ancora) sarebbe rimasto a casa, a Bruxelles, nel suo appartamento di Etterbeek.

* * *

Ma il caso, il caso. Il caso, sarà tautologico, eppure giova ricordarlo, è sempre all’opera, alla forgia dell’avvenire. E quando Roger uscì dal Pantin, fu il caso, e non lui, a decidere di non prendere il tram 81 verso casa, Etterbeek, ma quello in direzione della Gare du Midi. L’idea era: Voglio vedere un po’ di facce bizzarre. Era il suo modo di rilassarsi: prendere l’81, arrivare a Midi; bastava quella mezz’ora per dar modo a Bruxelles di scatenare quel caravanserraglio di bizzarrie di cui è capace e per cui è rinomata, più delle patatine fritte. L’81! Quel ferrovecchio che arranca sui binari, che non dovrebbe stare in piedi eppure sferraglia, un po’ in ritardo, ma arriva, arriva, e con il suo carico di umanità comune e peculiare. Un po’ come Bruxelles, l’81 è un’esperienza, anzi, un esperimento sui tipi umani, stress test per i nervi e titillamento continuo per il cervello. Quante cose da notare, quante cose da pensare, quanti sobbalzi dovuti a grida improvvise, quanti contatti fisici non richiesti, quanti odori, eppure, di nuovo, quante cose su cui riflettere! L’idea che Roger aveva della città era di un grande tram 81 che sferragliava per l’Europa (era il tram che passava per il continente, non il contrario!). E prendeva l’81, ogni volta che poteva, per lo stesso motivo per cui abitava a Bruxelles: l’aria lo esilarava e la complessa imperfezione di entrambi, tram e città, lo affascinava. Roger si fece largo tra la calca, e appoggiò pesantemente la schiena alla parete metallica del tram. E lo spettacolo non fu poi malaccio. Si limitò a raggomitolarsi in un angolo. In mezz’ora ascoltò due diverbi, tre conversazioni imbarazzate (due in inglese), una conversazione spinta, due dialoghi sdolcinati e una parte di un gossip su di un pezzo grosso della Commissione europea; due barboni fecero il vuoto intorno e risero in faccia a un ragazzo dal volto teso che s’era alzato a far loro posto; e poi: sei barbe bizzarre, otto nei facciali troppo grossi, due piercing che sicuramente avevano fatto male; due T-shirt offensive, sette odori nauseabondi (ma due buoni profumi); cinque cartocci di patatine fritte, un kebab, quindici cravatte, due camicie aperte, uno spintone, tredici strette di mano, venticinque baci sulla guancia e quattro abbracci; sei blasfemie, un’ottima idea, due buone idee, una teoria del complotto, quattro notizie che sapeva essere false, due che doveva controllare e un’idea lasciata a metà; tre considerazioni razziste, una raccomandazione per due ristoranti e una proposta di viaggio in Bhutan. E questo solo nelle lingue che poteva capire. Roger non aveva aperto bocca, né s’era mosso nel frattempo. Era sempre lì, nel suo cantuccio, che ascoltava e osservava, affascinato. La Gare du Midi gli balzò addosso senza preavviso, e lui meccanicamente scese dal tram ed entrò nella stazione. Non era in programma, ma quando se ne rese conto si disse che tanto valeva dare un’occhiata ai giornali. Quando trovò l’edicola chiusa, solo una parte di lui si soffermò a inveire contro l’illogicità degli orari d’apertura dei negozi a Bruxelles. Un’altra parte più consistente considerò brevemente il tabellone delle partenze; un’idea gli affiorò alla mente, ma Roger la scansò con un sorriso. Un’altra cosa che gli piaceva della città era la galleria centrale della Gare du Midi; non gli altri tunnel, vuoti, sporchi e color crema. Quei tunnel lo facevano sempre sentire troppo grande e impacciato, i suoi piedi rimbombavano sgradevoli, e poi si potevano attraversare solo di fretta, a disagio… La galleria centrale, d’altra parte, non era affatto più pulita, ma era più ampia, più affollata, più viva. Troppa gente lo avrebbe infastidito; la galleria centrale della Gare du Midi, invece, era affollata il giusto. C’era un chiacchiericcio costante, ma non del vero e proprio chiasso; e andarci quando non si doveva partire, e non si era perciò distratti da quella scommessa su se stessi che è la partenza, lasciava tutto il tempo di assaporare il luogo. A Roger non piaceva interfacciarsi con la gente, socializzare, chiacchierare, insomma, nulla di tutto ciò. Dalle sue conoscenze si inferiva, di conseguenza, che a Roger non piacesse “la vita”, in quel senso diminutivo che diamo a uno dei tanti modi a disposizione per viverla. Ma non era vero: a Roger piaceva osservare, rifletterci su, e persino mescolarcisi, passivamente, certo. Si sorprese a pensare a quanto apprezzasse quel momento, in quel preciso luogo, a quanto fosse bizzarro che lo rilassasse, e infine a quanto piacere gli desse il fatto di apprezzare sinceramente un posto detestato dalla maggioranza della popolazione. Non aveva pensato nemmeno per un attimo alla Settimana Santa, né se sarebbe andato a Bruges. Non ci sarebbe andato, tanto; un po’ perché sperava davvero in Valentine, un po’ perché sapeva che Valentine sarebbe stata impegnata a tenere alto il suo cognome da qualche altra parte, e che lui avrebbe finito per passare il week-end in qualche jazz bar a bere qualcosa. Sempre che i jazz bar rimanessero aperti, in questa cattolicissima città… Alla menzione di “cattolicissima”, il subconscio di Roger lo risvegliò dall’interessata apatia che lo aveva bloccato, chissà per quanto tempo, seduto sull’ultimo scalino di una delle rampe che davano sulla galleria centrale. Roger sollevò il capo, ignorò lo sguardo penetrante di uno dei militari che pattugliavano la stazione, e vide Valentine. Il suo cuore perse un battito. Percepì chiaramente l’alterità della sua mente rispetto al suo corpo. Lo sdoppiamento durò una frazione di secondo, Valentine balenò nei suoi occhi con strana nitidezza, mentre il resto appariva sfocato: il suo bagaglio, il suo cappellino rosso, l’uomo che era al suo fianco… Roger tentò di scuotersi, di alzarsi in piedi. Un’ondata di freddo lo pervase, finalmente si scosse, si alzò. Valentine era quasi fuori dal suo campo visivo. I due trotterellavano felici nel corridoio dedicato ai Thalys, i treni per la Francia, per Parigi. Roger fece per gridare il nome di lei, ma si trattenne per tempo. Aveva quasi corso per raggiungerli, ma gli sguardi nervosi di un paio di soldati lo avevano calmato. Seguì Valentine e quell’uomo, uno spilungone dal collo fine, la faccia lunga e gli occhiali di corno, fino alle scale mobili che portavano al loro binario. Parigi, partenza tra venti minuti. Poteva darsi che lei stesse accompagnando un amico d’infanzia, o forse un cugino, a prendere il treno. No, avevano entrambi una valigia. Magari era suo cugino, comunque. Ma no, visto come lei gli accarezzava il braccio? Roger produsse altri scenari improbabili, mentre fissava attonito le scale mobili portare altri viaggiatori al binario di Valentine e dell’occhialuto spilungone. Appoggiato a una colonna, a malapena sbatteva le palpebre. A volte, le coincidenze… rifletteva. Con il cuore più pesante rispetto a pochi minuti prima, Roger si avviò verso l’uscita della stazione. Midi gli sembrava fredda, ora; affollata, rumorosa. Fissava a terra mentre muoveva i piedi, pesanti anch’essi, e cercava di pensare a un piano per la serata, qualcosa che lo distraesse dallo scherzo che la vita gli aveva appena giocato. Anzi: lo scherzo prevedibile che Valentine gli aveva appena giocato. La vita non è un soggetto, rifletteva, non esiste al di fuori di noi. Quello che ci accade è causato da persone come noi: da noi stessi, per esempio, o da altri, come Valentine. A dire la verità, non era il primo scherzo che lei gli faceva. Roger aveva quasi raggiunto l’uscita, e i raggi tiepidi di un sole mezzo calante gli giocavano sul viso, moltiplicati dai vetri della stazione e del grattacielo di Midi, dall’altra parte della piazza antistante. Rallentò, pensò: A dire la verità? Non vuol dire niente. Non vuol dire niente quando lo si dice a qualcun altro, vuole dire ancora meno quando parlo con me stesso. Sembra quasi che ci si costringa a dire la verità, a dire la verità, cioè, se proprio devo, eh, io ne farei anche a meno… No. Io strinsi un patto con me stesso, tempo fa. Questo si disse Roger, in un crescendo. Alzò persino la testa, i raggi del sole lo colpirono in volto. Il meno possibile agli altri, tutta la verità a me stesso. Niente veli, niente inganni. Roger riprese a camminare, e uscì sulla piazza. E la verità è che lei mi beffa sempre, e io lo so ma non mi scuoto. E un’altra verità è che invece mi farebbe bene scuotermi. E un’altra verità ancora, concluse trionfante è che questa è la verità senza filtri, la verità che impongo a me stesso, senza mediazioni, senza trucchetti. Roger era un po’ più soddisfatto, ora. Svoltò un angolo e notò una scritta: TOUTE VERITÉ EST NEGOCIABLE “Ogni verità è negoziabile.” La scritta era stata disegnata sul muro con uno stencil, e spiccava nera sullo sfondo grigio sporco. Le lettere spigolose sembravano offrirgli dei sorrisi sbilenchi. Roger s’arrestò di botto. Tirò le labbra in una smorfia obliqua, una mano sulla tempia. A volte, le coincidenze…

22 novembre 2018

Aggiornamento

Care tutte e cari tutti,

Grazie a voi, Tutto questo non cambia niente ha raggiunto il suo obiettivo e sarà pubblicato nel 2019!

Avrei bisogno di qualche ora per rendermi conto del significato di questa notizia e per poi riprendermi... Per il momento posso solo ringraziarvi - senza il vostro sostegno, è evidente, questo non sarebbe stato possibile! Dunque, mille volte grazie!

Ma non è finita qui: la campagna sarà ancora attiva fino all'8 febbraio 2019. La seconda fase ("overgoal") avrà l'obiettivo di vendere altre 100 copie. In caso di successo, "un ufficio stampa curerà la visibilità sulla stampa tradizionale e su quella online. Un promotore professionale proporrà il libro ai librai, una strategia dedicata di marketing online consiglierà il libro a nuovi potenziali lettori." (cito dal sito di Bookabook)

Ora che avete dato una casa fisica a Roger, Valentine, Paul, e al mondo di Tutto questo non cambia niente, potete promuoverlo ad altri conoscenti, amici, parenti!

Questo fine settimana, tra l'altro, bookabook ha lanciato uno sconto del 50% sull'intero catalogo e tutte le campagne - quindi vi consiglio di approfittarne!
Grazie, grazie, infinitamente grazie! :D
30 ottobre 2018

Vulcano – Giornale studentesco dell’Università Statale di Milano

La rivista degli studenti universitari della Statale di Milano mi ha fatto una bella intervista (grazie, Alice!). Tra le righe anche alcuni dettagli sul romanzo e qualche riflessione sui nuovi modi di fare editoria! La trovate a questo link.    
29 ottobre 2018

Aggiornamento

Care tutte e cari tutti,

A un mese dall'inizio della campagna, abbiamo raggiunto il 71% delle prevendite! Vi ringrazio per il sostegno, sono davvero colpito.

Bisogna fare ancora un piccolo sforzo per dare ulteriore vita a questa storia e ai suoi personaggi: abbiamo 72 copie da vendere in 72 giorni. L'obiettivo è vicino, ma ho bisogno ancora di voi: spargete la voce, e ricordatelo personalmente ai vostri amici e amiche, se potete!

Da parte di Roger, Valentine, Paul, e gli altri personaggi della mia storia: grazie, grazie, grazie!
15 ottobre 2018

Aggiornamento

Care tutte e cari tutti,

Abbiamo raggiunto il 50% in meno di due settimane!

Questa è una gran bella notizia, ma ora si passa alla seconda fase della campagna, forse quella più difficile: replicare lo sforzo fatto finora! Abbiamo 86 giorni per raccogliere 122 pre-ordini.

E dunque: diffondete, diffondete, diffondete!

E grazie, grazie, grazie ancora.
03 ottobre 2018

Aggiornamento

Care tutte e cari tutti,

Sono stato travolto dalla quantità e dalla qualità del vostro sostegno! La campagna ha fatto una partenza fulminante, abbiamo toccato il 30% in 48 ore! Posso solo lasciarvi immaginare l'immensa gratitudine per la fiducia dimostratami.
Abbiamo passato (di gran lunga) la quota sessanta copie pre-ordinate - qualunque cosa succeda, questo vuol dire che chi ha pre-ordinato una copia la riceverà anche in caso di fallimento del crowdfunding.
Ma ovviamente non finisce qui: abbiamo 97 giorni per completare il crowdfunding, e nonostante le ottime premesse la strada è ancora lunga! Il lavoro non è finito: fate girare, fate girare, fate girare!

Grazie mille, grazie ancora!

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Francesco Scatigna
FRANCESCO SCATIGNA, nato nel 1988, ha vissuto in diversi Paesi europei prima di stabilirsi a Bruxelles, dove vive tuttora con moglie e figlia. È con- sulente in Affari Europei e Capo Ricerca in un’agenzia di consulenza e Tutto questo non cambia niente è il suo primo romanzo.
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