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Portare il sorriso con un pallone

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Gabriele è stanco delle solite estati trascorse all’oratorio del suo paesino di provincia: ha voglia di provare qualcosa di nuovo. In suo soccorso arriva il Centro Sportivo Italiano, che sta organizzando una missione di volontariato con lo scopo di portare un sorriso attraverso lo sport. È così che nel 2015 inizia il suo viaggio ad Haiti.

Inizialmente spaventato dalla nuova realtà in cui si trova, dominata da povertà e situazioni di disagio, l’autore racconta attraverso brevi episodi il suo viaggio ai Caraibi. Arricchito da spunti di riflessione e aneddoti che strappano un sorriso, questo libro fornisce una nuova visione sulla società in cui viviamo: siamo davvero certi di essere noi quelli più fortunati?

La scelta

Tutto iniziò nell’ottobre del 2014.

In quel periodo mi stavo chiedendo cosa fare l’estate successiva. Per attitudine, tendo a programmare ogni cosa con parecchio anticipo.

Da dieci anni, le mie estati orbitavano intorno alle proposte dell’oratorio di Bellusco, il paese in cui ho sempre vissuto.

Sentivo che dovevo cambiare aria, concentrarmi su qualcosa di nuovo, donare il mio tempo ad altro e ad altri. Non che non mi piacesse più l’ambiente in cui sono cresciuto, ma sentivo di aver dato il massimo. Iniziai quindi a confrontarmi con gli amici storici e le persone a me più vicine.

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Mi passò per la testa l’idea di fare volontariato all’estero. Chiesi informazioni ad alcuni ragazzi che, negli anni passati, avevano fatto esperienze simili. Il primo che sentii tra loro fu Mombe, grande fan delle missioni. Purtroppo l’associazione con la quale era partito aveva già pianificato il percorso per l’estate successiva, quindi ero già in ritardo.

Ci pensavo ogni giorno, ne parlavo continuamente con gli amici. Fino a che non ne parlai anche con Marco.

Io e lui ci sentiamo ogni giorno: ha mille agganci e quindi mi confronto spesso con lui. Coincidenza: suo fratello era appena andato ad Haiti con il CSI (Centro Sportivo Italiano). Lo contattai subito.

Ascoltando vari racconti, mi convinsi sempre di più. Volevo partire. Il mio sogno sarebbe stato quello di andare in Brasile, dove sono nato, ma mai più tornato. Purtroppo la burocrazia non mi permette di poterlo fare facilmente.

Ho entrambi i passaporti, sia quello italiano che quello brasiliano. Il possesso di quest’ultimo mi fa sentire molto attaccato alle mie radici, ma comporta anche diversi oneri. Tra questi, c’è l’obbligo del servizio militare. Il mio ritorno in patria potrebbe comportare il fatto che mi trattengano per sei mesi, per adempiere a questo compito. Ho preferito quindi rimandare il mio ritorno a quando potrò rientrare senza dover prestare quel tipo di servizio.

Dovevo rimandare quel viaggio, ma nella mia testa c’era la voglia di partire, di sentirmi utile.

Passano i mesi. Siamo a gennaio 2015, sto navigando su Internet cercando informazioni sulle probabili formazioni per la prossima giornata della Serie A, per il fantacalcio, e mi compare un banner: CSI PER IL MONDO. Ecco il segnale che aspettavo. Clicco e mi iscrivo alla formazione.

Non so ancora la destinazione. La mia famiglia è ancora all’oscuro di tutto ciò. Ne parlo solo con le persone che frequento in oratorio. Viene fuori che, tra loro, anche un’altra persona si è iscritta allo stesso percorso di formazione: Gaia. Altra coincidenza: lei nel 2019 si sposerà con Mombe, proprio la prima persona alla quale avevo chiesto informazioni per intraprendere un viaggio, in cui poter aiutare da vicino, persone in situazioni di disagio.

La formazione

Volevo partire, sì ma per fare cosa? Destinazione? Cosa e chi avrei trovato sulla mia strada?

Avevo mille domande che mi passavano per la testa.

A fine febbraio arrivò la conferma che il mese successivo avremmo iniziato la formazione, proprio con il CSI.

Al primo incontro eravamo circa trenta persone. Chi faceva l’arbitro, chi il cheerleader, chi il clown, chi era già madre ma non aveva parlato con la sua famiglia della sua idea. Insomma, c’era di tutto.

Tra di loro, c’era anche una persona che da lì a poco mi avrebbe cambiato la vita, ma questo lo racconterò in seguito.

I responsabili del progetto iniziarono a raccontarci la struttura delle varie giornate che avremmo vissuto, nel caso in cui avessimo accettato di partire. Poi ci fu una breve testimonianza. Un volontario, Alberto, che era già partito più volte per Haiti con il CSI, ci raccontò le sue emozioni, la sua esperienza sul campo, le partite di calcio coi bambini e la gioia che essi trasmettevano coi loro sorrisi. Parlò di tutte le emozioni che si portava a casa ogni volta che ritornava da quel viaggio.

Infine i referenti ci presentarono le possibili destinazioni: Albania, Camerun o Haiti stessa.

Non ero interessato alla destinazione, dentro di me c’era il desiderio di partire, di dare una svolta alla mia vita.

Come conclusione dell’incontro, aggiunsero una frase che ci univa, ci motivava, ma allo stesso tempo risuonava nella mia mente come una follia: Portare il sorriso con un pallone. Quello era l’obbiettivo del gruppo.

Cosa? pensai dentro di me, povertà, degrado e tutte le problematiche che circondano queste persone, e noi dovremmo farli sorridere con un pallone? Era impossibile.

Nei mesi successivi, ci sarebbero stati altri incontri, durante i quali ci avrebbero chiesto di metterci in gioco e di essere noi stessi.

In primavera, gli organizzatori propongono un week-end di formazione, in un oratorio di Milano.

Premessa: sembro una persona seria, ma in fondo sono un idiota (nel senso buono del termine). Mi piace divertirmi e far ridere gli altri. Sparo un sacco di idiozie, mi piace scherzare e lo farei per ore, ogni santo giorno.

Quella volta partii in sordina, stavo sulle mie, anche perché ero in una situazione nuova e avevo bisogno di ambientarmi; ci vollero circa venti minuti.

Ci spiegano il programma e pronti via, ci spediscono per le vie di Milano, per delle prove di gruppo. Inizio ad affibbiare soprannomi ai passanti (li ringrazio per non avermi insultato). Faccio innumerevoli foto con chiunque e di conseguenza, conosco moltissime persone. La premessa era sempre la stessa: “Scusi se la disturbo, ma ho perso una scommessa. Possiamo fare una foto insieme? Possiamo cantare insieme? Posso prenderla in braccio?” e tanto altro, per iniziare a fare gruppo.

Torniamo al punto di ritrovo, dove ci aspettano delle sfide sportive.

Oltre a essere un idiota, sono competitivo (forse troppo). Nella mia testa devo vincere, quindi inizio a provare a caricare i compagni di squadra (mi avranno preso per matto).

Tra staffette e varie sfide mi dimentico che, di fronte a me, ci sono perfetti sconosciuti, con i quali dovrò condividere tre settimane della mia vita e soprattutto persone che pesano sessanta/settanta chili in meno di me. Per farla breve, spinto dall’impeto del gioco, ne ho fatte cadere una e altre due le ho colpite con forza con una pallonata.

Se voglio far parte di un gruppo o provare a essere un esempio, devo cambiare atteggiamento.

Chiedo scusa e torno in me.

La formazione si conclude con un momento più tranquillo. Ci si inizia a conoscere a livello umano e a condividere le proprie storie.

La serata si conclude poi con una cena, che tocca a noi preparare. Viste le mie scarse doti in cucina, mi propongo per apparecchiare, spostare tavoli e qualsiasi altra cosa mi tenga lontano dai fornelli.

Durante il week-end di formazione successivo, in un oratorio di Sesto San Giovanni (MI), incontrammo Emiliano Mondonico, storico allenatore di calcio ad alti livelli. Nella sua carriera ha sempre orbitato tra squadre di Serie A e Serie B. Mi colpì molto la sua umiltà e la sua umanità. Arricchì i suoi racconti con aneddoti e consigli su come diventare un bel gruppo. Ero ammaliato dai suoi pareri, sembrava in grado di leggerci dentro. Lo avrei ascoltato per ore. Mi affascinarono gli aneddoti calcistici sui tanti professionisti passati sotto la sua guida, in particolare su Edmundo, detto O Animal, calciatore eclettico degli anni Novanta. «Ognuno di voi potrà fare del bene a dei bambini. Anzi, ne sono certo: lo farà. Servono gli attributi per farlo. Servono per farlo sui campi dei nostri oratori, servono per farlo nelle società sportive e servono anche dall’altra parte del mondo. Non formerete dei campioni, ma la vostra partita la vincerete».

Il significato di quell’ultima frase, l’avrei capito qualche mese dopo.

Prima di finire l’incontro con la classica foto ricordo di gruppo, il mister concluse con l’ultimo consiglio: «Non abbiate paura».

Terminato quel momento di scambio, i referenti ci divisero in gruppi, per confrontarci sulle attività da proporre nelle missioni e per capire come mettere in pratica le diverse idee di ognuno di noi. Nei gruppi c’erano sia veterani, ovvero chi aveva già vissuto questo tipo di esperienza, sia nuovi arrivati. Eravamo incuriositi. Volevamo rubare più segreti possibili per affrontare al meglio ciò che avremmo trovato davanti a noi in quelle tre settimane. Ci raccontarono diversi aneddoti sui bambini che facevano i “furbi”, cercando di sottrarre oggetti appartenenti ad altri, e su come i più grandi li “educavano”, in maniera a volte anche fisica. Ci spiegarono come fossero organizzate le giornate e condivisero episodi divertenti riguardo i costanti ritardi degli haitiani. «Potete starne certi, arriveranno sempre in ritardo» ripetevano i veterani.

«Vogliono sempre giocare e ballare» aggiunse una di loro. «Ah, ecco. Niente cose di valore.» Rimasi perplesso o, forse nella mia ingenuità, non capii quella frase. Chiesi una spiegazione.

«Non hanno niente, e se trovano qualcosa di valore, possono usarlo per rivenderlo ad altri.»

La risposta mi fece riflettere.

Venne conclusa con altre parole che mi lasciarono di sasso: «Alcuni di loro, non hanno veramente niente. Qualcuno dei più grandi lo vedrai con il telefono in mano, ma da come mangiano e da come si vestono, capirete».

Li per lì, non potevo comprendere a pieno il peso di quelle parole.

L’incontro finale prima della partenza era solo tra di noi, futuri compagni di viaggio. Abbiamo vissuto gli ultimi momenti di confronto e ci siamo suddivisi i compiti per gestire al meglio la nostra avventura, iniziando a organizzare le prime attività da proporre: chi si occuperà della musica, chi insegnerà nuovi giochi ai bambini più piccoli, chi preparerà schemi e attività per i vari sport che andrà a far conoscere e sperimentare ai bambini.

2021-03-09

Aggiornamento

Ci siamo! Grazie a tutti! Grazie per aver creduto in questo progetto!

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Gabriele Mangano
è nato nel 1989 in Brasile. Alla fine dello stesso anno viene adottato da una famiglia della Brianza. Appassionato da sempre di sport, cinema, fumetti e viaggi, da adolescente scopre il mondo della pallacanestro e soprattutto quello del volontariato, ovvero la gioia del donare il proprio tempo. Da cinque anni è docente della scuola primaria.
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