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Quasi tutti, tranne me

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Cosa vuoi fare da grande? È questa la domanda assillante di cui Loretta Carrozza, nubile e sull’orlo dei 40 anni, non ricorda più la risposta. Troppo impegnata a proteggere quel lavoro che detestava, Loretta era cresciuta con la cantilena del posto fisso e della laurea, come fossero l’ultima cucchiaiata di un piatto odiato. Questa era la patetica conclusione a cui era giunta, in un pomeriggio di shopping infrasettimanale concesso da Gianna Pittaluga, quella “stronza” del suo capo. Grazie a un suo consiglio non richiesto, infatti, Loretta dovrà ammettere di essere stata una pessima sognatrice, incapace di godere delle proprie aspirazioni perché paralizzata dal timore dell’insuccesso. Inizierà, così, un percorso a ritroso, targato anni ’90, in cerca di risposte. Tra le tante che troverà, due la spiazzeranno: Simone, un amico d’infanzia, e Franca, una bambolina creata in una notte d’estate di vent’anni prima, che cambierà le sorti della sua carriera.

1. Il dito medio

Un altro lunedì era appena iniziato. L’ennesimo tempo supplementare di una domenica trascinata senza sgomenti. Mi nauseava il pensiero di dover dare il buongiorno a tutti i miei colleghi, ma mi nauseava ancora di più la paura di non averne. La paura di rimanere senza un posto di lavoro era la sindrome che colpiva tutti quelli della generazione X, la mia, schiacciati tra il benessere degli anni Novanta e la precarietà esplosa sotto le Torri Gemelle, etichettati come eterni indecisi, senza una meta da raggiungere né un destino da sfatare. E io, come ognuno di loro, giocavo alla vita con una mano di carte mediocri.

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«Buondì, Loretta!»

Buondì una minchia! Era il mio mantra del mattino.

«Buongiorno, Susanna! È andato bene il week-end?»

«Niente di che. Con il Paolo siamo andati a sciare e poi a guardare qualche vetrina nella Valcamonica.»

Susanna: stagista di ventuno anni, seno rifatto a diciannove, proprietaria di un’utilitaria ecologica da ventimila euro e amante dell’articolo davanti ai nomi propri, così da camuffare il suo accento barese, neanche fosse un crimine.

«Senti… mi ha cercata qualcuno?»

«Sì, Gianna ha detto di passare nel suo ufficio.»

Ecco la partenza perfetta per un lunedì: il capo che mi stava cercando; o meglio, come ero solita chiamarla, quella “Stronza” del mio capo, Gianna Pittaluga. 

Originaria di Genova ma milanese d’adozione, Gianna era una persona del tutto normale: alta normale, magra normale, simpatica normale; la sola cosa che la rendeva straordinaria era la disinvoltura con la quale metteva in mostra la sua assenza di qualifiche. Figlia di un ex comandante dei vigili urbani, divorziato e poi risposato con una consigliera comunale di Lavagna, Gianna era stata assunta, fin dal primo giorno, con un contratto a tempo indeterminato. Ottenuta la laurea in Sociologia, a trent’anni, l’anno successivo era già stata nominata communication manager della Birillo Giocattoli. Tuttavia, la carriera privilegiata della Stronza era iniziata prima, a ventisette anni. A quella stessa età, invece, io firmavo ancora contratti a termine, senza retribuzione né rimborso spese.

«Loretta, ciao! Ci sono novità?»

«Buongiorno, Gianna! No, ancora niente. La deadline è fissata per questa mattina.»

«Secondo te, dobbiamo proporgli un accordo a cinque anni, oppure aspettiamo la loro offerta?»

Gianna aveva dubbi anche su quale giorno della settimana fosse, figuriamoci prendere da sola una decisione. Anzi, ogni scelta che faceva in autonomia si rivelava un’imbarazzante catastrofe. In ufficio ancora si chiacchierava di quel suo intervento in occasione di un’importante campagna pubblicitaria per il rilancio del gioco della tombola napoletana, in versione vernacolare. Durante quella riunione, Gianna aveva proposto di tradurre in inglese, sul tabellone, il numero 71, conosciuto nel capoluogo partenopeo come “l’omm e merda”. Dall’alto delle sue attente valutazioni, aveva sostenuto che, in dialetto, il malcapitato numero suonava “cafone”, mentre “The Shitty Man” gli avrebbe dato un’aria più “cool”. Questo oculato intervento, esposto dinnanzi ai vertici aziendali, di origine campana, era stato prontamente stroncato da Ivo Pazzagli, amministratore delegato e suo padrino di battesimo. Tra colleghi lo chiamavamo la “Mano de Dios”, perché era lui il responsabile dell’assunzione, e poi della promozione, della Stronza. 

Pazzagli, un sessantacinquenne improfumato e sempre vestito di tutto punto, poteva risultare piacevole come la prima giornata di ferie oppure essere peggio di un mal di denti. In quell’occasione, infatti, aveva zittito e messo all’angolo Gianna come fosse una bimba che faceva i capricci.

«Loretta, se per l’ora di pranzo non ci danno una risposta, li chiamiamo e ci parli. Ok?»

“Li chiamiamo”, plurale, “ci parli”, singolare. C’era qualcosa che mi sfuggiva, conoscevo le carenze grammaticali di Gianna, ma quell’errata concordanza non poteva essere casuale.

«Scusa, vuoi che ci parli io

«Sì, meglio se lo fai tu! Adesso vai, e chiudi la porta quando esci.»

La Stronza aveva liquidato la faccenda senza neppure degnarmi di uno sguardo. Sinceramente, oltre alla porta, le avrei volentieri chiuso la bocca con una sparachiodi. Invece, con espressione plastica, quasi da Dama con l’ermellino, avevo fatto meccanicamente quanto mi era stato chiesto. 

In tarda mattinata era arrivata l’e-mail dei compratori spagnoli che stavamo aspettando, la risposta era talmente chiara che non c’era stato bisogno della traduzione: 

Lamentablemente, no podemos aceptar vuestra oferta. 

Seguimos en contacto para futuras ocasiones. 

Dalla penisola iberica ci avevano appena rifilato un dito medio in merito al nostro nuovo progetto commerciale. Gli spagnoli non avevano lasciato spiragli a negoziazioni e, ancora meno, a spiegazioni. Gianna aveva lavorato a quella proposta per più di sei mesi, rappresentava il suo debutto a capo del lancio di un prodotto rivoluzionario per l’azienda. 

Prima di comunicare il rifiuto di quella proposta alle alte sfere aziendali, la Stronza sapeva che avrebbe dovuto fare un ultimo, disperato, tentativo di contrattazione. Anche se questo gesto, in realtà, sarebbe stato come porgere il tovagliolo a chi aveva già terminato di cenare. 

«Questa non ci voleva proprio! Dobbiamo assolutamente trovare una soluzione. Adesso che facciamo?» Gianna aveva pronunciato quelle parole con un tono cupo, quale oscuro presagio di una catastrofe annunciata. Se fosse servito a qualcosa, avrebbe dato una testata sul tavolo per farne uscire una soluzione; invece, come una bambina che non sa come gestire un “no”, aveva pensato bene di alleggerire il suo carico emotivo con un “che facciamo?”, come se la cosa riguardasse anche me, che per lei contavo meno di un Post-it usato. Quel suo modo di fare, nonostante ciò, riusciva quasi a intenerirmi, mi faceva sentire una ragazzina, sorpresa in sella a un motorino che non avrebbe mai dovuto cavalcare. Gianna sapeva come coinvolgermi in questa specie di regressione, instillandomi sensi di colpa che, poche volte, mi assalivano. Sapeva che sarei intervenuta, che l’avrei aiutata. Conosceva bene la mia natura, quell’istinto immaturo più adatto a una liceale che a una donna di quasi quarant’anni. In quello studio dalle pareti ocra, stavo per dare tutto il mio sostegno a una persona che, solo pochi mesi prima, mi aveva ridicolizzato durante un importante meeting aziendale. E adesso me ne stavo lì, in piedi, impalata sui tacchi, aggrappata allo schienale di una sedia vuota, come fossi un pappagallo idiota, dinnanzi alla sua scrivania, arredata con foto di vacanze esotiche e una candela profumata, mai accesa. La Stronza chiedeva il mio aiuto senza neppure invitarmi a sedere. 

Gianna continuava ad arricciare nervosamente il bordo di un foglio, ripeteva in loop che dovevamo riuscire a far cambiare idea agli spagnoli; soprattutto, dovevamo riuscirci prima che la notizia arrivasse al consiglio d’amministrazione. Era terrorizzata, sapeva che Pazzagli aveva già terminato tutti i salvataggi e che la sua scialuppa, adesso, si avviava in mare aperto. Il suo stesso padrino, infatti, era stato avvisato: questa era l’ultima opportunità per Gianna di dimostrare le sue capacità. 

Lasciato il suo ufficio, tornai alla mia postazione e presi a modificare la proposta, potevo farlo senza inconvenienti visto il mio ottimo spagnolo. La Stronza mi aveva anche chiesto di aggiungere dei commenti a margine, cosa che avevo già fatto sulla bozza precedente alla proposta. In realtà, li avevo scritti con la convinzione che non sarebbero stati mai letti. Ero sicura, infatti, che quelle mie considerazioni venissero direttamente cestinate; invece, doveva essere davvero disperata per chiedere a me, la sua assistente, di suggerirle delle idee. Gianna desiderava, più di tutti, firmare quel contratto anche per dimostrare che la sua assunzione, in fondo, non era stata frutto della raccomandazione di un amico paterno. Io, invece, era da tempo che non desideravo nulla. Il mio ruolo era, piuttosto, quello di una sartina intenta a infilare e sgranare concetti, come pietre di un rosario a cui affidarsi. Mi ero permessa di scrivere quelle valutazioni, precedentemente al rifiuto degli spagnoli, solo per ricordare a me stessa che, nonostante tutto, possedevo anch’io un organo pensante. D’improvviso, con quella richiesta, Gianna mi aveva fatta sentire utile, quasi indispensabile. 

Fatto! La proposta di vendita e di comunicazione per il lancio del nuovo prodotto della Birillo Giocattoli era pronta. 

«Gianna, posso?»

«Entra pure, Loretta.»

«Ti ho mandato la nuova bozza via e-mail.»

«Perfetto! Siediti e vediamola insieme.»

Era bastato quell’invito a sedermi per sentire nostro, per la prima volta, il tentativo di salvare quella proposta. Il contenuto dell’offerta comprendeva la vendita e la promozione di un nuovo articolo che prometteva furore in Spagna. Il creatore dell’innovativo prodotto si chiamava Giovanni Colaci, un curatissimo cinquantenne, veneto, considerato uno stimato direttore di marketing e visual merchandising della Birillo Giocattoli. Colaci era stato assunto da più di dieci anni, riuscendo a imporre il marchio dell’azienda nel competitivo mercato dei giocattoli per bambini. Tuttavia, per il nuovo progetto, il cinquantenne palestrato aveva puntato tutto su un pubblico più maturo e più trendy. Il diktat, raccomandato da Colaci, imponeva la captazione di clienti capaci di decidere da sé i propri acquisti e, soprattutto, li voleva già soggiogati alla moda del momento. Colaci pretendeva di introdurre un cambiamento radicale nell’immagine di un’azienda che si era affermata sul mercato dell’infanzia ed era diventata famosa proprio per la sua connotazione familiare. Per la Birillo, invece, era arrivato il momento di anticipare le tendenze, immettendo sul mercato un oggetto di cui si sarebbero innamorate quelle che, un decennio prima, erano state le bambine a cui avevamo venduto le nostre bambole. La nostra responsabilità era, dunque, quella di prevedere di quale nuovo prodotto non avrebbero più potuto fare a meno e di generare, in loro, un nuovo stato di necessità. Colaci era deciso a instillare, in queste giovani preadolescenti, l’esigenza di esclusività, come fosse un pus pronto a infettare anche le successive generazioni. Stando alle sue analisi, infatti, le ragazzine spagnole rappresentavano un pubblico sufficientemente liberale e, per questo, perfetto per testare il potenziale di Dominga. Era questo il nome scelto per il sofisticato prodotto da distribuire nella penisola iberica. Gli studi di mercato, infatti, indicavano che la Spagna era il
Paese europeo con il più alto indice di mastoplastica additiva tra le giovani di età compresa tra i diciotto e i ventuno anni; il quarto, in tutto il mondo. Il nuovo apparecchio firmato Birillo Giocattoli era una sorta di palmare di ultima generazione a cui erano collegate delle ventose da applicare sui capezzoli. Tra le sue funzioni erano compresi: il calcolo del peso di ogni mammella, l’aumento esatto della taglia e la produzione di latte misurata in millilitri, in caso di gravidanza. Dominga, inoltre, forniva tabelle di esercizi utili per prevenire gli indesiderati effetti antiestetici della gravità e consigliava modelli di reggiseno, a seconda della forma e delle occasioni. Insomma, prometteva di essere un must assoluto, che Colaci aveva disegnato con il massimo impegno. Il suo prestigio come creativo era iniziato nel 1994, grazie alla sua partecipazione nella realizzazione della campagna pubblicitaria di un famoso push-up, sponsorizzato dalla modella del momento, Eva Herzigova, che invitava gli italiani a guardarla negli occhi. Lo spot ebbe un tale successo che la modella ceca divenne, immediatamente, un simbolo da adorare, come fosse una nuova madonnina nazionale. Tenendo in conto quel risultato, dunque, il marketing team della Birillo era giunto alla conclusione che, ancora una volta, era sulle tette che bisognava puntare; ma, soprattutto, sulla voglia di grandi e piccine di averle sempre più tonde, sode e plastificate. Secondo le statistiche apportate dal guru Colaci, infatti, ricevere e gestire, sin da giovani, dati e informazioni sullo sviluppo del proprio corpo avrebbe favorito o, al contrario, evitato almeno un intervento di chirurgia estetica. Il nuovo obiettivo della Birillo Giocattoli era, dunque, quello di creare aspettative sul futuro di quei seni, suscitando desideri e necessità a uso e consumo del mercato. 

Al di là di quello che gli addetti al settore continuavano a chiamare, forse per abitudine, “giocattolo”, la Dominga assumeva un peso e un significato maggiori, almeno per me. Mi chiedevo, infatti, perché una rispettata azienda, nata e pensata per il benessere dei più piccoli, volesse lanciarsi in un puttanaio internazionale. Quel che era peggio, mi chiedevo come mai la cosa, in fondo, mi facesse anche piacere. Forse, iniziavo a vedere questo cambiamento come un’opportunità per avere un po’ di brio, un minimo di colore in questa vita d’ufficio che, altrimenti, avrei ricordato grigia, come lo erano i tailleur di Armani dei primi anni Novanta. 

Gianna aveva finalmente terminato di leggere quanto ero riuscita a rammendare della sua proposta di contratto. La Stronza aveva assunto la stessa espressione di chi trovava le chiavi di casa dopo averle a lungo cercate nella borsa.

«Senti, ho avuto un’idea geniale! Che ne pensi se gli proponiamo anche una campagna teaser con una ragazzina nuda messa di spalle?»

«Un po’ audace, forse! Si tratta sempre di una minorenne…»

«Ma no, Loretta! Tanto, due giorni prima dell’uscita sul mercato facciamo rivedere la stessa ragazzina, però, con due Dominga sul petto.» 

Annuivo, assente, dinnanzi all’immagine adamitica proposta da Gianna. “Carino!” era stata la mia esile replica. In realtà, mi faceva schifo. Senza neppure soffermarsi sulla mia dubbiosa reazione, la Stronza stava già cambiando la slide numero dodici che accompagnava la nuova proposta. La strategia di penetrazione ai media, adesso, prevedeva di svestire una preadolescente a cui, probabilmente, non avremmo affidato neppure una battuta da recitare nello spot. 

In serata, anche chiamato “tardo pomeriggio” da quei dirigenti senza fretta di rincasare, era arrivato il secondo rifiuto degli spagnoli. Questa volta avevano elargito ancora meno spiegazioni. La luce del computer di Gianna sbatteva sulle lenti dei suoi occhiali. Lei, con la testa tra le mani, stava stritolando i capelli ramati, intrappolati in grandi ciocche. Questo era stato il secondo, vero “no” della sua vita. Gianna stava scoprendo che sapore aveva sentirsi negati qualcosa, l’aroma amaro di un rifiuto. Agli spagnoli, infatti, non fregava nulla che suo padre e Ivo Pazzagli erano stati compagni di università; a loro non importava sapere delle altolocate parentele di sua madre, o come facesse sempre ad avere i biglietti per le anteprime alla Scala. Gianna, che da oltre due mesi frequentava un prestigioso master in Comunicazione e Management, era fottuta. Lo era dal giorno in cui le avevano fatto un contratto per un lavoro che non conosceva e, visti i risultati, ancora non capiva bene. Ci provava, lei. Da Genova era venuta a Milano, con l’appartamento già pagato e un fidanzato che veniva a trovarla tutti i fine settimana; un ragazzo che dopo quattro anni di relazione era stato piantato perché Gianna aveva capito che non sarebbe mai riuscito a gestire anche la sua vita. Un tipo così, infatti, non le si addiceva. Per lei ci voleva uno alla “a te, ci penso io!”, qualcuno con cui poter organizzare le vacanze di Natale e i ponti pasquali. Uno che la invitasse a cena fuori, invece che all’aperitivo; che le regalasse scarpe al posto di un mazzo di fiori; un tipo che baciava con la lingua, anche dopo i primi tre anni di relazione. Insomma, sognava le stesse cose che volevano in molte, non era un crimine desiderare un amore che si facesse carico di lei. Era impopolare, forse, ma non criminale. Abituata, sin da piccola, a ricevere senza chiedere e a chiedere con la garanzia di ricevere. Nessuno si era mai preoccupato di sapere se a Gianna piacesse quel lavoro alla Birillo, per quelli come lei esistevano solo scelte già impacchettate, posti di lavoro che arrivavano come regali da scartare, senza possibilità di cambio. Gianna era cosciente della sua posizione privilegiata, aveva imparato a gestirla con disinvoltura, chi non l’avrebbe fatto al posto suo? Tuttavia, questo era il motivo che la rendeva disprezzata da molti e commiserata da me. Mi ero sempre chiesta, infatti, se fosse veramente quello il posto in cui voleva stare, la vita che voleva fare. Mi chiedevo come ci si sentisse ad avere, sempre, la certezza di una stabilità e, magari, ritrovarsi a non volerla. Mi piaceva fantasticare sulla sua adolescenza, immaginandola ribelle e con i pantaloni a vita bassa, l’orlo scucito e sporco di strada. Immaginavo una Gianna ai limiti dell’anarchia, costretta a rinunciare alle sue lotte a pugno chiuso per tenersi il futuro che il padre aveva ottenuto, per lei, a prezzo di favore. La realtà, però, mi restituiva una verità diversa da quella caricatura che le avevo cucito addosso. La Stronza, infatti, non perdeva occasione di atteggiarsi a donna in carriera, superiore a me. Forse, tra le due, quella da commiserare per non aver avuto scelta ero io. Portavo un nome che detestavo, Loretta Carrozza, con una laurea in Scienze della Comunicazione che mi era servita solo per tappare gli spifferi ai vetri della macchina. Costretta a stare a Milano, da circa quindici anni vivevo in un minuscolo appartamento in Stretta Bagnera, una viuzza talmente striminzita da non poter essere definita neppure tale. Nonostante abitassi da più di dieci anni nel capoluogo meneghino, continuavo a fare la spesa senza mai comprare le conserve, perché quelle le portavo da giù, assieme ai taralli, alle friselle e all’olio, come se avessi la residenza all’estero. Le mie origini erano veracemente meridionali, radicate in un incantevole borgo marinaro appollaiato sulla costa adriatica. Termoli era conosciuta più per la visita di qualche vip che per la sua storia antichissima fatta di battaglie contro i Turchi. Avevo scelto di vivere la mia vita lontana da quegli assalti, eppure non ne perdevo uno. Tutte le sere, infatti, alle ventuno precise, parlavo con i miei genitori e chiedevo il resoconto della loro giornata e di quella degli altri conoscenti del paese. Non c’era movimento, infatti, che non venisse captato dalla migliore telecamera ancora in circolazione: l’occhio di mia madre. 

Ciò che più mi mancava di quel luogo era l’umidità del mare, pronta ad arrampicarsi sui capelli; il brusio delle porte semiaperte, nelle case del borgo vecchio; e poi, ancora, svegliarmi nel mio letto, con le lenzuola che sapevano di bucato fresco, anche dopo una settimana. Mi mancava l’immediatezza dei rapporti con la gente, il dialetto parlato stretto e anche il saluto mattutino con ogni passante. 

Da quando vivevo a Milano, che a volte si era dimostrata una città ostile, avevo comunque imparato a capirla e a trattarla come fosse una signora anziana che esige rispetto. Ero anche riuscita a crearmi un piccolo circolo di fiducia, una vita di quartiere che nulla aveva da invidiare a quella di giù, fatta da Pinuccio, il macellaio, o Mimmo, il pizzaiolo egiziano. Quando poi veniva in città mia sorella Carmen, ci viziavamo con i cannoli siciliani comprati dalla signora Agata che, mentre li riempiva, ci offriva anche un assaggio di cassata. A parte il cambio di latitudine e la mancanza della famiglia e degli amici, a Milano c’era la mia modesta vita che facevo anche grazie al lavoro presso la Birillo Giocattoli. Da un numero imprecisato di anni, infatti, svolgevo il ruolo di assistente marketing e comunicazione. Quello alla Birillo era stato il mio primo colloquio importante, fatto quando ancora vivevo giù. Ricordo l’ansia durante il viaggio, contando ogni fermata del treno fino alla stazione di Milano Centrale, come fossero i rintocchi della messa di Natale. Non mi sembrava vero, tra tante persone avevano preso proprio me! Mi sentivo una miracolata, scelta per lavorare in un’azienda conosciuta a livello nazionale, e della quale ero io stessa una grande ammiratrice. Con il tempo, però, molte di quelle emozioni erano andate scemando. A partire dalla spiacevole consapevolezza di non sentirmi più, in alcun modo, una privilegiata. Al contrario, sentivo il fatto di essere stata scelta come una condanna, costretta in un carcere le cui pareti avevo innalzato da sola, con le mie stesse mani, con l’ostinazione di chi aveva più paura di perdere l’indipendenza economica che affrontare l’impegno della propria felice realizzazione. Mi ero trincerata dietro quel lavoro come se avessi qualcosa di importante da proteggere. Con il tempo, anche la responsabile del personale, con la quale avevo fatto il colloquio, era andata in pensione. Dell’epoca della mia assunzione non era rimasto nessuno, solo Simona, la segretaria di direzione, con la quale avevo stretto una bella amicizia. Tutti gli altri erano nuovi, gente che cambiava azienda ogni cinque anni, pur di conferire prestigio al proprio curriculum. Ogni volta che rimaneva vacante la posizione di manager del dipartimento marketing, davo per scontato di non essere promossa. Ogni volta indovinavo. Da sempre, mi ero concentrata più a salvaguardare quel posto da assistente piuttosto che mettermi in risalto e valorizzarmi per cercare di ottenere di meglio. In questo, ero figlia e vittima della mia generazione, di quelli cresciuti con la cantilena del posto fisso, del titolo universitario, buttato giù come fosse l’ultima cucchiaiata di un piatto odiato. Solo adesso, mi rendevo conto di non aver mai scelto, veramente, quel lavoro. Io sceglievo l’offerta inclusa nel contratto a tempo indeterminato, non il ruolo. Accettavo le condizioni, il salario, le vacanze: avevo fatto un patto e, da quel momento, mi impegnavo a rispettarlo, nonostante le mie aspirazioni, un insignificante dettaglio che avevo messo a tacere per non incrinare quel finto equilibrio che, adesso, iniziava a nausearmi.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Loreta Prestia
è una professionista del marketing prestata alla scrittura e viceversa. Nata e cresciuta a Termoli (CB), nel 2004 ha ottenuto la laurea in Scienze della Comunicazione, con indirizzo giornalismo, presso l’università LUMSA di Roma. Dopo varie collaborazioni presso alcune testate giornalistiche, tra cui l’Ansa e Sat, nel 2006 ha conseguito a Londra un master in relazioni pubbliche, nel settore della moda, per poi lavorare presso l’ufficio stampa di Laura Ashley Ltd, nell’ambito del branding. Dal 2008 vive e lavora a Madrid, dove dirige un marchio e-commerce dedicato alla moda sostenibile. In questo primo libro dichiara guerra alla procrastinazione, alla felicità fittizia basata sui cliché e a Gianna, quella “stronza” del suo capo.
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