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Non c’è tempo per un tango

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Giovanni e Blanca si conoscono alla fine degli anni Settanta a New York. Lui è un giovane ingegnere italiano volato oltreoceano per perfezionare il suo inglese; lei un’affascinante e misteriosa ragazza che parla spagnolo. Si innamorano subito, ma qualcosa impedisce alla relazione di proseguire. Alcuni mesi dopo lei compare a sorpresa a Milano per rivedere Giovanni e in quella occasione gli confessa di essere un’argentina impegnata politicamente contro la dittatura militare nel suo Paese. Nonostante la gioia di essersi ritrovati, Blanca sparisce ancora una volta. Quarant’anni dopo, Giovanni, ormai pensionato, decide di intraprendere un viaggio in Argentina, all’avventura e senza la moglie Caterina. È a Buenos Aires che casualmente rivede Blanca e da quel momento niente sarà più come prima.

CAPITOLO UNO

New York, ottobre 1977

Forse non avrebbe mai conosciuto Jack, la casa di mattoni rossi a Chelsea, Blanca e il suo fastidio per le domande. Non avrebbe scoperto come è duro, perfino insopportabile talvolta, attraversare New York durante una tormenta di neve.

Non sarebbe successo nulla, se non fosse statoper Al Pacino.

«Ricordati: domani mattina alle dieci all’angolo della Grant’s Tomb sulla Riverside Drive, chiedi di Jack.»

Fred era entrato nella stanza di furia, senza bussare. Faceva sempre così.

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Era quasi mezzanotte, Giovanni era a letto, ma non stavadormendo, stava studiando per l’esame di fine corso. Aveva passato tre mesi a perfezionare l’inglese e fra due sarebbe tornato in Italia, per salutare i suoi, svuotare l’armadio della sua camera, andare a vivere da solo e cominciare. Finalmente. Lo aspettava il nuovo incarico in una multinazionale, dopo un anno da ricercatore all’università.Fred era il suo vicino di camera in quel college per studenti stranieri sulla Riverside Drive, vicino alla Columbia University. Il suo nome in realtà era Alfredo. Era arrivato da Lecce per una vacanza di studio ed era riuscito a fermarsi inventandosi un sacco di lavoretti. Preferiva farsi chiamare Fred, faceva più americano. Il regolamento del college appeso dietro la porta di ogni stanza era perentorio: non erano permessi soggiorni più lunghi di un anno. Lui erano tre anni che ci abitava, chissà come aveva fatto. Era riuscito ad attrezzare la sua camera come un vero appartamento, era in grado perfino di farsi da mangiare e organizzare cenette romantiche grazie a un fornello elettrico che aveva introdotto furtivamente: anche quello era proibito dal regolamento.

«Vedi di presentarti presto domattina,» aveva insistito Fred «c’è bisogno di comparse, pare debbano girare delle scene qui vicino all’università, in un film con AlPacino.»

«Sì, ho messo la sveglia. Vedi di metterla anche tu, domani è il giorno della disinfestazione contro gli scarafaggi, dobbiamo essere fuori prima delle nove, devono sigillare tutto e non si può rientrare fino alla sera.»

«Che rottura, sempre d’inverno la fanno. L’ultima volta ho dovuto fare un mezzo trasloco, portare via il fornello e tutta la roba da mangiare. Dieci ore dopo la disinfestazione, quando sono rientrato in camera, sai cosa c’era sul muro? Uno scarafaggio che camminava. Gli ho detto: “Bravo fratello, ti sei guadagnato il diritto alla sopravvivenza, trovati un buco dove infilarti e vediamo di non darci fastidio”. Va be’, vado a preparare. Mi raccomando, non arrivare in ritardo. Presentati da Jack. È un mio amico, gli ho dato il tuo nome,vai qualche minuto prima, altrimenti trovi la coda. Ricordati di dirgli che ti mando io. E acqua in bocca, qui dentro. Con la storia della disinfestazione ci sarà in giro un sacco di gente domattina: se si viene a sapere che si può rimediare qualche dollaro a far niente, trovi più fila che per una finale del Super Bowl. Notte.»

Alle nove e mezza una ventina di persone stava già aspettando davanti a un camper sulla cui porta c’era un cartello adesivo con un nome, Jack. Fred era stato di parola. Quando arrivò il turno di Giovanni, Jack mostrò di conoscerlo. Gli spiegò cosa avrebbe dovuto fare e aggiunse: «Non sarai solo. Ti procuro una ragazza, mi serve una coppia». Si voltò verso una lungagnona tra le persone che aveva già selezionato.

«Tu, vieni qui.»

La ragazza stava parlando con uno, o forse dormiva ancora e non aveva sentito. In ogni caso non fu pronta a rispondere. A farsi avanti fu una brunetta: «Io?».

«Va bene, vieni tu, è uguale. Le presentazioni ve le fate dopo… Adesso lui ti dice cosa dovete fare, ok? Avanti, a chi tocca?»

E riprese a fare la conta tra le persone in fila. Si era già dimenticato di loro.

«Hallo.»

«Hi.»

«Per favore puoi parlare lentamente? My english no es muy bueno.»

«Es latina?»

«No, soy española.»

«De dónde eres?»

«De Cordoba.»

«Ah,vivi in Andalusia.»

«Vivo a Barcellona, ero a Cordoba prima di partire per venire qui.»

«Se vuoi possiamo parlare spagnolo. Mi arrangio un po’.»

«Gracias. Cosa dobbiamo fare?»

«Siamo una coppia che sta attraversando la strada mentre Al Pacino esce dall’auto. Si metterà a urlare verso una persona, ci voltiamo come se avesse chiamato uno di noi, poi riprendiamo il cammino sull’altro marciapiedi.»

«Non sembra complicato. A che ora si comincia?»

«Jack ha detto che si dovrebbe iniziare con le riprese intorno alle undici, ha raccomandato di non andare in giro.»

«Sì, lo ha detto anche a me, ma ahora necesito un café.»

«Ti accompagno, ma facciamo presto. Come ti chiami?»

«Blanca. Blanca Martinez. E tu?»

«Giovanni. Sono italiano, sto qui vicino, alla Columbia.»

«Allora possiamo parlare un po’ anche di italiano. Il mio primo cognome è Modigliani. Mio padre era di origine italiana, come te.»

«Era?»

«Sì, è morto quando ero piccola. Un incidente d’auto.»

«Mi dispiace.»

«Perché ti dispiace? Non sai neanche chi era.»

La risposta era stata secca, scostante. Decise di non replicare. La sua era stata un’espressione di cortesia, a lei forse aveva dato fastidio proprio questo. Non c’era motivo di mettersi a fare il permaloso. Entrarono in un coffee shop, ordinarono due istant coffeee tornarono verso il punto di ritrovo.

«Ho saputo di questo lavoro da un mio amico, è stato lui a dirmi di venire qui. E tu, come hai fatto a sapere che servivano comparse? Lo fai abitualmente o anche per te è la prima volta?»

«Fai sempre due domande alla volta, tu?»

«Sì,» Giovanni sorrise «è che a me in genere piace più ascoltare che parlare.»

«Strano, per un italiano.»

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Commenti

  1. Non c’è tempo per un tango è una storia d’amore con due inizi, una fine e, in mezzo, nessuno sviluppo ma un vuoto di quarant’anni. Non c’è soltanto questo, non ci sono solo Blanca e Giovanni con la loro promessa mantenuta fuori tempo massimo, un uomo e una donna divisi da un oceano e con due esistenze spese lontani l’una dall’altro. C’è molto altro. L’amore bello e impossibile di Blanca e Giovanni è al centro, certo, ma si fa pretesto per una promenade del lettore in un’esposizione di quadri eterogenei e avvincenti — la vita di attesa di esuli argentini a Milano durante gli anni della dittatura in Argentina — il viaggio avventuroso di una coppia ritrovata nel nord di un Paese che è quasi un Subcontinente — l’abitudine di un popolo a rialzarsi continuamente da continui default non solo finanziari. La parabola della storia è ampia, si srotola con tempi cadenzati, volutamente lenti. Si attraversano stagioni di una stessa esistenza lontane decenni ma si viaggia anche nella geografia, si assaggiano pietanze e sentimenti disparati. Si assaggia soprattutto l’amara constatazione che l’amore non è salvifico, come riconosce Blanca nel finale del romanzo: «Abbiamo sbagliato nel credere che, se c’è amore, le cose non possono andare storte».
    Non c’è tempo per un tango vuol essere, a mio avviso, anche il canto di una generazione. La prima transnazionale, la prima che abbia avuto una musica tutta sua, autoprodotta, una musica che, al solo riascoltarla mezzo secolo dopo, dà la misura di quanto il ricordo, diversamente da un fiore, non possa decolorarsi se imprigionato tra due pagine del passato e mantenga vivo il suo profumo anche dopo una vita intera, quando la persona che si guarda allo specchio sembra il nonno di chi lo aveva vissuto. Coloro che erano ragazzi sul finire degli anni Settanta sognarono di prendere il testimone del Sessantotto: sarebbe stato nelle cose e quasi un loro diritto, ma era tardi, la finestra temporale si era chiusa in fretta e a loro non restò che assistere al triste crepuscolo di un’Utopia, con gli inquietanti fuochi d’artificio finali degli Anni di Piombo.
    Il romanzo di Giorgio Secchi ha una prima e una seconda parte: un antefatto nel 1977-78 e, per così dire, un ritorno di fiamma quarant’anni dopo.
    Nel 1977, per una pura casualità, si incontrano a New York Giovanni e Blanca, due giovani poco più che ventenni, lui ingegnere italiano che si sta perfezionando per poi tornare a lavorare in Italia, lei argentina che però sulle prime si spaccia per catalana. Si scoprirà in seguito perché. Sembra un incontro come tanti, e sembra finire come tanti: in una notte piena di neve a Manhattan, le loro strade si separano. La neve è silenziosa, ma quella nevicata torturerà Giovanni per un anno, perché è associata a una perdita e al pensiero di una ragazza che, non vuole ammetterlo, in meno di un mese gli era entrata nel sangue.
    I due personaggi appaiono fin da subito nitidi, leggibili, coerenti; si raccontano soprattutto nei loro dialoghi. Una parentesi: vi sono ben poche riflessioni in questo libro. Il discorso diretto (con le sue frequenti inserzioni di castigliano) la fa da padrone. Quasi una sceneggiatura. Nel primo capitolo della seconda parte, ambientato in un casale toscano, c’è un’unità di tempo e di spazio, sembra quasi di leggere una pièce teatrale. Ma anche le frasi non virgolettate sono asciutte, dirette. La narrazione è leggera, soffice — mi si passi la metafora gastronomica — come una pastella ben lievitata. Gli ingredienti di questa ricetta sono pochi e riconoscibili: un’ironia ininterrotta che attraversa un po’ tutti i personaggi facendoli somigliare tra loro come i volti usciti dalla mano di uno stesso pittore, e un velo di malinconica visione della vita che rende il presente qualcosa di effimero, inafferrabile, non godibile, subito ghermito com’è dal passato.
    A questo incontro sentimentale Giorgio Secchi mette un sottofondo con la colonna sonora di quegli anni: Leonard Cohen, il White Album dei Beatles, il Mike Oldfield di Tubular Bells, gli Inti-Illimani, Victor Jara. Sembra un dettaglio trascurabile, al contrario è un elemento essenziale per sottolineare un’appartenenza e per commentare efficacemente sentimenti che nei giovani sono, se non più forti, più aggressivi che nei vecchi: l’amore, il dolore, la paura. La loro musica, per la prima volta nella Storia, non dimentichiamolo.
    Giovanni e Blanca si incontrano di nuovo l’anno successivo a Milano, la città di Giovanni, dove lui nel frattempo è tornato. Stavolta non è per caso. È lei che, dopo avergli chiesto di uscire da casa sua in piena nevicata a New York, va a cercarlo. È l’estate dei mondiali argentini. La sera della prima partita vinta con la Francia, la gente scende in strada per festeggiare e anche per dimenticare che, soltanto un mese prima, hanno ritrovato il cadavere di Aldo Moro in una Renault 4 rossa e metà strada tra Piazza del Gesù e Via delle Botteghe Oscure. In mezzo agli altri, Giovanni e i suoi amici si avvicinano a una camionetta di celerini che sbarra la strada: al di là c’è una manifestazione di esuli argentini che protestano per quei mondiali insanguinati: tentano di sensibilizzare persone lontane fisicamente ed emotivamente migliaia di chilometri dalla tragedia che da due anni si consuma nel loro Paese — gli squadroni della morte, i desaparecidos. A Giovanni sembra di vedere nella folla Blanca, ma non è possibile. Un’allucinazione. Il suo amico Carlo lo legge come un libro, sa che non ha dimenticato la ragazza spagnola di New York. Non era un miraggio. Era veramente lei. Poco dopo, Giovanni la trova fuori del portone di casa dove rientra a tarda notte. Tutto sembra ricominciare da dove si era interrotto. Blanca rivela la sua identità, quella di una militante della sinistra rivoluzionaria costretta a fuggire perché erano andati a cercarla a casa. Si sfoga a lungo ma resta la sensazione che, quando Blanca parla, non dica mai tutto. Quando non punzecchia Giovanni col suo sarcasmo, resta una creatura misteriosa, tormentata da brutti ricordi. « — Adesso sei qua. Sei al sicuro. È finita, non continuare a tormentarti. — Non puoi capire, questa storia non finisce mai».
    Blanca è ancora tutta dentro il suo trauma di scampata per un pelo agli escuadrones e di esule; non riesce a meritarsi la felicità che Giovanni le offre perché sa che metà dei suoi amici è scomparsa e lei non può vivere se non farà qualcosa per loro. «Io sono all’inferno, Giovanni, e non ho neanche aperto la porta per entrarci, mi ci hanno buttata dentro. Per poter stare con te devo prima poter tornare a Cordoba, entrare en mi casa, mettermi nel mio letto e finire il mio libro, Boquitas Pintadas, ero arrivata a metà. Non ne ho comprato un’altra copia, voglio quello». Lei tornerà dalla zia a Barcellona, lui le scriverà molte lettere, ricevendo in cambio solo un biglietto: «Giovanni: Noi ci siamo amati, ci amiamo davvero. Ma il tempo che stiamo vivendo non è il nostro. Lasciami andare. Adios mi querido.» Sarà Luz, l’amica espatriata di Blanca, a far capire all’incredulo Giovanni il senso di quell’ultimo messaggio. Così Blanca scompare dalla vita di Giovanni e così finisce la prima parte.
    Va detto che Secchi (non so se documentandosi o vivendo esperienze dirette) è entrato nella testa e nei sentimenti degli esuli argentini in Italia di quegli ultimi anni Settanta e ci restituisce il senso della loro ferita, di storie personali interrotte e deviate per sempre. Come tutti gli esuli, si stringono tra loro per combattere la nostalgia, la solitudine e rendere meno dolorosa quella che sembra la sconfitta in una battaglia e a conti fatti lo sarà dell’intera guerra.
    È una storia che prende, quella di Blanca e Giovanni. Si avverte un’attrazione che parte da lontano, c’è una distanza da colmare tra loro, e non è soltanto l’Oceano che divide le loro patrie, benché lei si chiami Modigliani e in casa sua si parlasse italiano: c’è soprattutto il vissuto di Blanca, che lei cerca di riempire di parole e Giovanni del proprio ascolto. «Lo prendeva in giro, le piaceva stare ad ascoltarlo.» Si avverte anche che la loro diversità interiore è, pur nelle tante affinità di due coetanei, abissale e che, al di là delle motivazioni addotte da lei, sono comunque destinati a perdersi. Lui flemmatico, silenzioso, protettivo ma in fondo spettatore della “cometa” Blanca, lei così piena di verve, di uno humour sempre pronto.
    La seconda parte inizia, come già scritto, con un salto di quarant’anni. Tra dialoghi, flashback e narrazioni, si ricostruisce questo vuoto per Giovanni, che si è sposato con Caterina (ormai da trent’anni), che hanno un figlio, Enrico, ingegnere come il padre, che la sua famiglia ha passato i suoi lutti (i genitori, la moglie del fratello) e che l’ormai pensionato Giovanni ha deciso di compiere un viaggio in Argentina. Il pretesto è il matrimonio di Pia, figlia di Luz (Giovanni aveva continuato a frequentare gli amici argentini di Blanca a Milano, finché erano rimasti in Italia) ma il viaggio si prolungherà, e non perché nelle intenzioni ci sia (almeno consapevolmente) la speranza di incontrare di nuovo un amore perduto decenni prima. Il ritmo della narrazione rallenta come olio, il racconto si fa digressivo. Sembra quasi che l’autore, oltre a sentire il dovere di esporre la situazione attuale dei vari esuli rimpatriati, Luz, suo marito Guillermo, l’irriducibile comunista Horacio, crei un intervallo temporale, un’attesa che il lettore vorrebbe accelerare per sapere come va a finire. Di tutti i personaggi, dipinti con colori pastello, Giovanni è il solo in bianco e nero. È lui l’esule, l’orfano, il personaggio in cerca d’autore in questo primo mese di vacanza passato nella città porteña.
    E infatti, è quando riappare Blanca (invitata anche lei col marito Camilo al matrimonio di Pia, la figlia di Luz) che tutto si rianima e si riaccende, che i dialoghi tornano ad avere quell’allure di imprevedibilità che è in qualche modo il leitmotiv wagneriano della protagonista. Blanca riappare con un colpetto alla spalla, come il destino. La reazione di Giovanni è di modesta sorpresa, poi però interroga Luz, le chiede come mai non le ha detto anche della presenza della sua vecchia fiamma di gioventù. Qualcosa sta forse reagendo dentro di lui, ma l’autore non ci dice nulla del suo stato d’animo interiore e, quando Blanca gli propone cordialmente di andare a trovarla a Cordoba, lui prende tempo per pensarci. Dov’è finito il fuoco sacro dentro Giovanni? Che a sessantacinque anni sia ormai un vecchio tronco privo di linfa?
    I suoi piani di andare in Patagonia saltano per via della stagione che non è buona, e anche il “treno in mezzo alle nuvole” vicino alle Ande è fuori uso per manutenzione. Così Giovanni ripiega su Cordoba, quasi senza aspettative. Le fa una sorpresa. Si presenta nel negozio di arredamento di Blanca. Trova una commessa, le chiede: «Sto cercando la cosa più bella del negozio». La commessa si consulta con la proprietaria che è in ufficio. Blanca si avvicina al cliente sconosciuto che le dà le spalle, lui si gira e… soltanto per loro, si riaccendono le luci della ribalta. Lui vuol fare un viaggio al Nord, Salta, Jujuy, le terre multicolori. Un caso felice vuole che lei abbia una casa di famiglia a Salta, una casa che affittano d’estate: deve andarci per prepararla. Così partono insieme. Il destino. Sotto la cenere di quarant’anni, miracolosamente la brace dei loro sentimenti era ancora accesa. Hanno tempo per amarsi e per raccontarsi, giorni e giorni. Una vacanza che prolungheranno finché sarà umanamente possibile. Lui: «Ero ancora impigliato con il ricordo di te, non riuscivo a sciogliermi da quel legame. Ho continuato, per tanto tempo, a chiedermi se nella nostra storia c’era stato qualcosa di davvero diverso da altre che mi era capitato di vivere o se la mia fatica a liberarmi dalla tua presenza dipendeva dal modo in cui tu avevi deciso di lasciarmi.» Lei gli dice che Camilo era un vecchio compagno di scuola, per anni suo spasimante senza successo. Sposarlo era stato come rifugiarsi nella serenità di una storia normale dopo tanti anni di peregrinazioni e disavventure. «Nella vita tutti sognano di avere il grande amore ma… anche un piccolo amore è molto, sai?»
    Scoprono di non essere ancora due viejos: ritrovano le energie dell’amore e la dimensione domestica della condivisione delle piccole cose, «quello che più mi mancherà di te», confessa Blanca. È il vitalismo crepuscolare dei sessantenni che non sanno quanto potrà durare l’ultima primavera: sanno soltanto che il calendario salterà l’estate e molto probabilmente li farà piombare in un inverno definitivo. «Quando aveva deciso di fare questo viaggio non gli era venuto proprio in mente di cercare Blanca. Non aveva nemmeno immaginato di poterla incontrare insieme agli altri amici argentini. Perfino al matrimonio di Pia, quando si era imbattuto in lei, era convinto fosse stata una coincidenza. Ma nei giorni successivi era stato costretto ad ammettere che non era affatto così. Che Blanca in tutti quegli anni non se n’era mai andata. Aveva fatto il nido nei suoi pensieri e vi si era accucciata per riemergere, ora, da un’infinità di tempo».
    Cosa c’entra in tutto questo il tango? Un giorno sul finire della vacanza i due fanno un gioco: pensare a una cosa che nessuno dei due ha fatto e farla insieme nell’ultima settimana che resta loro. L’idea viene a Blanca: seguire un corso di tango! Lo faranno ma non avranno il tempo di esibirsi nella milonga finale. « — Cosa ci è venuto in mente di imparare un ballo di coppia, che non balleremo mai insieme?! Con chi vado in milonga, con Camilo? E tu, ti metti a insegnare gli otto passi a Caterina? L’hai sentito, Raul: “Per migliorare l’intesa serve solo un po’ di tempo. Vi serve tempo” dice. Eh, sì, e dove lo troviamo, noi? — Non è mai stato dalla nostra parte, il tempo. Ma questa volta lo sapevamo.»
    Lo scavo dei personaggi da parte dell’autore in questo terzo inizio, in questa tardiva, estrema, struggente primavera è profondo, i loro giorni hanno alti e bassi che i due si perdonano vicendevolmente, i dialoghi sono intrisi di romanticismo e autoironia. Lo humour, lo sanno, serve a ridimensionare, a razionalizzare, sebbene un dramma resti comunque un dramma — come definire altrimenti la rinuncia alla gioia perfetta, una volta che la si è (ri)trovata? Entrambi sono consapevoli di non poter passare un colpo di spugna sugli ultimi trent’anni, sui loro affetti attuali — coniugi, figli, nipoti — di avere insomma una felicità a tempo.
    In questo suo romanzo d’esordio Giorgio Secchi (che ha un’esperienza di saggista e pubblicista) ci consegna una storia completa e conseguente, mai banale, profonda. Mette i classici russi nello scaffale del suo protagonista maschile, ma sembra sia stata piuttosto la letteratura americana del Novecento ad aver plasmato la sua poetica del racconto. Non Scott Fitzgerald e men che meno Faulkner, piuttosto Hemingway — per la concisione e l’understatement — o Truman Capote — per l’ironia e la levità. Secchi si rivela un uomo di molte e buone letture, descrive Buenos Aires come uno che ci abbia vissuto per anni, il montaggio delle scene del racconto è sapiente, consapevole e, come per ogni scrittore credo, appare l’esito di una lunga decantazione di migliaia di pagine accumulate nella mente e nel cuore, sottoposte al reagente di un’estetica personale per dare vita a un filo conduttore, a un marchio di fabbrica. Questa coerenza stilistica è palpabile ed è frutto di una profonda maturazione, che non sorprende proprio perché è un’opera prima (narrativamente parlando) di un autore che ha atteso di avere i capelli bianchi prima di affidarla a dei lettori.
    Personalmente lo avverto come un “romanzo della memoria”, non tanto nei sentimenti dei personaggi (non posso saperlo, sebbene tutto sia un po’ autobiografico per chi scrive) quanto per la sua collocazione temporale e spaziale. Gli anni e i luoghi della formazione della nostra identità, che resteranno indelebili nella nostra anima, anche se il tempo passato ne avrà cancellato ogni traccia fisica. Più che la lotta tra la gioia e il dolore, è quella tra la memoria e l’oblio la contesa dominante in un’esistenza umana, con i nostri ricordi che sembrano scegliere in autonomia e nostro malgrado in quale dei due recipienti collocarsi, in quale versante della montagna rotolare, senza che un nostro sussulto selettivo abbia alcun potere su di essi.

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Giorgio Secchi
giornalista economico, ha scritto per Agi, Ansa, Il Sole 24 Ore, L’Espresso, Corriere della Sera ed è stato Responsabile Rapporti con la stampa e Iniziative Culturali di Eni. È coautore di Il grande sboom (Etas Libri, 1988), e del saggio Italiani insieme agli altri, gli ebrei nella Resistenza in Piemonte (Zamorani Editore, 2011). Autore di programmi tv, nel 2009 ha messo in scena uno spettacolo da I giorni del mondo di Guido Artom. Oggi si occupa di un’azienda agricola biologica in Maremma. Nel tempo libero si dedica alla scrittura.
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