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Il segnato II. I pirati del multiverso

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Kaspar Vogel è scomparso. Sulle sue tracce si mettono un vecchio amico e un irriducibile avversario. Isabelle affronta un viaggio per ritrovare se stessa in compagnia di Cornelius e Caruban, ma quel che troverà la porterà a confrontarsi con l’equipaggio pirata della Queen Jane, capace di solcare le correnti del multiverso come fossero oceani. Saranno pericolosi nemici o alleati su cui contare?
Un viaggio avventuroso che dai ghiacci di un mondo morente porterà la compagnia fino alle sabbie del deserto, ai giardini pensili di Babilonia e in luoghi al di fuori della comprensione umana, dove giganteschi cetacei solcano i cieli emettendo misteriosi richiami.

Karza
L’amico di Karza stava morendo. Ogni tentativo di trasferirgli la
propria energia vitale, a discapito della sua stessa salute, aveva effetti
inconsistenti. Il braccio dell’amico penzolava lungo il suo corpo, gelido come l’inverno. Era diventato un inutile orpello ciondolante. Le
ferite non si erano infettate solo grazie alle capacità curative possedute dalla saliva di Karza, che ne aveva rallentato il progressivo peggioramento, ma a breve il potere demoniaco non sarebbe bastato ad
arginare il decadimento di quel corpo la cui vitalità era appesa a un
esile filo. In condizioni normali Kaspar sarebbe stato capace di curarsi le ferite attingendo ai poteri dei suoi demoni interiori, ma era
accaduto qualcosa che impediva a quel legame di manifestarsi.
Se solo Karza avesse avuto una porzione del potere del suo antenato Pazuzu avrebbe potuto rimettere in sesto l’amico, ma il sangue di famiglia si era diluito generazione dopo generazione e ora era
solo uno degli ultimi residuati di un’epoca di cui ormai si stentavano a udire gli echi. Continua a leggere
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Trasportava l’amico da giorni, alternando la forma equina a quella
di chirottero dopo il tramonto, ma Kaspar era così debilitato da non
riuscire a mantenere la posizione eretta, quindi si era trovato a scegliere tra il viaggiare solo di notte o mantenere la forma di pipistrello anche durante il giorno. Aveva optato per dare priorità alla salute
dell’amico e si era spinto al limite delle sue capacità, volando senza
sosta in direzione di colui che avrebbe potuto salvarlo; ma c’era ancora tanta strada da fare e non era certo che le forze di entrambi sarebbero state sufficienti per farli arrivare vivi alla fine del viaggio.
Cercò di non concentrarsi sulla fatica che gli costava ogni singolo
colpo di ala e il suo pensiero fu catturato da un flusso di ricordi che
lo riportò a un passato mai dimenticato.
Raduk galleggiava senza forma nella luce morbida, bevendo da
quella interminabile fonte di potere. Il pulsare lo cullava rendendolo piacevolmente inerme nei confronti della forza che lo trascinava
verso il centro ritmico della forza generatrice del عيمج .
L’improvviso mutare degli eventi gli procurò un trauma doloroso.
Tentò invano di opporsi alla forza che lo attirava in direzione opposta alla sua destinazione; ogni stilla di resistenza aveva una controparte dolorosa che lo costrinse a cedere a quella violazione. Il primo
cambiamento di cui fu consapevole fu la gabbia di materia attorno
al suo essere che gli conferiva una forma felina privandolo della libertà di espandersi. Poi fu conscio della luce diversa e spaventosa,
sebbene naturale; percepì il calore, derivante dall’astro luminoso
nel cielo, che gli procurò una piacevole sensazione mai provata prima. Infine vide l’uomo che lo aveva strappato al flusso: sapeva degli
umani, poiché عيمج glieli aveva mostrati come immagini, ma non
ne aveva mai visto uno vero; quello che aveva di fronte gesticolava
nella sua direzione impugnando un’asta sulla cui punta una sfera
emanava scariche di luce violacea. L’uomo gli ordinò di affrontare
i suoi nemici. Raduk non poté che obbedire alle parole intrise di
magia dell’evocatore. Si rivolse dove gli veniva mostrato e vide due
figure avanzare nella sua direzione, sullo sfondo di maestosi giardini pensili. Una, più minuta e aggraziata, emanava buone vibrazioni.
L’altra lo spaventò: procedeva sicura impugnando una spada nera
venata di sangue simile a una zanna; i suoi occhi blu erano quelli del
predatore perfetto.
Raduk quel giorno imparò la paura, tentò di fuggire ma l’evocatore
rinnovò il suo ordine costringendolo ad attaccare.
Lo straniero si rivelò un avversario formidabile. Quando tutto fu
finito, Raduk giaceva a terra; la sua vitalità lo stava abbandonando rapidamente. L’evocatore piangeva inginocchiato nella propria
urina, implorando pietà all’uomo tatuato, ricevendo in cambio un
fendente ben assestato dall’alto verso il basso che lo divise in due
metà perfette. Poi il predatore tornò a rivolgersi a lui, che era consapevole dell’approssimarsi della fine; il vincitore aveva comunque
tutta l’aria di voler sferrare il colpo decisivo. Quando gli fu di fronte,
Raduk chiuse gli occhi; non era pronto a morire ma non poteva evitarlo. Era la vittima innocente di una guerra che non lo riguardava.
A sorprenderlo fu la voce della compagna del carnefice: «Non farlo,
Kaspar. Non questa volta».
«Perché no, Isabelle? È un demone. Non merita di vivere.»
Raduk aprì gli occhi e forse fu ciò che gli salvò la vita. La voce della ragazza lenì il suo terrore.
«Il suo sguardo è diverso dagli altri. Ha paura.»
«È un demone. Se gli daremo la possibilità di riprendersi ucciderà
degli innocenti.»
«E se ci sbagliassimo? E se volesse solo vivere? È stato evocato e
gli è stato ordinato di attaccarci; non ha avuto alcuna possibilità di
decidere. Ed era così confuso, da farmi pensare di non essere mai
stato strappato prima alla sua realtà.»
«E cosa dovrei fare? Assumermi la responsabilità di eventuali
morti future causate da lui? Non me la sento. Lo assorbirò come tutti gli altri e diverrà parte della causa che stiamo portando avanti.»
«Guardati: più passa il tempo e più diventi inumano. Ti giuro che
a volte mi spaventi.»
La maschera priva di emozioni dell’uomo si incrinò lasciando trapelare un barlume di angoscia.
«Cosa dovrei fare allora?»
«Essere umano. Dare una possibilità a un nuovo modo di pensare. Lascialo vivere e se temi possa nuocere a qualcuno, portiamolo
con noi. Gli indicheremo strade mai battute. Gli daremo la possibilità di poter essere qualcosa di diverso da ciò che crediamo che
sia. “Scegli di concedere pietà e sarai esempio per gli altri, Nessuna vita vale meno di un’altra”, ricordi? Me lo hai detto tu. Dove è
finito quel Kaspar?»
L’uomo guardò Raduk negli occhi e da quell’incontro di paure nacque un futuro avventuroso che rischiava di trasformarsi in tragedia,
adesso che Raduk, divenuto Karza per volere di Kaspar, volava verso l’unico luogo dove aveva conosciuto un potere superiore alle sue
possibilità: Babilonia era stato l’inizio del suo viaggio in questa dimensione ed era lì che stava tornando; un luogo di predatori capaci
di grandi prodigi. Capaci forse di salvare l’uomo feroce ma pietoso
che era divenuto il suo amico.

Capricci divini
Bertha avanzava guardinga, tradendo una preoccupazione palpabile. L’Oscuro Signore della torre l’aveva convocata in sogno, mettendole urgenza: suo marito Etzel e suo figlio Gorg erano scomparsi
da due giorni scaraventandola in un abisso di panico, ma il Signore
le era apparso nel sonno agitato dicendole che sapeva dove trovarli.
Di prima mattina si era recata alla torre col cuore pesante, poiché
qualche giorno prima il proprietario le aveva confidato di essersi
invaghito di lei e di volerla possedere; Bertha aveva rifiutato dicendogli di amare suo marito e suo figlio e lui sembrava aver accettato
la cosa di buon grado, pur congedandola bruscamente. L’Oscuro Signore aveva un’età compresa tra i sedici e i vent’anni e lo sguardo di
un predatore feroce. A Bertha era sembrato un uomo sicuro di sé,
abituato a ottenere sempre ciò che desiderava. Era giunto alla torre
sette mesi prima. Nessuno lo aveva visto arrivare; sembrava quasi
che l’edificio lo avesse partorito.
Il giorno della sua venuta il cielo si era fatto buio e la notte era
stata la più scura di sempre. Si era presentato al villaggio come il
legittimo proprietario di quelle terre e chi aveva provato a dissentire si era volatilizzato nel nulla di lì a poche ore. Poi erano arrivate le cose che uscivano di notte. In molti le avevano viste, in pochi
erano sopravvissuti per raccontarne, ma nessuno sapeva descriverle. Le persone scomparivano al formarsi di misteriose tracce
nel terreno, segni del passaggio di esseri capaci di scavare nella
terra, lasciandosi dietro gallerie buie. La notte in cui apparve il colore dal cielo, fu l’inizio della carestia: gli animali si ammalarono,
cessando di dare latte e uova e i raccolti cominciarono a dare frutti
malati e non commestibili.
L’Oscuro Signore disse agli abitanti del villaggio che solo se gli
fosse stata giurata eterna obbedienza avrebbe fatto cessare la care-
stia. Il consiglio dei saggi si riunì e decise all’unanimità di barattare
la propria libertà in cambio del benessere dei loro figli. E il Signore
fu di parola. La carestia cessò non appena il colore nel cielo scomparve. Le cose striscianti continuarono però a vegliare sulla notte
che divenne il loro dominio assoluto.
Etzel era uscito di prima mattina per insegnare a Gorg a tirare con
l’arco. Il piccolo stava crescendo sano e robusto e il padre voleva farne il miglior cacciatore del villaggio. Era stata l’ultima volta che Bertha li aveva visti. Passata l’ora del pranzo, si era preoccupata della loro
assenza e si era recata nella zona boscosa battuta regolarmente dal
marito. Lì aveva trovato l’arco, ma nessuna traccia dei suoi cari. Allarmata, aveva avvertito alcuni membri del consiglio; si erano organizzati
subito gruppi di ricerca che si erano spinti nelle profondità del bosco
fin quasi al tramonto. Non erano state trovate tracce degli scomparsi:
sembravano essersi volatilizzati nel nulla. Quando la notte prese il posto del giorno, le speranze di rivederli si affievolirono. Bertha pianse
fino all’alba, senza riuscire a chiudere occhio. Il giorno dopo la ricerca
riprese, ma dai volti degli esploratori era chiaro che nessuno nutrisse
speranze. La seconda notte il sonno ebbe la meglio su Bertha e nel suo
abbraccio ebbe il suo secondo incontro con l’Oscuro Signore.
Ora si trovava al piano inferiore della torre, luogo del loro primo
incontro. L’Oscuro apparve da una porta. Aveva un portamento signorile e sorrideva. I capelli neri e selvaggi gli coprivano le spalle;
gli occhi iniettati di sangue gli conferivano un aspetto disumano e
un vestito ricco di pietre preziose accentuava il loro distacco; quando la vide si inchinò a lei, mettendola in imbarazzo.
«Mia cara, sapevo che non avresti tardato. Abbiamo molto da dirci.»
«Vi prego, Signore. Portatemi da mio figlio e mio marito. Sono disposta a concedervi quel che desiderate, se mi solleverete da questo
peso che mi schiaccia il cuore.»
«Sei impaziente. Ciò mi irrita.»
«Non vorrei mai farla irritare. È solo che…»
«Continui a chiedere! Sai di non essere nella posizione di pretendere qualcosa?» Si era fatto aggressivo.
Bertha si lasciò sfuggire lacrime di dolore e paura. Il Signore cambiò improvvisamene espressione. Le si avvicinò incuriosito, fissandola in volto.
«Cosa sono quelle?» Indicava le lacrime con il volto di un bambino
che vede per la prima volta un giocattolo. Bertha inizialmente non
capì a cosa si riferisse, poi ebbe un’intuizione tardiva: «Non avete
mai visto una donna piangere?».
Il Signore allungò con cautela una mano verso il volto di lei, intingendo un dito nel suo dolore liquido, poi se lo portò alla bocca e
assaggiò, come un neonato nelle sue prime esplorazioni del mondo
che lo circonda: «Sanno di sale. Non sono buone».
Bertha tacque, non sapendo cosa rispondere.
«Come fai a crearle?»
La donna, incapace di capire, trovò rifugio in un pianto a singhiozzo, la qual cosa fece infuriare il ragazzo, che si portò le mani alle orecchie gridando: «Smetti. Smetti subito, o ti cavo gli occhi con le dita».
Accorgendosi di sortire l’effetto opposto a quello desiderato,
andò ancora più sulle furie, l’afferrò per i capelli, facendola cadere, poi la trascinò, procurandole un dolore lancinante che la fece
gridare più forte. Il Signore non parve provare alcuna pietà e continuò a strattonarla, portandola verso una porta chiusa: «Mi sono
sbagliato su di te. Non sai fare altro che piangere. Vuoi vedere tuo
marito e tuo figlio? Eccoli».
Spalancò la porta con un calcio e la costrinse ad alzarsi, sollevandola per i capelli, spingendola poi con violenza nella stanza.
«Non farlo, Ka’Muluth» suggerì la testa parlante conficcata nel palo.
«Non dirmi cosa devo o non devo fare, cercatore.»
Chiuse la porta imprigionando Bertha nella stanza attigua. L’ambiente era buio e le ci volle un po’ ad abituare la vista all’oscurità. La
consapevolezza fu accompagnata da un’ondata di terrore. Gridò con
tutto il fiato che aveva in gola riconoscendo i cadaveri del marito e
del figlio, ridotti a fantocci spezzati in varie parti del corpo; avevano
assunto simmetrie che non lasciavano spazio alla speranza. Ka’Muluth si portò ancora una volta le mani alle orecchie infastidito dalle
grida. La testa gli parlò ancora: «Che cosa hai fatto? Non avevi detto
che volevi diventare umano? Ogni giorno che passa sei sempre più
simile a tuo padre e meno a ciò a cui aspiri».
«Sei noioso. Qualunque cosa faccio è sbagliata. E invece sai cosa
ti dico? Quando smetterà di urlare capirà; ora che non ha più chi
amava può amare me.»
«Non funziona così, ragazzo. Mi sembrava di essere stato chiaro.
Non posso aiutati se non mi permetti di farlo.»
«E allora hai ragione tu. Eppure senti? Non grida più. Ha già smesso di amarli.»
Aprì la porta con impeto ed entrò; Bertha aveva assunto la posizione fetale e fissava con gli occhi spalancati e in affanno i cadaveri
martoriati di coloro che erano stati gli uomini della sua vita. Il Signore Oscuro le si pose davanti dicendo: «Ho fatto spazio nella tua
capacità di amare togliendoceli. Ora puoi amarmi».
Lo sguardo fisso di Bertha si illuminò di una scintilla. Vide l’assassino e provò un disprezzo infinito: «Sei un mostro. Un mostro!».
Ka’Muluth non riusciva a capire. Cosa non andava in quella donna? Era bella ma difettosa. Le avrebbe concesso il suo amore e il dominio sul mondo e lei li rifiutava. Non era degna di lui. Le si lanciò
addosso stringendole le mani attorno al collo. Lei cercò di divincolarsi invano. La vide annaspare e spalancare la bocca affamata di
aria; col passare dei secondi le resistenze divennero sempre più esigue e dopo meno di un minuto l’anima di Bertha si era già unita al
corpo in espansione di Azathoth.
Il Signore Oscuro uscì dalla stanza buia, deluso. Lo sguardo basso
non cercò gli occhi privi di vita del cercatore, però chiese: «Allora?
Non hai nulla da dire adesso?».
La testa mozzata tacque. Ka’Muluth strinse i pugni, sentendo
crescere la tentazione di spappolarla nella sua stretta, ma quel che
provò lo spaventò: era un sentimento doloroso, che non riusciva ad
arginare; si sentiva frustrato, ma anche angosciato, consapevole di
aver fatto qualcosa che avrebbe potuto compromettere definitivamente il suo cammino sulla strada dell’umanità. Le lacrime scesero
senza che potesse impedirlo e allora ne capì il senso e si sentì perso
nell’abisso.

La preda
Lubbe era un cacciatore, così come lo era stato suo padre prima di
lui, e suo nonno prima di suo padre. Le sue doti naturali da predatore si erano affinate con le tecniche imparate nei lunghi ed estenuanti addestramenti a cui il padre lo aveva sottoposto sin dalla più tenera età. Era il migliore del villaggio e aveva la presunzione di credere
di esserlo anche del mondo.
Al termine di questa caccia lo avrebbe dimostrato. L’inverno stava
per terminare e la neve cominciava a sciogliersi, ma la sua preda lo
aveva portato dove ancora il manto bianco resisteva alla primavera
imminente. L’essere non era umano; in molti lo avevano visto, ma
sempre dalla lunga distanza. I testimoni erano concordi sul fatto
che si trattasse di una creatura dalla folta pelliccia bianca, capace di
camminare eretta come un uomo, ma astuta come un animale. Era
entrata nel villaggio eludendo le sentinelle e aveva rubato la sacra
reliquia che i guerrieri si erano guadagnati sul campo di battaglia
sterminando i loro antichi nemici; la rivalità tra i due villaggi era
stata spenta nel sangue dei vinti, il popolo di Lubbe. I lupi grigi, si
erano impadroniti della sacra reliquia conosciuta come l’uovo del
Cavalcatore dei venti. Si diceva che nel liquido azzurro contenuto
in quell’uovo trasparente maturasse l’embrione di un figlio dell’antica divinità che sarebbe stato asservito ai possessori della reliquia
al momento della schiusa. I Lupi Grigi erano conosciuti per la loro
ferocia; con un figlio del Cavalcatore dei venti a loro assoggettato il
loro dominio si sarebbe esteso fin oltre il mondo conosciuto. Ma i
piani di conquista si erano scontrati con la creatura selvaggia che
aveva sottratto loro la promessa di un futuro radioso. Lubbe aveva
scelto i sette migliori cacciatori del villaggio con i quali aveva formato un gruppo che si era messo prontamente sulle tracce dell’essere. L’anziano del villaggio aveva letto gli intestini di un coniglio
e aveva scoperto che la creatura era un messaggero del Cavalcatore dei venti, venuto a prendere l’uovo per riportarlo al suo genitore
divino. Lubbe aveva dedotto che potesse essere uccisa dalle punte
delle lance, altrimenti non si sarebbe introdotta furtivamente nel
villaggio; avrebbe affrontato la situazione di petto, ma non era sua
intenzione sottovalutare la stirpe divina. La bestia si era diretta
a nord, lasciando tracce evidenti nella neve. Non aveva un grande
vantaggio sugli inseguitori muniti di slitte trainate da cani e Lubbe aveva la certezza che si riducesse ad ogni ora che passava. Era il
suo istinto da predatore a dirglielo. E come sempre quando si trattava di questioni di caccia aveva ragione. Poco prima di mezzogiorno la avvistarono in lontananza sulla cima di una collina. La nebbia
lo nascose in fretta ma Lubbe che conosceva il territorio di caccia
disse: «Sta cercando di raggiungere il mare a nord. Glielo impediremo tagliandogli la strada. Ha un vantaggio notevole, ma nulla che
le nostre slitte non possano compensare. Andris e voi tre dirigetevi
a nord-est, superatelo e accertatevi che vi veda. Dovrà pensare che
l’unica via di fuga sia a ovest, dove lo spingerete. Isfried e voi due,
venite con me. Lo aspetteremo dove i nostri compagni lo spingeranno. Praticamente ci finirà tra le braccia».
«Lubbe, perché a ovest? Sappiamo tutti che al di là di quelle colline c’è la valle maledetta.»
La valle maledetta era un luogo proibito, abitato da fantasmi e
inaccessibile ai viventi. Qualche testa calda vi era entrata per dimostrare il suo coraggio e non aveva più fatto ritorno. Anche gli
animali lo evitavano. Si diceva che fosse il luogo dove andavano a
vivere eternamente le anime indegne di passare l’eternità a fianco
di Wotun.
Lubbe rispose: «Non vi entreremo. Ci posizioneremo tra la nostra
preda e la città così da stringerlo tra due fuochi».
«Perché non lo spingiamo a est?»
«Perché a est ci sono le buche del popolo fatato. Se si infila in quei
labirinti bui lo perderemo.»
Prima che qualcuno potesse rispondere, Lubbe fece parlare le fruste e i cani partirono di corsa trainando la sua slitta.
Il confine con la valle maledetta era ben indicato dalla presenza di vapori mefitici che si sollevavano dal terreno, formando una
spessa coltre che nascondeva la valle alla vista. L’assenza di vita si
percepiva nell’aria, accentuata dall’innaturale mancanza di suoni.
Era un luogo antico che incuteva un timore reverenziale. I cani si
acquattarono ventre a terra uggiolando. I cacciatori li calmarono
accarezzandoli. Poi da dietro una collina a est apparve la preda:
aveva dimensioni umane, ma era coperto da una folta pelliccia
bianca. Si avvicinava correndo con difficoltà nella neve morbida.
Si fermò rendendosi conto di avere la strada sbarrata, proprio nel
momento in cui alle sue spalle apparvero le slitte degli inseguitori.
Sorprendentemente alzò le braccia al cielo in segno di resa. Lubbe fu sorpreso dal gesto spiccatamente umano. La preda avanzò
camminando verso il cacciatore che si avvide del bluff messo in
atto dall’uomo coperto di pellicce di volpe bianca, per mascherarsi
da creatura selvaggia. Il suo volto era nascosto da un cappuccio
imbottito di pelliccia.
Lubbe era stupito: «Per l’occhio cieco di Wotun! Chi sei tu?».
La voce dell’uomo era profonda: «Solo un uomo».
«Un uomo morto. Dove hai messo l’uovo? Consegnamelo e ti darò
una morte rapida e indolore.»
«Non vi appartiene.»
«Non ci appartiene? Che cazzo dici, uomo? Lo abbiamo conquistato sul campo di battaglia.»
«Uccidendo donne e bambini.»
Lubbe perse il controllo e tentò di colpirlo con un pugno, ma la
sorpresa prese il posto della spavalderia, quando la preda evitò il
colpo con una facilità disarmante; inoltre, approfittando del vantaggio ottenuto, superò l’avversario e corse verso la valle. Lubbe
spronò il cane, che guaì spaventato e non si mosse. Quindi afferrò
la lancia pronto a scagliarla verso il fuggiasco, ma lo stupore frenò
la sua mano: i vapori si aprivano al passaggio dell’uomo coperto di
pellicce, richiudendosi alle sue spalle.
Gridò in preda all’ira e si lanciò di corsa tra i vapori, seguito dai
compagni.
Gli occhi bruciavano a contatto con la nebbia, e non si riusciva
a vedere che a pochi centimetri di distanza. Lubbe avanzava lacrimando, verso una meta sconosciuta. Suoni sordi lo allarmarono.
Chiamò i nomi dei compagni: due non risposero. Quel bastardo li
stava fottendo. Non era mai stato una preda, ma il cacciatore che li
aveva portati proprio dove voleva. Ripensò a quell’uomo minuto e
rapido come un serpente; c’era qualcosa di familiare in quella figura, ma non riusciva a ricordare cosa.
Strinse la lancia per darsi coraggio: «Rimaniamo vicini l’uno
all’altro».
Un nuovo suono sordo lo fece sobbalzare; era vicino questa volta. Intravide il corpo di uno dei cacciatori scomparire rapidamente,
inghiottito dalla nebbia. Soffocò l’impulso di scagliare la lancia in
quella direzione, per non rischiare di rimanere disarmato. L’istinto
di sopravvivenza gli impedì di correre dietro al compagno inghiottito dai vapori. Sfregò gli occhi irritati col dorso della mano procurandosi un benessere temporaneo. Due figure avanzarono verso di
lui. Afferrò la lancia con entrambe le mani; erano pallidi come la
luna e completamente glabri. Uno dei due aveva la testa sproporzionata. Non sembravano ostili, ma Lubbe era ormai in preda al panico;
intimò loro di fermarsi e vedendosi ignorato menò un fendente verso il più alto. La lancia ne attraversò il corpo fatto di nebbia. Il fantasma non rallentò la sua andatura e Lubbe non riuscì a trattenersi
dal fuggire. Correva alla cieca, senza sapere dove andare, ma cercando di mettere più spazio possibile tra lui e gli spiriti dei morti.
La breve corsa terminò quando il pavimento scomparve sotto i suoi
piedi. Precipitò impattando con un liquido denso che gli provocò
un dolore lancinante. Realizzò di essere finito in una vasca colma
di acido che gli ustionò la carne, penetrandogli anche in bocca e
procurandogli piaghe letali dalla lingua fino allo stomaco. Annaspò
conscio di essere a un passo dalla morte e con le forze residue riuscì
a issarsi sul bordo. Il corpo era ormai coperto di piaghe dolorose. Si
sentiva soffocare: l’acido stava intaccando le vie respiratorie.
I vapori si sollevarono mostrando l’uomo coperto di pelli. Era a un
passo da lui e teneva saldo nella mano sinistra l’uovo del Cavalcatore del vento, che pulsava emanando una luce azzurra. Quando mostrò il volto, abbassando il cappuccio, Lubbe capì immediatamente
cosa fosse il senso di familiarità provato precedentemente: i capelli
dorati e le pellicce di volpe gli ricordarono il tempo in cui i popoli del nord, dopo un accordo ottenuto faticosamente, si riunirono
e tentarono di espandere i loro domini verso sud. Avrebbe dovuto
trattarsi di una vittoria facile, se non fosse stato per la Volpe Dorata,
l’astuto generale nemico che aveva respinto l’orda distruggendo per
sempre le velleità di conquista degli invasori, che tornarono a essere vittime dei dissidi che li avevano divisi fino ad allora.
Lubbe non aveva mai visto Lucius Winter, ma la sua leggenda era
cresciuta tra i popoli del nord; si diceva che fosse capace di grandi
prodigi, e che la sua astuzia avrebbe potuto rivaleggiare con quella
dello stesso Wotun. La stessa leggenda però terminava con la morte
del generale caduto combattendo vittoriosamente, da solo, orde di
feroci demoni. Il cacciatore riuscì a parlare emettendo suoni inarticolati a causa delle lesioni alle corde vocali; cercò di dire: «Non puoi
essere tu. Sei morto».
Lucius capì il senso di quei suoni e rispose: «Non io, tu lo sei».
Lubbe emise un suono incomprensibile, ebbe un tremito e morì.
Lucius concentrò la sua attenzione sull’uovo che divenne più
luminoso. Subito dopo il terreno cessò di esalare i vapori mefitici
rivelando la distesa di maestosi bastioni a forma di stella a cinque
punte, alti una decina di metri. Aveva già visitato quella città una
volta e il ricordo era ancora vivissimo in lui. I ratti ne avevano trovate altre in altri luoghi distanti e le avevano esplorate con grosse
perdite, poiché erano circondate da incredibili reti di trappole letali
difficili da individuare.
Si avvide subito delle numerose figure che si aggiravano per la città, scambiate da Lubbe per fantasmi. Proiezioni di un passato lontanissimo, degli uomini scelti dagli abitanti della città per servirli. Gli
architetti venivano dal cielo e dalle esplorazioni delle colossali città
i ratti avevano scoperto che chiamavano loro stessi Antichi, e facevano parte di una razza chiamata grande razza di Yith. Erano capaci
di risiedere in qualunque epoca e tempo; non appena giungevano
in un luogo ne contattavano gli abitanti che ritenevano illuminati
e si fondevano con le loro menti; in un lontanissimo passato avevano scelto uomini con cui condividere i corpi donandogli in cambio
una conoscenza aliena. I prescelti dagli Antichi si fecero chiamare
Elohim e si facevano riconoscere dagli umani primitivi per la loro
pelle chiara e per la mancanza di peli; la comunione tra corpo di
carne e mente aliena generava col tempo mutamenti negli Elohim
la cui scatola cranica aumentava in modo esponenziale. Alcuni ac-
quisirono conoscenze tali da imparare a costruire mezzi capaci di
solcare il cielo e persino lo spazio.
Lucius era al sicuro da ogni trappola: in quanto possessore della
chiave a forma di uovo, gli veniva riconosciuto dalla città il diritto
a un passaggio sicuro; le trappole si disattivavano al suo passaggio,
per riattivarsi subito dopo. Era tornato per trovare Kaspar e in quella città disabitata c’era la mappa che gli avrebbe fatto guadagnare
tempo. Avrebbe solo dovuto trovarla per scoprire la locazione dei
mezzi a spostamento spazio-dimensionale e chiamare a sé quello
che stava cercando. Sebbene avessero tutti un’origine comune, i
mezzi a spostamento spazio-dimensionale possedevano caratteristiche diverse. La torre era l’unica capace di muoversi nel tempo e
nello spazio, ma non poteva essere utilizzata che dal cercatore o dal
Bastione; vi erano poi nel multiverso altri sei mezzi capaci solo di
muoversi attraverso lo spazio e uno di questi era il tendone posseduto da Cornelius; il mercante doveva a Lucius un favore, dato che
molti anni prima il ratto aveva chiuso un occhio sul fatto che fosse
un demone in incognito. Era il momento di riscuotere la ricompensa per aver mantenuto il segreto. Una volta nella città avrebbe avuto
i mezzi per mandare un segnale di richiamo a Cornelius. Gli sarebbe
bastato aspettare il suo arrivo.
Decenni fa, i ratti esplorarono la città degli Antichi, trovando la
chiave uovo; provarono a portarla nella civiltà per studiarne le qualità, appurando che non appena si allontanavano oltre dodici miglia
dalla città l’oggetto si inattivava diventando una pietra priva di qualunque valore analitico. Così i ratti fondarono il villaggio di Wanna
a cinque miglia dalla città. L’uovo si rivelò il viatico per un viaggio
privo di pericoli all’interno delle rovine aliene. Col tempo a Wanna si unirono altre tribù locali; gli abitanti del villaggio divennero
i guardiani della reliquia. Erano passate già tre generazioni quando Lucius conobbe Jupp, con cui condivise il tempo dell’addestramento con i ratti. Divennero amici; le loro strade si divisero quando
Jupp fu assegnato a Wanna. Ormai c’era solo un ratto per volta a
vegliare sulla chiave uovo sulla quale le tribù della zona avevano ricamato leggende, la più conosciuta delle quali raccontava di come il
Cavalcatore del vento avesse deposto l’uovo e lo avesse consegnato
agli abitanti del villaggio che lo avrebbero vegliato in attesa della
schiusa. Lucius si era recato a Wanna per incontrare Jupp e raggiungere assieme a lui la mappa che gli avrebbe permesso di trovare
Kaspar in tempi brevi.
Si era trovato davanti a una carneficina, con decine di corpi bruciati dagli unici cinque superstiti, che gli riferirono dell’attacco avvenuto tre notti prima, a opera della tribù dei Lupi grigi. Gli confermarono anche la morte di Jupp, che era riuscito a portare con sé
cinque degli invasori prima di spirare. Si erano presi la reliquia e se
ne erano tornati a casa loro. Lucius meditava di farsi portatore di
giustizia, ma c’erano questioni più importanti da risolvere prima.
Così aveva indossato la pelliccia di Jupp che, per ironia della sorte,
era fatta con pelli di volpi e si era introdotto nel villaggio per recuperare la chiave uovo. Il fatto che il suo ritorno fosse coinciso con
un massacro gli fece temere di essere vittima di un destino beffardo,
che voleva punirlo per aver scelto di lasciare la serenità che aveva
trovato.
L’uovo aprì una delle porte invisibili che permettevano l’accesso a
uno dei numerosi edifici. Non era propriamente un oggetto magico,
ma un costrutto fatto di ingranaggi, comunicanti con luci colorate,
che ruotava lungo le proprie assi longitudinali e latitudinali, senza
apparente motivo: Lucius però era certo che a ogni cambio di stato
dell’uovo corrispondesse l’attivazione di qualche meccanismo misterioso, posto in altre parti della città. Si concentrò sulla mappa,
che già aveva visto durante la sua prima visita avvenuta poco dopo
essere diventato generale, e l’uovo gli indicò la via sintonizzandosi
su pannelli luminosi posti sui pavimenti, sulle pareti e sui soffitti
dei lunghi e mastodontici corridoi bui, costellati di formazioni geometriche perfettamente intagliate nella roccia. I pannelli si accendevano al suo passaggio mostrandogli la via da seguire. Il percorso
lo portò ad attraversare una stanza enorme e spoglia, nelle cui pareti
erano scavate nicchie protette da vetri spessi; si fermò per guardare all’interno di una di esse, intravedendo un corpo colossale. Non
riusciva a scorgere i particolari ma intravide una forma vagamente
conica, ricoperta di qualcosa di molto simile a squame; individuò
poi escrescenze simili ad arti e chele a immagine di quelle di enormi
granchi. Un globo con tre protuberanze somiglianti a occhi privi di
vitalità si sollevava da quel corpo spaventoso. Quell’essere scosse
profondamente Lucius, che per un istante provò l’incomprensibile
sensazione di essere al cospetto di Dio.
L’uovo lo aveva portato nelle viscere della terra, poi in cima a una
torre, poi nuovamente in profondità. Ora non era in grado di dire
dove si trovasse, poiché la struttura era priva di finestre o fessure
che lasciassero trapelare la luce naturale, ma dal nulla gli apparve davanti una mappa del pianeta. Era tessuta di luce arancione e
fluttuava nell’aria. Le terre ancora inviolate dalla civiltà erano più
estese di quelle colonizzate. L’umanità le avrebbe raggiunte quando
i tempi sarebbero stati maturi. La mappa indicava anche le dodici
città degli Antichi sulla terra, evidenziando quella nella quale si trovava con una luce intermittente. Una voce metallica risuonò nell’aria: «Poni la tua domanda, Lucius Winter».
Il fatto che chiunque avesse parlato conoscesse il suo nome lo agitò.
«Mostrami la posizione della Torre.»
Una luce apparve sulla mappa a poca distanza da dove si trovava la
città. Lucius si sorprese. Doveva essere a qualche decina di miglia da lì.
La voce parlò ancora: «Poni la tua domanda, Lucius Winter!».
«Posizione del cercatore.»
Nessuna luce apparve. La voce metallica chiarì: «Non esiste alcun
cercatore in questa dimensione. L’ultimo è deceduto sei mesi fa».
Lucius si sentì mancare. Come era possibile?
«Poni la tua domanda, Lucius Winter.»
«Cosa è accaduto al cercatore?»
«Il sistema non è in grado di fornire risposta. Poni la tua domanda,
Lucius Winter.»
La cosa meritava un’indagine approfondita, ma al momento non
c’era tempo da dedicarle.
«Mostrami la locazione di Kaspar Vogel.»
«Impossibile soddisfare l’utente. Il nome Kaspar Vogel non è collegato in nessun modo all’uso della tecnologia Yithiana. Poni la tua
domanda, Lucius Winter.»
La tiritera sulla domanda stava diventando insopportabile.
«Attiva comunicazione con mezzo spazio-dimensionale tenda del
mercante Cornelius.»
«Impossibile soddisfare l’utente. L’oggetto mezzo spazio-dimensionale tenda ha cessato di esistere. Poni la tua domanda, Lucius Winter.»
«Cosa significa che ha cessato di esistere?»
«Ha: terza persona del verbo indicativo presente avere. Sinonimo
di possedere, essere padrone…»
«So benissimo cosa significa letteralmente. Quello che voglio sapere è cosa è accaduto.»
«Dati insufficienti. Impossibile soddisfare l’utente. Poni la tua domanda, Lucius Winter.»
L’uomo sospirò poi chiese: «È possibile evitare che tu finisca la
tua frase chiedendomi di porre una nuova domanda?».
«Come l’utente desidera.»
Attese per accertarsi che non ci fosse un trucco: «Mostrami la locazione del demone mercante Cornelius».
«Impossibile soddisfare l’utente. Il nome Demone Mercante Cornelius non è collegato in nessun modo all’uso della tecnologia Yithiana.»
«Mi stai dicendo che non c’è mai stata una connessione tra Cornelius e la Tenda?»
«Non è quello che ho detto. Ho solo risposto alla domanda dell’utente.»
La voce tacque. Lucius attese poi capì che non avrebbe ottenuto
nulla se non ponendo una nuova domanda: «C’è stata una connessione tra Cornelius e la tenda e in caso di risposta positiva, quando
è cessata?».
«La connessione è esistita ed è cessata centoventinove ore, trentasette minuti e quattordici secondi fa.»
Cosa era accaduto a Cornelius e al suo tendone? E ora come avrebbe
potuto Lucius giungere in tempo alla chiamata di aiuto di Kaspar?

23 Aprile 2018
Cari lettori! David Giuntoli, autore de Il Segnato e Il Segnato - I pirati del multiverso, vi invita a partecipare il 5 maggio alla cena con delitto presso il Borgo degli aranci a San Giuliano Terme! Non prendete impegni! Siete curiosi di sapere di cosa si tratta? Maggiori informazioni al link: https://bit.ly/2vy2hLK
19 Marzo 2018
Cari lettori! Al seguente link potete trovare una bellissima recensione su "Il segnato", il primo capitolo della saga dell'autore David Giuntoli, che racconta anche parte di questa nuova avventura con "Il segnato II". Buona lettura! https://bit.ly/2tVNxWc
23 Febbraio 2018
Cari lettori! Non prendete impegni martedì 10 aprile: David Giuntoli presenterà il suo libro alla Feltrinelli di Pisa. Stay tuned!
14 Febbraio 2018
"Ogni istante che sottraete alla realizzazione dei vostri sogni è un istante perso". L'autore David Giuntoli racconta il suo percorso a bookabook a NoCrimeOnlyArt.

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David Giuntoli
classe 1967, nato a Lucca e pisano da una vita, è infermiere e da sempre appassionato di letteratura horror, fantasy e fantascienza. Ha pubblicato diversi racconti e Il Segnato III, La fine del multiverso è il terzo volume della saga dopo Il Segnato (bookabook, 2017) e Il Segnato II, I pirati del multiverso (bookabook, 2018).
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