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Sullo sfondo di una Sicilia da cartolina, Marco e Tancredi si imbattono per caso in Luca, un ragazzo dal passato incerto che ha prenotato qualche giorno di vacanza a casa di Tancredi.
Nonostante qualche sospetto iniziale verso il nuovo arrivato, che non ha documenti ma porta con sé una borsa di gioielli, i tre ragazzi si piacciono da subito e decidono di programmare una vacanza all’insegna del divertimento, stringendo un legame indissolubile e provando a mettere da parte, almeno per un paio di settimane, la vita di tutti i giorni con i suoi fantasmi…

 

Salvati

Giorno uno
Mattina

Partì quella che era la sua canzone preferita, ma a furia di sentirla ogni giorno come sveglia, iniziava a odiarla. Proprio quel giorno avrebbe tirato il telefonino, posseduto dalla sveglia, sulla libreria di fronte al letto, ma lo tratteneva il pensiero di quanto era costato a sua madre e il fatto che doveva andare in università, per sostenere l’ultimo esame della sessione, e doveva ringraziare il cielo se era riuscito a svegliarsi da solo: probabilmente anche se si fosse svegliato mezz’ora dopo sarebbe arrivato puntuale a prendere l’autobus e quindi all’aula dell’esame. Perché però dover correre e sfidare la buona sorte? Sarebbe stato sicuramente meglio fare le cose con calma e senza preoccupazioni.
In dormiveglia cercava di farsi una ragione di quell’ennesimo risveglio forzato; una volta accertata la sua condizione, allungò il braccio e, con un gesto semplice e delicato (tutto all’opposto di quel che l’istinto avrebbe imposto), mise a tacere il telefono, con l’amara cognizione che tanto quella bellissima canzone, divenuta infernale, avrebbe ripreso dopo cinque minuti esatti. Con le sveglie è sempre meglio essere previdenti e puntarne qualcuna in più, ma quel suono di salvezza all’ultima spiaggia finisce per essere irritante se la prima chiamata ha già sortito sufficientemente i suoi effetti.

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Con un gesto repentino si alzò, si diede una sistemata agli slip e ai pantaloncini da basket (uniche cose utilizzate come pigiama), e procedette con i soliti uffici mattutini: mettere su la caffettiera, andare in bagno, accendere il televisore mentre le ultime gocce sgorgavano dalla moka, sedersi a capotavola a fare colazione, mentre con un occhio guardava le notifiche su Facebook e l’altro seguiva Uno mattina alla TV; tornare in camera a vestirsi mentre dall’altra parte della casa un telegiornale dice qualcosa, ma nulla che riuscisse a stupirlo: niente di nuovo accade solitamente con l’estate alle porte. Pare che nulla accada sotto la calura estiva e più cresce il caldo più sembra che anche i più spietati serial killer e stupratori si esonerino dallo svolgere le loro quotidiane attività.
Aveva scelto i vestiti per l’esame, ma il caffè iniziava a fare effetto: puntuale come un orologio svizzero e combinato allo stress pre esame, lo portò come di rito alla seconda seduta di bagno, ma per altro bisogno. Fatto il tutto, lasciò il pantaloncino sul ripiano della lavatrice e le mutande nel cesto dei panni sporchi. Uscì dal bagno e tornò in camera per cambiarsi. Non gli piaceva quando era solo in casa: lo trovava triste – sebbene più produttivo e facile da gestire – e desolante, ma era l’unica circostanza che gli permettesse di vagabondare nudo per le stanze, e questo era un lusso che andava saputo cogliere nelle giuste e rade occasioni.
Avrebbe messo una camicia azzurra e dei jeans rigorosamente lunghi, perché “la calura non giustifica un abbigliamento sconveniente per l’ambiente universitario”, come disse il professore di Diritto Privato a un ragazzo che una volta aveva osato presentarsi a lezione in pantaloncini. Allora si mise mutande, camicia, pantaloni e dei calzini salva scarpa, di quelli invisibili; fece un piccolo risvoltino alla caviglia, quanto bastava per non sembrare di aderire a una moda da lui ritenuta di pessimo gusto, ma sufficiente per far traspirare almeno un minimo anche gli arti inferiori.
Tazzina nel lavandino, nel cestino la carta di una merendina e subito sulle spalle lo zaino pronto già dalla sera prima.
Aprì la porta. Prima di chiuderla alle sue spalle, con un piede dentro casa e l’altro fuori, procedette al suo solito controllo tasche: chiavi, telefono, portafoglio; c’era tutto. Quindi giù per le scale, quattro piani che faceva di buona lena solo di prima mattinata, e giunse in strada. Si rese conto che l’autobus sarebbe partito dopo otto minuti esatti. Com’era possibile che per quanto potesse svegliarsi presto la mattina, doveva sempre fare una corsa per non perdere quel dannatissimo autobus? Per uno come lui farsi una corsetta fino alla stazione dei pullman non era un problema, poteva arrivarci anche due minuti di anticipo, in fin dei conti non era così lontana da casa sua e prendere il motorino sarebbe stato uno spreco, visto che fra tirarlo fuori dal garage e il traffico, il tempo sarebbe stato lo stesso che farsela di buon passo. Così si diede alla corsetta mattutina senza troppi sforzi, per non sudare nella camicia fresca e pulita, e così arrivò al porto, ogni giorno più affollato da turisti di passaggio diretti per le Eolie.
Arrivò giusto in tempo e con la fortuna che quell’orda di turisti aveva rallentato di due minuti la partenza del puntualissimo autobus: l’unico mezzo di trasporto capace di partire anche un minuto in anticipo.
«Andata e ritorno, grazie.»
Biglietto fatto, un po’ di fiatone e si andò a sedere in un posto isolato: nonostante vi fosse anche gente che conosceva e che aveva persino salutato con piacere, ognuno di prima mattina gradisce la sua quiete, e allora cuffiette alle orecchie, occhiali da sole e si viaggia per Messina.
Adorava la sua Milazzo e il suo porto, con quella mandria di turisti spaesati ma felici, che dal piano superiore del bus sembravano ancora più radiosi vicino alle acque brillanti. Li fissava e si rendeva conto di come nella vita, è proprio vero, è tutta una questione di prospettive: quei turisti sembravano portare felicità ai pedoni e la rabbia più feroce ai guidatori, costretti in slalom e attese.
Peccato che siano solo di passaggio, pensava ogni volta che andava al porto di giorno. Vanno alle isole e raramente sostano anche solo una notte a Milazzo.
Poi alle cuffie partì una bella canzone e non ci pensò più di tanto: quando finì quella e partì l’altra, si limitò a sfogliare velocemente nella sua testa le pagine del Torrente, sperando di riuscire a ricordare quantomeno i concetti fondamentali (o le domande più frequenti all’esame) di Diritto Privato.
Delle prossime tre ore non rimarrà che un flebile ricordo stordito dall’ansia: l’arrivo in università sotto il caldo di giugno, l’attesa fastidiosamente interminabile del suo turno, che però alla fine non sembrò essere un arco di tempo sufficiente alla preparazione emotiva necessaria per sedersi su quella sedia quando il vocione del professore esclamò: «Morabito Tancredi, si accomodi».

Si svegliò poco prima che sorgesse il sole, alle prime luci dell’aurora. Sui treni di notte riusciva a dormire molto bene, ma quella volta non erano il cigolio, il rumore del treno che entra in galleria o tutto il tremolio che gli avevano impedito di addormentarsi subito: quella volta era l’entusiasmo, accompagnato da un briciolo di tensione, che l’aveva tenuto sveglio fino a tardi. Alla fine però ci era riuscito ad appisolarsi, se non fosse che ora era sveglio di nuovo e non voleva restare desto fino all’arrivo, perché mancava ancora il tempo sufficiente per completare una discreta dormita. Nella penombra dell’aurora, resa ancora più soffusa e opaca dalla tendina abbassata, riusciva a specchiarsi nel dorso della cuccetta sopra di lui, dove dormiva un turista, probabilmente tedesco, la cui moglie si trovava invece dall’altra parte, sopra un signore anziano che ogni tanto dava qualche colpo di russata. Si specchiava e si vedeva maturo, giovane e anche bello: una sensazione che non provava da troppo tempo e che ora forse era condizionata dall’emozione del viaggio. Si apprezzò per com’era, con i suoi capelli, lunghi per essere un ragazzo, e con quei pochi peletti sul petto che emergevano dalla canottiera arancione da giocatore di basket.
Tutti al suo paese lo additavano come una figura esteticamente piacevole, per le sue spalle naturalmente più larghe della norma che compensavano la mancanza di forte muscolatura, che rendeva lo sterno totalmente piatto, come un asse o una tavola da surf. Doveva scendere a Villa San Giovanni: per arrivare in Sicilia senza lasciare tracce, era meglio proseguire con altri mezzi.
Ripassò i passaggi del viaggio che avrebbero dovuto portarlo a Milazzo e intanto si ammirava in quel riflesso nella penombra. Compiaciuto si mise le mani dietro la testa e i gomiti allargati ad ala: quella doveva essere la posa della serenità, pensò. Chissà come mai, dopo anni di insofferenza, era servito il suo riflesso, nitido nonostante la penombra, sulla cuccetta di un treno sudicio, a farlo sentire finalmente in pace col suo corpo. Si guardava e se lo chiedeva, si chiedeva se sua madre, che gli diceva sempre quanto fosse bello, lo vedesse come lui ora si vedeva e se avrebbe continuato a vederlo così.
Si guardava e si chiedeva se quel suo grande amore, ormai drasticamente fallito senza rimedio, l’avesse visto proprio in quella maniera la prima volta che si erano incontrati e se fosse sembrato diverso il giorno in cui consumarono per la prima volta o anche quando decisero di ammettersi faccia a faccia la verità. Chissà se siamo noi che cambiamo o sono gli occhi degli altri che ci trasformano di volta in volta.
Mi sveglio sempre in forma e mi deformo attraverso gli altri… gli sovvenne questa espressione, forse non proprio correttamente memorizzata, detta da qualcuno di famoso, non si ricordava più chi. Volle farsi la domanda opposta allora, ma non riuscì a ricordarsi se per lui tutte le persone con cui aveva condiviso un percorso avessero avuto sempre le stesse sembianze: alcuni sembravano gli stessi da quando li aveva conosciuti a cinque anni e di altri non riusciva a raffigurarseli diversi dai volti turpi con cui li aveva lasciati all’ultimo saluto.
Che domande stupide e assurde che si poneva a volte! Era meglio concentrarsi sul dormire, visto che la giornata sarebbe stata lunga e di tempo per riposare non mancava. Prese il libro che aveva lasciato ai suoi piedi prima di appisolarsi completamente, certo che qualche pagina di sana lettura, anche la più intrigante, gli avrebbero conciliato il sonno come poche cose. Dannazione! Era tutto stropicciato dai continui movimenti delle gambe lungo la nottata. Due colpetti ed era di nuovo compatto, eccezione fatta per un’orecchietta che si trovava proprio all’inizio di uno dei sessanta racconti di Dino Buzzati.
Sessanta racconti, titolo balordo e scontato per un libro che contiene veramente sessanta racconti! Tuttavia visto che ormai l’orecchietta c’era e (si sa) per quanto si provi a stirarla, il segno rimane indelebile, tanto valeva leggere questo, Il mantello, e sperare che almeno meritasse un’orecchiata come segnale di dignità di rilettura. Trovava belli e affascinati quei pochi racconti che aveva già letto. Il mantello non fu da meno, anzi, in quelle poche pagine lo travolse completamente: era superiore alla media degli altri, meritava un’orecchietta grande e visibile, proprio come quella che durante la notte il suo alluce presago aveva già assegnato. Affascinato dalla bellezza di quella novella e dolcemente amareggiato dal suo contenuto, richiuse gli occhi e riuscì a dormire ininterrottamente fino a poco prima dell’arrivo, salvo per i pochi secondi in cui venne infastidito dalla coppietta di turisti che erano andati in bagno, primo lui e poi lei, e dai saltuari rumori nasali più prorompenti dell’anziano.
Un tintinnio metallico contro la porta, che schioccava acuto, sordo e forte lo svegliò. O meglio, svegliò tutti e quattro, poiché dovevano scendere tutti a Villa San Giovanni e quello era il modo, più o meno delicato, del cuccettista per farsi aprire e rilasciare un misero succo di frutta caldo. Il ragazzo doveva andare all’imbarco per Messina: gli era stato raccomandato di arrivare fino all’imbarco sulla sponda calabrese e poi di proseguire, in Sicilia, con altri mezzi locali, giusto perché sul treno notte i passeggeri vengono schedati con tanto di documenti di riconoscimento e non era bene si sapesse dove si stava dirigendo di preciso.
Zaino in spalla scese dal treno e seguì le indicazioni per gli aliscafi. Gli era stato detto che partiva una nave traghetto ogni quaranta minuti, ma quando scese, chiedendo ancora informazioni, scoprì che era in partenza uno dei non numerosissimi aliscafi: «A parità di prezzo, ti lascia vicino alla stazione ferroviaria, dove partono anche gli autobus, e ci sta meno tempo». Mentre la nave, oltre a essere più lenta, l’avrebbe lasciato in un punto leggermente scomodo per i collegamenti. Allora scese per il sottopassaggio, fece il biglietto per l’aliscafo e lasciò così il continente, che si allontanava onda dopo onda.
Giunto in Sicilia, chiedendo indicazioni e pareri, prese l’autobus davanti alla stazione ferroviaria.

L’autobus scattava.
«Ventisette le va bene?» aveva osato domandare il professore. Tancredi era pietrificato, immobile, non era riuscito nemmeno a rispondergli, talmente gli sembrava alto quel voto. Sconvolto, talmente sconvolto che ancora ci pensava mentre l’autobus traballava tra una buca e una congiunzione di ponte.
Chiuse gli occhi e sorrise da solo, mentre la macchia mediterranea si allungava sulla sinistra e la costa limpida e brillante si stagliava contro un cielo azzurro, azzurrissimo che si contrastava con le città calde e assetate. Quanto aveva sudato! La stanchezza, l’ansia di un esame e il sapere che dopo ciò si apriva l’estate tranquilla e immobile della Sicilia… Aveva già notato quanto la camicia si fosse contornata di aloni di sudore sotto le braccia; si annusò con discrezione: tollerabile. Prese il telefonino, attaccò le cuffiette e mise a tutto volume una canzone spensierata, dal sapore vacanziero che risuonava nella sua testa mentre, aprendo WhatsApp, cliccava sulla conversazione più recente. Scrisse a Marco o, come tutti lo chiamavano per via dell’aspetto bonario che aveva fino a pochi anni fa – e che a dire il vero aveva ormai perso, ma i soprannomi sono così: una volta affibbiati, non è facile liberarsene –, il Koala.
Porcheria, che devi fare? Io ho già finito e sono di ritorno sull’autobus.
Un cazzo, compare, a scuola, aspetto che ’sta zoccola mi interroga e poi me ne vado a casa.
A che ora esci?
Tra un’ora sono fuori, non ci siamo fatti mettere la presenza, così mi faccio ’sta minchia di interrogazione e me la smammo per casa. A mezzogiorno saremo tutti fuori penso.
Va bene.
Tu com’è andata?
Poi ti racconto.
E si concluse tutto con un pollice all’insù inviato dal Koala.
Era incredibile che quello gli avesse anche chiesto se voleva rifiutare il ventisette. Ah, ma quasi se lo stava dimenticando: oggi alle quattro e mezza arrivava quello della casa: che tipo strampalato, però, che gli era sembrato questo che voleva prenderla.
Intanto l’autobus trottava per le buche dell’autostrada, dava qualche frenata azzardata e qualche turista tedesco, diretto per il famoso imbarco per le Eolie, saltava in aria a qualche agitazione più irruenta del pullman. Alcuni di loro facevano foto mentre il mezzo era in corsa: il Mediterraneo è un mare che non ha eguali, stupisce e incanta pure quelli che conoscono bene gli oceani, e ciò avviene per la semplice ragione che dà una carica orgasmica anche a chi è cresciuto tra le sue onde.
Solitamente provava una certa invidia per i vacanzieri, perché avevano modo di godersi un posto che egli riteneva casa: privilegio, questo, che era spesso a lui stesso precluso per lunghi lassi di tempo, ma oggi no, oggi non provava nessuna invidia. Oggi iniziava il suo riposo e anzi, sarebbe stato anche più longevo di quanto non potesse godersi un tedesco medio con i suoi calzini nelle scarpe aperte. Si guardò attorno, tra i sedili del pullman, e ne trasse orgoglio, si sentì ricco, alla faccia di tutti questi avventori che solitamente non possono nemmeno sognarsi l’azzurro di quel cielo; sì, perché il cielo ha un colore diverso in ogni parte del globo, ma il colore che assume nella bella stagione al Meridione d’Italia è qualcosa di magico, che va oltre una incontaminata distesa monocromatica: v’è vita in quel silenzioso universo celato nell’azzurro dalla luce del sole. Pensava e sorrideva, da solo. Godeva di un qualcosa che doveva accadere, godeva per questa vacanza domestica che stava per cominciare e che aveva desiderato come non mai in vita sua.
Si guardò ancora attorno: quanti turisti c’erano! Non c’erano tutti i concittadini che aveva riconosciuto all’andata, ora solo vacanzieri. C’era poi una coppietta, potevano avere non più di venticinque anni e pareva parlassero francese, cui poco importava della macchia mediterranea e del mare che si estendono nelle due direzioni: essi si guardavano per due minuti e poi si baciavano, ogni tanto indicavano qualcosa contro il finestrino, ma la voluttà aveva maggior importanza e fascino. Sarebbe stata un’altra estate piena di aspettative disattese per Tancredi? Non si sentì più padrone di casa e ricco, ma sfortunato, perché aveva tutto ciò che si sarebbe potuto desiderare per la serenità, ma si era dimenticato che serve qualcuno, o meglio qualcuna, con cui spartirsi tutto ciò. Ma sì, chi se ne frega!
Questa è l’estate che mi merito dopo tanta stanchezza e vada come vada sarà bellissima.
Superato il casello dell’autostrada si avvicinò un ragazzo, alto e con i capelli lunghi raccolti in alto e un filino di barba, leggermente incolta ma poco sviluppata di base. Aveva una canottiera arancione che ingrandiva ancora di più le sue spalle, pantaloncini sportivi e sedeva vicino a un grande zaino da trekking.
«La fermata per il centro è l’ultima?» disse con il suo accento settentrionale, ma non ben identificabile per Tancredi.
«L’ultima, sì. Nemmeno un quarto d’ora e siamo arrivati. Senza premura: quando si arresta scendi, in ogni caso scendo anch’io all’ultima.»
«Grazie.»
«Ma prego.»
Arrivarono al porto, sempre più affollato di turisti colorati, spaesati e invadenti. Mettendo piede sulla terraferma si riconosceva uno sbalzo termico non indifferente tra il gelo dell’aria condizionata del bus e la calura esterna del sole che picchiava e scaldava il cemento, il quale aggravava la calura dal basso verso l’alto.
Scese, si sistemò la tracolla e la camicia, sentì uno spiffero di brezza e si avviò a passo deciso verso casa, lungo quel percorso già tracciato correndo giusto qualche ora prima, con l’unica differenza che ora doveva fare attenzione al lato di strada col marciapiede più all’ombra. Marciava soddisfatto con un’aria resa ancor più trasognante e compiaciuta da quel paio d’occhiali neri. In men che non si dicesse, si ritrovò al portone di casa: salì le scale a piedi per la seccatura di dover attendere l’ascensore e si ritrovò di nuovo davanti all’uscio di casa, vuota. Aprì, si chiuse il partone alle spalle.
«Buongiorno, sono tornato, ora vado a mare» disse scherzando tra sé. «Mamma, ma dove hai messo i costumi?»
Cercò per qualche minuto, ispezionò i vari cassetti e poi ne trovò due: quello a fantasia di gechi lo lanciò sul letto, quello verde evidenziatore lo insaccò nello zaino che teneva sempre, estate e inverno, dietro al comodino. Si strappò di dosso la camicia, le calze, le scarpe e l jeans e buttò tutto sulla sedia della scrivania. Rimasto in mutande si diede una toccata, perché una sistemata all’inguine sudato è un gesto di liberazione quando ci si toglie indumenti pesanti e caldi. Godette un istante della frescura del corpo seminudo, il tempo di un sospiro, e si rivestì con la maglietta quasi consunta che aveva tirato fuori e il costume coi gechi. Cercò le infradito e due teli da mare. Chissà perché più si vuole fare una cosa semplice e in poco tempo, più tempo si perde cercando cose! Quando fu tutto pronto, infradito ai piedi e teli in zaino, si avviò verso l’uscio e prese dallo svuotatasche le chiavi della Vespa. Aveva già aperto la porta quando si ricordò che doveva recuperare dalla tracolla dell’università chiavi di casa, telefono e portafoglio. Mentre completava questa raccolta di oggetti vide sulla scrivania un mazzo di carte siciliane e, senza pensarci un secondo, insaccò anche queste nello zaino. Per la buona capienza di cui era dotato quello zaino, era riuscito a farvi entrare tutto, comprese quelle parole crociate, con tanto di penna attaccata, rimaste lì dentro forse dall’estate scorsa.
«Ciao, ci vediamo più tardi.» Era una cosa veramente stupida, ma gli metteva il buonumore parlare alla casa come se fosse una persona in carne e ossa.
Sgattaiolò giù con le infradito che scoppiettavano a ogni gradino delle scale. Guardò l’orologio: aveva ancora dieci minuti abbondanti. Prese la Vespa, si infilò il casco.
«Clorinda!» Così chiamava la sua vespa a miscela del secolo precedente, originariamente appartenuta allo zio. «Clorinda, ce la facciamo?» Girò la chiave per verificare che ci fosse abbastanza carburante. «Brava, tesoro.»
E via. Via per le strade accaldate vivibili solo controvento. Accostò a una bottega, stava per scendere dal motorino e farvi accesso, quando vide una ragazza che sistemava le pesche all’esterno.
«Alessia, me li fai al volo due panini prosciutto pomodoro e mozzarella?»
«Oh, tesoro, buongiorno. Arrivano al volo. Mamma – disse rivolta verso la signora che armeggiava con i salumi dentro la bottega –, li prepari due con prosciutto… poi?»
«Pomodoro e mozzarella.»
«Prosciutto, pomodoro e mozzarella per Tancredi?»
«Oh, gioia, ti pare che ti avevo visto?» disse la donna nel locale che sembrava in penombra da fuori, contro la luce che sbatteva sulle pareti esterne.
«Dove te ne vai di bello? A mare? Scialamu!»
«Sì, sto andando a prendere il Koala e scappiamo, anche perché alle quattro e mezza ho tipo un mezzo impegno.»
«Ci sta, fate bene. Divertitevi anche per me.»
«A che ora stacchi?»
«Tra non molto, alle tre.»
«Alessia, i panini!» disse forte la mamma per farsi sentire.
Entrò, li prese e riuscì con i panini in una busta di plastica.
«Mi daresti anche un po’ di ciliegie e nespole?»
«Quante?»
«Quante bastano per me e Marco.»
«Riesci a portarti tutta la cascitta?»
«Dai, seriamente. Un pugnetto di ciliegie e un po’ di nespole.»
Rapidamente fu servito anche in questo. Stava per sfilarsi lo zaino per afferrare il portafoglio: «Quanto vi devo?».
«Per oggi va così, te le regalo io. L’hai fatto l’esame?»
«Ventisette.»
«Meno male che non dovevi passarlo. Che ti dicevo io? Dai, prendi i panini e la frutta come regalo di buon auspicio per l’estate e di complimenti per l’esame.»
«Grazie, sei unica!» E mise in moto. «Che fai, non mi vieni a dare un saluto?»
Lo baciò forte sulla guancia, vicino alle labbra.
«Quando ci vediamo?» chiese Tancredi.
«Quando vuoi tu, lo sai.»
«Arrivederci, signora!» si rivolse alla madre di Alessia.
«Ciao, gioia, ciao.»
Sgommò con la vecchia Clorinda e si ritrovò davanti all’istituto commerciale, dove studiava il Koala. Attorno a lui c’erano altri ragazzi che, con tutta probabilità, aspettavano le fidanzate. Alcuni di questi erano sue conoscenze e li salutò da lontano. La scuola affacciava su una via abbastanza larga e lui si parcheggiò dirimpetto all’ingresso, davanti alle macchine dalla parte opposta della carreggiata.
A un certo punto uscì un gran numero di ragazzi da scuola. Ma il Koala in quel numero non si vedeva. Come il primo gruppo venne fuori dal porticato antistante le porte della scuola, si levò un urlo e lui capì subito dove fosse Marco: era quello che lanciava l’acqua dalle finestre sovrastanti sopra l’ingresso, insieme ad altri due ragazzi.
«Cosa sono queste urla?!» gridò una professoressa dall’aspetto severo che si trovava lì. Quando capì cosa stesse succedendo salì le scale e si diresse verso la classe da dove era stata lanciata l’acqua. La professoressa chiamò tutti i ragazzi per nome e li rimproverò, ma non riusciva a mantenere un aspetto serio: si vedeva che in qualche modo era legata a quei tre e non poteva risentirsi troppo per uno scherzo innocente fatto l’ultimo giorno di scuola. Tancredi da fuori riusciva a vedere abbastanza nitidamente cosa stesse accadendo al piano superiore: la professoressa era uscita dall’aula tenendo uno degli altri due ragazzi per il braccio, come per buttarlo fuori dalla scuola e tenendo, invece, il Koala per l’orecchio.
«Bastasazzi e scimuniti!» diceva più divertita che altro e anche i ragazzi stavano alla risposta scherzosa della professoressa.
Li accompagnò tutti e tre fuori, oltre il porticato, e gli augurò delle buone vacanze. Mentre loro andavano verso l’uscita, la professoressa, che dirigeva già i suoi passi nuovamente verso dentro, si rivoltò e aggiunse: «Marco, vieni qui».
Il Koala andò da lei, mentre i due ragazzi arrestavano la loro uscita per aspettarlo.
«Marco, bravo, sono molto fiera di te. Avevo riposto aspettative alte in te, ed ero l’unica, tu lo sai bene, in tutto il consiglio di classe a credere che avresti preso il volo. Bravo, goditi le vacanze. Sempre in gamba.»
Lo congedò mandandogli un bacio e mentre si allontanava gli sorrise profondamente, con gli occhi del cuore.
Lui alzò la mano per salutarla, ma d’improvviso, inaspettatamente, rimase senza fiato: i suoi due compagni di scuola si erano avvicinati e avevano approfittato della sua distrazione per rovesciargli sulla schiena quanto rimaneva delle loro bottiglie d’acqua fredda. Rimase un attimo pietrificato e loro iniziarono a correre, perché poi egli cominciò a inseguirli provando a raggiungerli, lanciando quanto poco rimaneva nella sua di bottiglietta.
E in tutta questa scena, Tancredi e la professoressa, da due diverse estremità del campo di battaglia, se la ridevano di cuore. Ad acqua finita i tre si abbracciarono e si raccomandarono di non perdersi di vista durante le vacanze.
«Fai la nostra strada?» chiese uno dei due a Marco.
Disse di sì, poi sentì e vide che Tancredi suonava il clacson della Vespa e gli faceva cenno di salire.
«Scusate, ma non posso, c’è lì qualcuno che mi aspetta. Ci sentiamo, divertitevi e vediamoci in questi giorni.»
Tancredi porse il casco al Koala, mise in moto e andarono per le vie.
«Koala, sei sempre il solito.»
«Modestamente. Ma che ci fai da queste parti?»
«Ti rapisco. Chiama la nonna e dille che oggi non mangi da lei.»
«Che vuoi fare? Guarda che sono uscito senza un centesimo.»
«Tranquillo, oggi il pranzo è offerto da Alessia.»
«Compare, sei unico: un tempo per andare con le ragazze si pagava, tu sei l’unico che si fa pagare per scopare. Ma dove stiamo andando?»
«Tu stai tranquillo. Oggi era il tuo ultimo giorno di scuola, giusto? E quindi ti porto a festeggiare l’inizio dell’estate. Non ti serve niente, ho tutto io, tranquillo. Non farti problemi.»
«Ma che minchia dici, compare? Tutto ’sto mistero per portarmi a mare?»
«Ma io ti porto in un posto speciale.»
Arrivarono in centro, percorsero la Marina Garibaldi, passando ancora una volta dal porto.
«Simpatica, la prof.»
«Molto.»
«Che ti diceva?»
«Niente di che. Un giorno ti dirò.»
«Immagino che non fosse la “zoccola che doveva interrogarti”.»
«Assolutamente no, lei è una persona speciale.»
«Scusa, non ho capito: io che mi faccio una che mi passa anche il pranzo sarei un depravato e tu invece, con la prof?»
«Quanto sei coglione!» rise dandogli un colpo sul casco.
«Occhio che mi fai perdere l’equilibrio e poi cadiamo.»
Ma Marco, invece di smetterla, iniziò a battere colpi costanti mentre se la rideva.
«Non sei divertente.»
«Tu dici?»
«Sì» disse mentre rideva anch’egli.
«Ma che stai facendo? Stai suonando? Almeno prova ad andare a ritmo.»
A quel punto il Koala si arrestò un istante, ci pensò e iniziò a battere un ritmo noto.
«Cos’è? Non la riconosco.»
Dopo altri due giri di percussioni, Marco iniziò a cantare: «Ogni nome un uomo e ogni uomo è solo che…».
Immediatamente riconosciute di Rotolando verso Sud, iniziò a cantare anch’egli, ma non finivano le percussioni sul casco. Quando iniziarono a cantare avevano già superato il lungomare da passeggiata e si erano avviati lungo la spettacolare via “panoramica”. A sinistra, il rilievo montuoso è talmente proteso e protervo verso la costa, che non c’è punto privo di rete di contenimento; a destra la via dirupa sul mare, stagliato aspramente tra scogli e piccoli elementi di macchia mediterranea: l’acqua brilla, luccica come un diamante.
«Sopra un’onda che mi tira su, rotolando verso sud…»
Intanto la salita inclina l’orizzonte marino, il motore della Vespa si affatica e la canzone si fa più sfegatata. Un buco d’ombra a puntini luminosi sotto le fronde di un pino, l’odore del glicine di una villetta, un po’ di brezza e ancora quei diamanti nel mare tra un fiore e un fico d’india. La vespa corre e rinfresca i volti accaldati dal sole di giugno. La strada fa su e giù, la luce va a intermittenza d’ombre, una serie di odori estivi si susseguono, mentre la canzone urlata va avanti e si conclude poco prima d’essere giunti a destinazione.
«Qui?» chiese il Koala.
«Guarda bene, c’è un varco leggermente coperto da erbacce.»
«Quello? E tu lo definiresti “leggermente” coperto d’erbacce?»
«Non fare la principessa sul pisello. L’hai chiamata tua nonna?»
«No, ora la chiamo.»
Piombò il silenzio nell’attesa della telefonata. Col motore spento si potevano sentire stormi di uccelli, rumori tra le erbe e soprattutto il canto dell’estate: le cicale. Il canto delle cicale si innalzava tra l’odore delle erbe al sole e dei fiori che iniziano a marcire sotto la calura: quell’odore indefinibile, identificabile solo con la macchia in estate.
«Nonna, tutto a posto? No, siccome ci hai messo un po’ a rispondere… ah, stavi girando la frittata… quella che piace proprio tanto a me, sì… ma senti, non mangio a casa: tienimela al caldo per domani. Sì, la mamma non ti ha detto niente perché neanche lei lo sapeva, anzi ancora non lo sa… sì, nonna, sì, ora glielo dico. Dove sono? Sono a mare. Nonna, no che non sono solo. Tranquilla che mangio. No, non mi butto prima di tre ore da quando mangio. Va bene, dai, nonna, stammi bene, ci sentiamo più tardi. Ciao, ciao.» Chiuse il telefono e sorrise scuotendo il capo.
«È forte tua nonna.»
«Ma non poco. Vorrei arrivarci io come lei alla sua età.»
«Allora scendiamo?»
E si avviarono per i gradini ricoperti di erbacce, canticchiando ancora quella canzoncina. Il panorama era in parte precluso da recinzioni, ma soprattutto dall’erba alta che si sviluppava di gradone in gradone. Raccoglievano le more, nate spontaneamente numerose tra i rovi e le piante d’ogni genere, e in certi punti, dove un gradino più largo si presentava a mo’ di terrazzamento, si soffermavano a guardare il panorama che per pochi metri tornava a essere visibile e straordinariamente incantato: si vedeva una spiaggia irraggiungibile se non via mare, scogli che facevano dolcemente l’amore con l’acqua e fichi d’india che si baciavano, e tutto ciò in un contorno di onde, che diventavano quasi accecanti per la lucentezza. Scesero giù fin in fondo e trovarono una spiaggia desolata: l’unica traccia umana era una casetta all’apparenza abbandonata che si innalzava due metri oltre il livello del mare, dove invece v’era un grigio ricovero barche.
La spiaggia era fatta di pietre grosse e fastidiose, talvolta rese morbide da voluminosi accumuli di alghe portate dalle maree; spuntava poi, lungo questa spiaggia limitata, quanto rimane di quelli che sarebbero stati, chissà quanti anni fa, dei piccoli moli di cemento e pietra, dei quali non ne rimaneva che solo uno interamente e stabilmente calpestabile. Lì stesero i loro teli, si fumarono una sigaretta beatamente, come in contemplazione di tutto ciò. Marco mise il costume che gli aveva prestato Tancredi: vista la lieve differenza di stazza, gli stava leggermente largo, ma meglio un po’ abbondante che troppo stretto.
Si misero in piedi per contemplare il fondale, alto più di un metro e mezzo eppure visibilissimamente nitido. Non ressero a lungo il calore, che si fa ancora più scottante nella costiera di levante, e si immersero, prima l’uno poi l’altro, in quell’immenso liquido. Il Koala vide l’altro che si tuffava: Tancredi si immerse di testa e, come un essere marino, sguazzò tra scogli, altri pesci e chiazze di diverse intonazioni a seconda della composizione mista del fondale, con l’intenzione di riemergere solo quando non fosse più bastato il fiato; la sua schiena sott’acqua brillava per l’effetto ottico del riflesso sulle onde, le gambe a rana scattavano con la tranquilla serenità di chi si sente libero, mentre le mani accarezzavano il fondale e gli scogli, in supporto alla corsa e in amore del mare.
Marco si tuffò prima ancora che l’altro tirasse la testa fuori dall’acqua. Quest’ultimo, che non aveva avuto ancora modo di togliersi l’acqua dalle ciglia e, dunque, prendere coscienza di dove fosse arrivato e dove fosse Marco, fu trascinato di nuovo sotto l’acqua, preso per le gambe dall’altro e finì, come prevedibile, al gioco dell’annegamento.
Null’altro attorno: loro, la natura e una vacanza negli occhi.

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Commenti

  1. abbatesimonee

    (proprietario verificato)

    Un omaggio alla Sicilia, all’adolescenza, alla felicità e alla bellezza, grazie Raffaele per tutto questo.

  2. Immagina di star leggendo un libro, l’opera prima di un giovane siciliano; sei magari al parco, sdraiata sotto il sole ti lasci trasportare dalla narrazione e dalle descrizioni, ed ecco che immersa nella lettura ti ritrovi su una spiaggia nella calda estate siciliana, circondata da giovani che si divertono o prendono il sole. O ancora, sei tranquilla in camera tua, salvati è tra le tue mani, e intono a te si forma l’ambiente di una piccola città del sud, il caldo che emana dall’asfalto e la frenesia dei turisti che si accingono ad imbarcarsi.
    Salvati è una storia che crea dello stra-ordinario nel quotidiano, e viceversa.
    La scrittura ti consente di immergerti facilmente nel mondo dei personaggi e comprenderne la sensibilità, e senza che tu te ne renda conto scopri che quel racconto tanto mondano vuole dirti qualcosa, il narratore indica i personaggi invogliandoti a guardar meglio ciò che si trova sotto le loro parole e i loro gesti.
    Ci sarebbe molto di più da dire e analizzare, ma dir di più impedirebbe al lettore di trarne le proprie conclusioni.

  3. (proprietario verificato)

    Se si dovesse descrivere questo libro con una sola parola, questa sarebbe “dualismo”.
    Se da un lato si trova l’attualità dei temi trattati, dall’altro si trovano paesaggi che immergono in un’atmosfera mediterranea, che fa pensare a tempi lontani.
    Apparentemente sembra un libro che tratta solo di una tipica vacanza tra amici, ma oltre la freshezza delle loro avventure si nasconde molto altro, proprio per questo trovo questo libro avvincente e scorrevole.
    Vivamente consigliato!!

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Raffaele Trimboli
classe 1996, nato e cresciuto a Milazzo, si laurea in Gestione d’impresa presso l’università della vicina Messina e attualmente vive a Milano per lavoro. Oltre a essere diplomato in Conservatorio, coltiva attivamente la passione per la letteratura e il teatro. Salvati è il suo primo romanzo.
Ho una passione inossidabile per la letteratura che concorre per il primato con l'altra mia grande passione, vicina, per il teatro: infatti per passione organizzo eventi teatrali, facendo anche da regista e talvolta sceneggiatore.
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