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Sale tra le dita

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Alfredo Rivarossa, uomo di mezza età dall’aspetto affascinante e dal carattere scostante, sorregge il peso di una famiglia piena di lividi, con una moglie imprigionata nel proprio silenzio e un figlio adolescente che ha trovato nella solitudine il rifugio più sicuro. Ad aiutarlo c’è Cipriana, singolare badante rumena che prova a incollare i cocci delle loro vite incrinate.
Qualche strada più in là, la famiglia Boeri è alle prese con la malattia della piccola Bettina. La madre, Silvia, si affanna come può per donarle serenità, in una corsa costante che a tratti sembra una fuga dalle sue stesse paure.
Due storie familiari che si sfiorano e si intrecciano, in un romanzo corale dal respiro dolceamaro.

Prologo
Con tre grani di sale grosso

Tre grani di sale grosso, che siano più o meno delle stesse dimensioni, sagomati col medesimo taglio. La scelta dei pizzichi è una liturgia leggera, si rovescia il barattolo del sale su una superficie morbida, scura il più possibile per far risaltare il bianco dei chicchi. Bisogna afferrarli con due dita, pollice e indice, valutarne la corposità, saggiarne i contorni, selezionare i più adeguati e poi passarli e ripassarli fra il pollice e le altre dita: il medio, l’anulare, il mignolo e via così, a ritroso e in avanti finché i pensieri non sono esauriti, fin quando gli auspici non si sono rivelati. Gli occhi è bene che siano chiusi, le palpebre rilassate, il respiro profondo e regolare. E la mente – la mente – concentrata sul destino di chi si vuole aiutare.
È un rito di protezione insegnato da nonna Ada a Tice quand’era bambina. A lei pareva una carezza, una nenia muta capace di cullare la sua infinita timidezza. Nonna Ada aveva un fare così solenne quando, appena prima del tramonto, si sedeva sotto la veranda, con la retina da notte in testa e il grembiule da cucina ancora annodato in vita. Tice ricorda il rumore secco del barattolo del sale rovesciato su uno scampolo di pannetto verde cupo. Nonna l’aveva comprato al mercato del giovedì con quell’unico scopo: far da tappeto ai grani di sale. Tice si accucciava ai piedi della nonna, le cingeva il polpaccio con le braccia, le poggiava il capo sul ginocchio. Stava ferma lì mentre nonna, in silenzio, faceva scivolare i grani sui polpastrelli. Non una parola le usciva dalla bocca, dalle narici solo lunghi respiri modulati.
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Ada le aveva raccontato che era usanza di famiglia, che si tramandava da generazioni e che tutte le donne, di sangue o acquisite, dovevano apprendere il rito per poter proteggere le persone care, scegliersi un panno che le accompagnasse per la vita e imparare l’arte di valutare i grani. Tice sospettava che la messa in scena del piccolo tappeto e dei grani di sale grosso fosse un’invenzione di nonna Ada e che quel rito servisse solo a lei, a darsi quiete, a proteggersi da sola dalle proprie ansie.
Così, oggi che Tice è nonna a sua volta, oggi che avverte il forte bisogno di placare le proprie paure, decide di ricorrere al rito, anche se non ci crede, anche se non ci ha mai creduto. Scende in cantina, rovista in un vecchio baule zeppo di muffa e di ricordi ed estrae, dal fondo incartato, un ritaglio di mussola blu.
Con pazienza attende che cali il sole.
Quando poche linee di luce rimangono ad illuminare il giorno, si siede in giardino, chiude gli occhi e con tre grani di sale grosso fra le dita inizia a respirare.
Un grano è per Bettina.
Un grano è per Silvia.
Un grano è per Fabiano.

IL GRANO DI BETTINA
Tricotillomania.
È la parola che scorre dentro i miei occhi chiusi mentre faccio scivolare il tuo grano di sale fra le dita della mano sinistra. Una parola che suona come un solletico, una tiritera da bambini in un gioco di rime. Magari fosse una cantilena, non sai quanto vorrei che si rivelasse uno scherzo. Tricotillomania, invece, è una preoccupazione reale, una parola difficile scritta sul referto dello psichiatra infantile che oggi ti ha visitata, Bettina mia cara.
Una parola pesante che grava sui tuoi sette anni come una valigia enorme e poderosa di cui nessuno sa se riuscirai a liberarti. Compulsione e ossessione le brutte parole, fra loro rimate, che si associano a quest’assurdità. Non riesco a immaginare concetti più distanti dal tuo sorriso di bambina, così amabile, così inconsapevole.
Sono tanti i capelli che ogni mattina riposano sul tuo cuscino colorato, sparsi e scomposti fra le facciotte sorridenti degli animaletti del bosco, infilati nelle pieghe della federa stropicciata, inermi e incolpevoli, staccati dalla tua cute. Nel sonno le tue manine cicciotte non riescono a stare ferme: afferrano, tirano, strappano, strappano, strappano. Non te ne accorgi, ma c’è una serpe silente che agisce di notte mentre tu sogni. Proteggerti da questa strega del buio non è facile, nessuno sa come si deve fare, è solo nello scorrere del tempo che dobbiamo riporre le speranze.
Sperare non è agire e io altro non posso fare.
Non c’è modo di appiattirlo questo grano di sale, premo con forza mentre lo passo fra il pollice e le altre dita; lo sento indeformabile, forgiato da aculei che non riesco a smussare.
Che questo grano di sale ti protegga, Bettina, che il tempo levighi queste spine appuntite e inghiotta nel buio le brutte parole, le streghe, le paure.

Capitolo 1
Silvia percorre il vialetto senza forze, ha le gambe stanche, le spalle molli, i pensieri infestati da minuscoli pipistrelli alati che le impediscono una visuale nitida dell’intero contesto. La sua coscienza, spesso, si fa viva così: sotto forma di piccole bestioline fastidiose che le impongono riflessioni scomode che non riesce ad allontanare. Perché deve essere tutto così difficile? Dov’è finito il suo proverbiale ottimismo e il suo essere, a dispetto di tutto, leggera? Silvia stringe fra le mani la diagnosi definitiva del male che affligge sua figlia Bettina: tricotillomania. Non che fino a prima di incontrare il dottor Onfiani Silvia sperasse in una diagnosi diversa, anzi era certa che a inquinare la vita della sua splendida creatura fosse la forma più severa di quella odiosa malattia psicosomatica. Bettina aveva iniziato a strapparsi i capelli nel sonno a tre anni, prima saltuariamente, poi più frequentemente con un crescendo ininterrotto e sempre più preoccupante. E ora che di anni Bettina ne ha sette, si tortura il cuoio capelluto almeno una volta a settimana, sempre nel sonno, sempre mentre non è cosciente. Al risveglio, quando il male è stato clemente, sono pochi i capelli strappati che Bettina si ritrova fra le mani; quando invece il male si è accanito, sulla federa ci sono intere ciocche. Tricotillomania notturna: è la forma più subdola da curare, sembrano sussurrarle quei pipistrelli malvagi che anche ora attraversano i pensieri di Silvia.
Le parole del dottor Onfiani non hanno lasciato spazio a inutili illusioni: «Vede, signora Boeri, i comportamenti compulsivo-ossessivi che avvengono nell’incoscienza della prima età non possono essere rieducati alla normalità se non attraverso una terapia psicologica dalla durata e dagli esiti incerti. Non potendo agire nemmeno in minima parte su ciò che è conscio, non posso e non voglio illuderla che Bettina guarirà. Posso solo dirle che accettare di sottoporla a una terapia comportamentale sarebbe la cosa migliore che possa fare per lei. Bettina è troppo piccola per considerare l’avvio di una terapia farmacologica. Tuttavia non siamo disarmati, possiamo intervenire da subito sulla sua emotività, indagando la sensibilità della bambina, il suo quadro familiare, i versanti sensoriali e cognitivi. Altre strade non ce ne sono».
«L’emotività di mia figlia è delicata, dottor Onfiani. Ogni giorno Bettina dipinge il proprio male, disegna volti anonimi contornati o privi di capelli e li descrive con parole infantili, ma toccanti. È delicata quanto un filo di seta, la mia piccola.»
«Lo rinforzeremo quel filo, proveremo a farlo diventare di cotone grezzo, poi di rame, poi di acciaio. Dobbiamo provarci, non crede signora Boeri?»
E così Silvia, dopo aver ascoltato le parole incoraggianti dello psichiatra infantile, ha accettato di sottoporre Bettina a un percorso psicologico cognitivo-comportamentale. Ha fissato le prime otto sedute a cadenza quindicinale un martedì pomeriggio sì e uno no a partire dal mese di dicembre, nello studio di via San Petronio Vecchio, a due passi dalle Torri, nel cuore di Bologna.
«Le prime volte sarà lei, signora Boeri, ad accompagnare Bettina per la terapia. In seguito le dirò se sarà necessaria la presenza di qualche altro membro della famiglia.»
La famiglia, ecco.
La famiglia, appunto.
E se fosse colpa di quella famiglia zoppa che Bettina si ritrova? Se il male che la pervade avesse origine nella scelta di sua madre di allevarla senza un padre?
Silvia osserva il profilo del volto stilizzato che sua figlia ha disegnato, guarda con attenzione i piccoli fiori intrecciati nei capelli e legge le parole che Bettina, nella sua grafia tremolante da seconda elementare, ha scritto:

A me piacciono i fiori nei capelli
che quando ne metti tanti
poi i capelli sono tutti fioriti.

I pipistrelli volano via, le gambe di Silvia riprendono forza, le spalle si raddrizzano e il cuore si stringe in una straziante morsa di materna tenerezza. Si decide a entrare, con il suo mazzo di chiavi apre la porta di casa dei suoi genitori.
* * *

Fabiano tiene il volume della musica sempre troppo alto e Silvia ha uno scarso livello di tolleranza ai decibel. Quando abitavano insieme era una lite continua perché Fabiano, già da piccolo, amava intontirsi il cervello con la musica sparata al massimo. Bettina invece si diverte con quel volume assordante, per lei zio Fabi è un dio moderno che la tratta come una bellissima principessa delle fiabe. Fabiano non sa dirle di no nemmeno sotto tortura, la vizia e stravizia acconsentendo a ogni sua richiesta, si presta a farle da DJ quando Bettina ha voglia di sciogliersi in danze sperticate fingendo di essere una ballerina famosa in tutto il mondo, ma proprio tutto, anche in Cina, in India, in Africa e in Perù, come puntualizza sempre, chissà poi perché. Si impegna in volteggi improbabili e scenografici per una decina di minuti e poi, quando Fabiano abbassa il volume della musica e fa scattare fragorosi applausi con le magie del suo mixer, lei si inchina e ringrazia il pubblico immaginario che le lancia fiori profumati. Bettina finge di annusarli e di raccoglierli a mazzi. Finito lo show, la musica si spegne; c’è sempre un attimo di silenzio carico di aspettativa, poi Bettina e Fabiano scoppiano a ridere sguaiatamente, consci della farsa architettata e del divertimento nel metterla in piedi. Spesso Tice ed Erio, i nonni di Bettina, assistono sul divano e fingono di essere proprio loro a lanciare quei fiori odorosi, battono le mani all’unisono e la risata finale si trasforma in una grassa e chiassosa cerimonia di famiglia. Silvia li trova così, sua madre, suo padre e suo fratello, a recitare su un palcoscenico che non esiste solo per la gioia di veder ridere Bettina.
«Ciao mamma, lo sai che sei la madre della ballerina più famosa del mondo?» Bettina è raggiante mentre le corre incontro per abbracciarla.
«Certo che lo so, ma non sono certa che tu sia famosa proprio in tutto il mondo…» le risponde Silvia facendole l’occhiolino.
«Ovvio che lo sono! Anche in Cina, in India, in Africa e in Perù!» replica Bettina lasciandosi avvolgere dall’abbraccio della madre. Silvia sorride, contenta di aver aggiunto la propria comparsata al copione del rito di famiglia. La normalità della giornata può riprendere, a compito assolto.
«Ti fermi a cena, tesoro, così ci racconti com’è andata oggi?» le chiede Tice speranzosa.
«Non offenderti, mamma, ma devo rifiutare l’invito, ho un sacco di lavoro da fare, un paio di articoli da consegnare in redazione entro le nove di domattina, e devo per forza lavorarci stasera. Io e Bettina mangiamo un po’ delle nostre schifezze, poi mi metto al computer a scrivere, tanto fra un’ora iniziano i suoi cartoni preferiti e a casa c’è Flip che non vede l’ora di accovacciarsi sulle sue gambotte.»
Silvia non ha voglia di raccontare, né di se stessa, né dello psichiatra, né di quei due pessimi articoli che il caporedattore le ha imposto di scrivere. Non le va di stare in compagnia, preferisce chiudere le serrande al mondo, almeno per stasera. Sa che Tice non si offenderà, c’è un rapporto schietto fra loro due, del tutto scevro da quei ricatti morali e da quelle insulse permalosità tipiche delle madri anziane verso le figlie femmine. Silvia prende per mano Bettina e se la porta a casa.

* * *

L’ultimo disegno che ha postato ha ricevuto 1385 like. Un trend in continua crescita, su Instagram la popolarità di Fabj_B sta lievitando. Fabiano scorre l’elenco dei contatti che hanno apprezzato i suoi disegni e guarda soddisfatto il drago primordiale perfettamente definito dai colori ruvidi e sfumati in uno scenario da alba del mondo che ha postato due giorni prima. Gli piace il proprio profilo Instagram, gli piacciono quei 12,5mila follower che nemmeno lui sa perché lo seguano e sorride nel pensare al nickname che si è dato senza troppa fantasia: per uno che si chiama Fabiano Boeri, attribuirsi lo pseudonimo Fabj_B non è stato un grande sforzo creativo, in effetti.
Giocare con Bettina è divertente, Fabiano adora sua nipote e gli piace prendersi cura di lei quando Silvia la porta a casa loro, ma sono altre le cose a cui dedicherebbe tutto il suo tempo, se solo potesse: disegnare esseri fantastici che la sua immaginazione sforna in abbondanza. Ha, Fabiano, una collezione di pennarelli, gessetti, pastelli, carboncini, lapis, tempere e acrilici che tiene ben ordinati sulla grande scrivania della sua stanza. Non c’è nulla fuori posto, i colori devono essere ordinati seguendo un crescendo cromatico preciso, dai toni pastello a quelli vividi, dagli opachi ai brillanti, dai tenui ai carichi, tutto in rigorosa sequenza, così come i libri che tiene impilati nella libreria a fianco, divisi per materia, spessore, colore della copertina. Ha l’esame di maturità da preparare, si è imposto il limite di pubblicare su Instagram non più di un drago ogni cinque giorni, i libri di scuola devono avere la precedenza, almeno finché non arriva il diploma, dopo si vedrà. Che poi, quei libri non gli fanno neanche così schifo, la parlantina ce l’ha buona, le capacità analitiche sono notevoli, la memoria tiene il passo, a scuola se la cava bene.
Una notifica sul cellulare distoglie l’attenzione contemplativa che Fabiano riserva all’ordine meticoloso che regna nella sua stanza. È un like di un suo fan, Grem’s, su un vecchio post di diversi mesi prima. Questo Grem’s è un tipo strano, Fabiano controlla il suo profilo Instagram, ancora nessuna foto postata. Non si fida, Fabiano, dei profili vuoti e nemmeno di chi non segue altri profili eccetto il suo, gli pare sia una cosa subdola, quasi morbosa, che un po’ lo turba. Già da qualche settimana Fabiano tiene d’occhio Grem’s, che si nasconde dietro uno strano anonimato e che come foto del profilo ha scelto di postare un semplice stelo d’erba. Perché non si perde un mio drago, questo tizio qui?

Capitolo 2
Dall’altra parte della città c’è Gremmo Rivarossa, un quindicenne anomalo che i social li odia. Non capisce per quale motivo si debba vivere la vita dentro lo schermo di un telefonino. Molto meglio le mura della propria stanza, le tapparelle abbassate, la musica nelle orecchie, le canne che ogni tanto si fuma. I social non gli interessano proprio, anche se, una mattina di qualche mese prima, a scuola, Gremmo aveva notato un disegno appeso nella bacheca degli studenti, l’immagine di un mostro dai lunghissimi capelli, un drago infuocato con la testa blu cobalto, cupo e luminoso al contempo, talmente ben definito nei lineamenti da apparire reale, con gli occhi paurosi iniettati di un giallo limone che parevano bucare il disegno e irradiare luce tutt’intorno. Sotto quel disegno compariva una scritta: “Seguimi su Instagram: sono Fabj_B”. A Gremmo era piaciuto talmente tanto quel disegno che gli si era nata la curiosità di vederne altri, ma non aveva la più pallida idea di come fare a seguire quel Fabj_B su Instagram. Aveva chiesto aiuto a Ceppo, il suo compagno di banco social-dipendente e suo fornitore abituale di cannabinoidi, il quale, armeggiando sui tasti del suo smartphone, aveva impiegato pochi minuti a creargli un account basico, di quelli essenziali e privi di fronzoli, spoglio come la personalità di Gremmo. Senza nemmeno consultarlo, Ceppo aveva chiamato l’account di Gremmo “Grem’s” e nella descrizione del profilo aveva scritto: “Not social addicted” mettendo una foto di un filo d’erba di campo, allusivo ma non troppo, trovata sul web. Così, Gremmo Rivarossa si era trasformato in tale Grem’s che dichiarava in un social, quasi come una carta di identità, di non essere dipendente dai social, una bella contraddizione che Gremmo aveva immediatamente apprezzato. Da quel momento Gremmo aveva potuto accedere al fantasioso e policromo mondo di Fabj_B. Non gli interessava seguire nessun altro, solo il Fabj_B che postava scatti di fantastici draghi moderni, dalle forme sorprendenti e dai colori talmente azzeccati al mood del tratto grafico e del proprio umore, da lasciarlo stupito ogni volta. «Fabj_B mica è il tipo da inflazionarsi con troppi post,» gli aveva detto il Ceppo «anzi, centellina i disegni, ne pubblica uno o al massimo due a settimana. Si chiama strategia di social marketing.» Sarà, Gremmo preferisce pensare a motivazioni un po’ più “romantiche”, come ad esempio che Fabj_B è un tizio che ha poco tempo per disegnare perché lavora tutto il giorno, oppure che è un tipo meticoloso che impiega ore e ore a curare i minimi particolari delle sue creature mostruose o, e questo è disposto ad accettarlo, perché è uno piuttosto scaltro che vuole far crescere l’attesa nei suoi fan. A ogni post pubblicato da Fabj_B, Gremmo riceve una notifica sul telefono e ci tiene molto a quel momento, gli sembra che quel trrr trrr vibrante sia un messaggio solo per lui, come se quei disegni spettacolari Fabj_B li componesse solo per i suoi occhi, e non per tutti i suoi 12,5mila follower. «Mica roba da poco, avere tutti quei seguaci» gli ha detto il Ceppo.
E ci tiene anche oggi, eccome se ci tiene a ricevere una notifica da Fabj_B, perché in questa mattina di novembre Gremmo vuole pubblicare il suo primo post, visto che è iscritto a Instagram da più di tre mesi e non ha ancora postato nemmeno uno scatto. Il Ceppo gli ha dato qualche dritta sui filtri e sui ritagli da fare per rendere le immagini migliori e gli ha anche spiegato come funzionano gli hashtag, che servono per aumentare le visualizzazioni. Gremmo ha deciso che gliene basta uno solo: #backlight. Vuole essere essenziale, lui, come in tutte le sue cose. Già sa che tutto ciò che posterà sarà in controluce, perché lui le sa fare solo così le fotografie. Ogni immagine che scatta ha raggi luminosi che irradiano l’inquadratura, ciò che c’è in primo piano risulta quasi sempre buio, si percepiscono solo i contorni delle figure che spesso appaiono spettrali.
Gremmo guarda fuori dalla finestra, il temporale se n’è andato e dalle nuvole filtra una vellutata luce novembrina. Decide di salire sul tetto per provare a catturare la luminosità ovattata che sta aprendo le porte al giorno. Quando Gremmo sta lassù, sui tetti, a contemplare il cielo, tutto si rischiara, anche i suoi pensieri.

* * *

Nella stessa casa di Gremmo, dal lato opposto del corridoio, uno scroscio di pioggia d’autunno inoltrato ha decorato la finestra della camera da letto con una scia di gocce precocemente ghiacciate. La giornata sta nascendo storta. Alfredo Rivarossa, che di Gremmo è padre, lo capisce dai mugugni sonnecchianti che sente provenire dall’altra parte del letto. Quando Leila, che di Gremmo è madre, borbotta in quel modo, vuol dire che i demoni le hanno fatto visita nei sogni, che la notte non è andata bene, anche se ha dormito a lungo, all’apparenza placida come un angelo. Alfredo si sfila silenziosamente dal letto ed entra velocemente in doccia, vuole essere pronto prima che Leila si svegli, vuole provare a instradare anche quest’ennesima giornata, ora che è comparso il sole e la luce sta per inondare la stanza. C’è qualcosa che si è interrotto nel cervello di Leila, un meccanismo difettoso che genera assenze e provoca cortocircuiti. A lunghi momenti di inconsapevolezza, Leila alterna brevi stati di coscienza, attimi coerenti che piovono dal cielo senza preavviso, strati che si depositano ed evaporano senza logica apparente, come quelle gocce sui vetri di casa. La diagnosi è chiara, non c’è un futuro certo; c’è solo un presente, instabile, da dover accettare. La decisione di vivere nell’oggi Alfredo l’ha presa in un attimo. Gli è bastato poco per capire che interrogarsi è superfluo, che recriminare è inutile, che pensare al passato è dannoso. Le paure, ne è certo, non servono, sono materiale tossico che inquina l’esistenza. Alfredo sa che non è forza la sua, piuttosto uno scellerato istinto di sopravvivenza. Ogni giorno è un oggi e nell’oggi di questa giornata di novembre c’è un solo obiettivo importante: arrivare a sera. Alfredo sente il rumore dei saltelli di Gremmo sulla rampa di scale che dal pianerottolo porta in terrazza. Ogni tanto, quell’anomalo adolescente che è suo figlio esce dalla sua stanza asfittica e si rifugia lassù portandosi dietro il cellulare, sempre solo, sempre chiuso a valva di vongola, povero ragazzo trascurato da una madre che non ha potuto essere madre e da un padre che si sforza di non soccombere sotto il peso di una baracca di famiglia tenuta insieme da un precario nastro adesivo dilatato dal calore e con la colla colante. Come la sua sopportazione di certe giornate interminabili, che gli stanno appiccicate addosso scivolando viscide verso sere placide che non arrivano mai.
Nella stanza di fronte c’è Sante Rivarossa, che di Gremmo è nonno e di Alfredo è padre, reduce da una nottata insonne e stanco della sua intera esistenza. Ci sente poco, Sante, i condotti uditivi lo stanno pian piano abbandonando e lui, coi suoi ottantacinque anni che pesano quanto una zavorra di cui vorrebbe liberarsi definitivamente, spera di chiudere gli occhi in un pomeriggio qualsiasi senza doverli mai più aprire. Ci vede poco, Sante, nemmeno gli occhiali lo aiutano più, però gli odori li sente ancora benissimo, l’olfatto, che ha sempre avuto sviluppato, quello no, non l’ha tradito. È l’odore dolciastro e acidulo della “Maria” quello che gli si infila su per le narici ogni volta che Gremmo si fa una canna. Quell’aroma inconfondibile è l’unica cosa che sente e che lo risveglia dal suo torpore esistenziale.
La porta della sua stanza si apre senza che nessuno abbia bussato. Cipriana, la badante rumena che ogni giorno si prende cura dei Rivarossa, troneggia imperiosa sulla soglia, come è suo solito fare.
«Buongiorno nonno Sante! Stanotte piovuto e tanto freddo ma ora tanto sole, giornata bella sarà, vedrai!»
«Buongiorno» si limita a risponderle laconicamente. Il buonumore di Cipriana gli sembra sempre fuori luogo nella casa dei Rivarossa dominata dalla mestizia.
«Tu dormito bene in tuo letto caldo caldino?»
«Sì, ho dormito, grazie.» Sante mente a Cipriana, non ha nessuna voglia di dirle che non ha chiuso occhio. Sottoporsi a una raffica di domande sui motivi della sua notte insonne è proprio l’ultima delle cose che intende fare.
«Però tua faccia molto brutta, occhi stanchi. Sicuro che tu riposo? A me sembra non tanto.»
«Sono vecchio, la mia faccia è brutta perché sono decrepito.» Spera, Sante, di zittire Cipriana con una parola difficile e di distrarla dai ragionamenti sul sonno, vuole che taccia e non apra più le sue fauci rumene. Sante vuole solo silenzio intorno a sé, ma zittire la badante è impresa impossibile, Sante lo sa, la conosce da troppo tempo per illudersi di poterla indurre a fare ciò che vuole lui.
«Decrapino?»
«De-cre-pi-to.» Sante scandisce le sillabe. Cipriana è solita storpiare le parole che non conosce, Sante ha il sospetto che lo faccia apposta per far ridere chi le sta intorno. I primi tempi lui rideva, ma ora, dopo dieci anni di quella manfrina quotidiana, Sante non ne può più. Non ha voglia di ascoltare, non ha voglia di parlare, vorrebbe che tutto finisse presto, possibilmente senza troppo dolore.
Una fine così: silenziosa, dignitosa, senza strascichi.
Vorrebbe spegnersi, ecco.

* * *

Cipriana entra in cucina, Alfredo sta facendo colazione con la torta rumena alla cannella che gli piace tanto. Per Cipriana è motivo di soddisfazione vedere i Rivarossa mangiare con gusto i cibi rumeni che lei amorevolmente prepara. Cerca di non esagerare con la frequenza, una cena rumena al mese e qualche dolce per colazione sono più che sufficienti per non farla sentire troppo distante dalla sua terra natia.
«Nonno Sante insegnato me parola nuova. Già siamo nel 2013 e dopo tanti anni che io in Italia, ancora tante parole nuove io devo imparare. Pensa!» Non riesce a non essere perentoria, Cipriana, quando parla in italiano.
«Davvero? Io ci sono nato cinquantaquattro anni fa in Italia e da allora parlo italiano, eppure ci sono tante parole nuove che anch’io devo imparare. Pensa! La lingua italiana è una fonte continua di meraviglie, ricordatelo Cipriana.» Alfredo sperava di gustarsi la colazione in pace svignando via prima che Cipriana uscisse dalla stanza di Sante e invece è costretto a fare conversazione con lei.
«Anche lingua rumena è bella. Ah Romania, mia patria, povera nazione, povera nazione! Allora anche tu decrapino come nonno Sante! Ah! Fa ridere! Ridi!» A Cipriana piace fare battute incomprensibili che solo lei capisce e che la divertono pure tanto. E se gli altri non ridono, Cipriana si offende, quindi ordina a tutti di ridere, per non rimanerci male.
«Decra… cosa?» Replica Alfredo ridendo, per compiacerla.
«Vecchio, vecchissimo, cinquantaquattro anni hai, tu malussemme.»
«Decrepito, Cipriana, non decrapino. E Matusalemme, non malussemme. Si dice decrepito e Matusalemme quando uno è molto molto vecchio. Ok?»
«Ok. Tu solo vecchio allora, hi hi. Leila dormito?»
«Sì, ha dormito e sta ancora dormendo, lasciala riposare.»
«Io però sveglio lei ore nove perché dopo troppo tardi per fare colazione.»
«Non siamo in una caserma, Cipriana, lascia in pace Leila. Se ha sonno, che riposi.»
«Se Leila colazione tardi, dopo no mangia pranzo e fame alle quattro! Io so cose che tu non sai e quando tu non qui, cioè sempre, io decido per Rivarossa family. È accordo che abbiamo io e te, Alfredo Rivarossa, ricordi?»
«Da più di dieci anni, ricordo come fosse ieri.»
«Ecco proprio appunto così, quindi io so e tu no, quindi io decido e tu no, se non andare bene tu cambiare Cipriana con giovane moldava bionda o ucraina biondissima e loro fare tutto quello che tu vuoi, Alfredo. Proprio tutto, capito?»
«Lo sai che non ti cambierei con nessun’altra al mondo, Cipriana cara, sei troppo preziosa per noi. E cosa intendi con quel “proprio tutto” non lo voglio nemmeno sapere.»
«Tu dici così per fare me piacere così poi io zitta e muta, shh!»
«Non voglio che tu stia zitta e muta, è che non ti va bene niente!»
«Io mia vita qui con voi va bene, benissimo, io guidare i Rivarossa. Tu capo della famiglia, io capa delle cose dei giorni normali e anche di quelli non normali, che sono tanti qui dentro, eh. Leila sempre strana, Gremmino piccolo mio tanto chiuso e serio, Sante sordo che devo urlare e dice parole poche, sempre meno, però buono con me.»
«E io?»
«Tu fai brutta vita, questo so. E quel “proprio tutto” di prima diceva che avresti bisogno, sei uomo, devi avere tuoi sfoghi di sesso.»
«Faccio quello che posso, Cipriana. E di sesso con te non voglio parlare perché non sono affari tuoi, chiaro?»
«Ok, scusare me, chiaro, chiarissimo, no affari miei, non dico più, tu hai ragione, mai più questa cosa del sesso, mai più. Tu bravo uomo, ma dover stare di più qui dentro. Gremmo bisogno di padre, parlare con lui, ridere con lui, guardare film con lui e anche fare giri fuori con lui. Ascolta Cipriana che ti dice sempre cose giuste, giustissime.»
«Hai ragione, sei molto cara e saggia, troverò il tempo per Gremmino piccolo tuo. Ora vado al lavoro, forse ci vediamo a pranzo, altrimenti ci vediamo stasera.»
«Tanto io so che torni con buio fuori. Dici sempre forse pranzo ma è sempre cena o anche notte. Tu fai brutta vita, lavoro, lavoro, lavoro, solo lavoro. Sei capo del lavoro, lo so, però io detto prima, sei anche capo di Rivarossa family. Giusto che tu stare qui, anche. Scappa, scappa, ti conosco bene benissimo, signor Rivarossa, che scappi e non stai!»
«Romania, povera nazione, povera nazione!» Uscire dai tentacoli di Cipriana è spesso impresa ardua e Alfredo se la cava così, facendole il verso ; si alza da tavola e fugge al lavoro.

24 maggio 2019

Evento

Venerdì 24 maggio - Viller Salone di bellezza, Piazza del Monte, 9 - Reggio Emilia

Nel mio romanzo i capelli hanno un ruolo molto importante: simbolici, evocativi, significativi per i passaggi di vita dei personaggi che stanno al centro di Pietre sopra. L’idea mi è venuta guardando i totem appesi nel salone del mio parrucchiere. Su sfondo bianco, con semplici tratti neri, i capelli diventano disegni e parole scritte da bambini della mia città. Disegni e parole lievi usciti dai pensieri di anime pure che guardano il mondo con gli occhi dell’incanto. Quei disegni e quelle parole sono entrati a far parte della vita di Bettina, la protagonista più piccola del mio romanzo. E così, parlandone con Viller, persona splendida e dalla sensibilità raffinata, abbiamo deciso di far entrare Pietre sopra nel suo Salone.
Venerdì 24 maggio, dalle ore 11.00 in poi, incontrerò le clienti di Viller nel suo salone di Bellezza, a Reggio Emilia, in Piazza del Monte, 9.
https://www.viller.it/
05 aprile 2019

Aggiornamento

Grazie agli amici dell'Osteria Guerrina per la splendida serata! Osteria Guerrina
04 aprile 2019

Evento

Osteria Guerrina, Via Migliorati 2, Reggio Emilia Giovedì 4 aprile 2019 alle 18,30 all'Osteria Guerrina di Reggio Emilia: Aperidialogo tra Stefania Sabattini e Federico Alessandro Amico. Discuteremo insieme a loro del progetto letterario di Stefania, Pietre Sopra, un libro di incontri casuali che cambiano esistenze, capitoli che incollano cocci di vite incrinate, righe che regalano l'immaginazione che serve per volare, per trovare il coraggio di guardarsi negli occhi e poi girare le pagine della vita. Non perdiamoci di vista, che a dialogar con un lambrusco in mano i progetti prendono forma. Aperidialogo tra Stefania Sabattini e Federico Alessandro Amico
20 marzo 2019

Aggiornamento

Le mie Pietre Sopra in diretta a Telereggio. Grazie a Susanna Ferrari per avermi ospitata a "Buongiorno Reggio". Pietre Sopra in diretta a Telereggio
18 marzo 2019

Aggiornamento

All'Osteria Guerrina di Reggio Emilia si progettano Pietre Sopra nel locale "locale" con l'autrice... locale! Novità in arrivo grazie a Germana Corradini e Marco Aicardi. Osteria Guerrina di Reggio Emilia Pietre Sopra
08 marzo 2019

Aggiornamento

Ecco qui l'articolo pubblicato nell'inserto Cultura del periodico "La Piazza". Un grazie di cuore a tutto il Comitato di redazione. periodico La Piazza
02 marzo 2019

Aggiornamento

È così bello parlare di libri! Ho accolto l'invito dell'Istituto Marani di Fabbrico a fare una chiacchierata in libertà su cosa significa scrivere e sul piacere di leggere. Ci siamo raccontati la passione per la scrittura e per la lettura. Al centro dei nostri discorsi, il mio nuovo romanzo, Pietre sopra. Istituto Marani di Fabbrico
24 febbraio 2019

Aggiornamento

Il mio amico di blog Massimo Legnani mi ha fatto una bella sorpresa pubblicando un post sulle sue Orearovescio dal titolo "crowdfunding".
Racconta di me e di come scrivo.
Potete leggerlo a questo link.
21 febbraio 2019

Aggiornamento

Oggi, con il mio amico di lunga data Graziano Ciano Marani, artista poliedrico e uomo di grande spessore e umanità, ho lavorato a un pezzo brillante che uscirà ai primi di marzo sul periodico "La Piazza di Fabbrico". Racconterà di Pietre sopra in un modo un po' speciale, come sappiamo fare noi fabbricesi. periodico La Piazza di Fabbrico Pietre sopra

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Stefania Sabattini
STEFANIA SABATTINI è nata nel 1972 in provincia di Reggio Emilia, dove vive e lavora. Laureata in Scienze politiche all’università di Bologna, si occupa di protezione dei dati personali ed è impiegata nella pubblica amministrazione. Scrive da quando era bambina. Sale fra le dita è il suo terzo romanzo, dopo È così fragile (2012) e Niente di Niente (2015). Nel 2013 ha pubblicato la raccolta di racconti L’osso e il blu ed è stata finalista al Premio Loria con il racconto Corsa neve freddo luce.
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