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Singolare identità plurale – Racconti

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In racconti brevi pervasi da un tono malinconico e profondo, ma allo stesso tempo da irriverenza e humour nero, si dipanano la quotidianità stanca ma rassicurante del lavoro e della famiglia, il destino beffardo dell’uomo, la religione come vuota pratica devozionale, il sogno e la sua deformazione in incubo; e ancora, l’infanzia e i suoi affetti, le differenze generazionali, l’adolescenza con i suoi cambiamenti e i suoi amori.

Ad accompagnare il lettore è una voce accidiosa ma sagace, spesso tenera, autobiografica e allo stesso tempo immaginaria, che mette in luce ciò che accomuna lo scrittore, il personaggio e il lettore: la compresenza, nella parola “io”, di tante identità.

UN GUSTO SPIACEVOLE

Tra i saluti di bentornato e quelli dell’arrivederci, abitualmente celebrati subito dopo le feste pasquali, di norma non passano mai più di cinque giorni; ma in vista dell’imminente matrimonio di un amico, e dell’inusitata scelta di godermi un inverno di riposo, mi sono permesso di prolungare, anticipandola a fine febbraio, la tradizionale sosta primaverile in paese, dai miei. La verità è che sono stanco; stanco di un lavoroche da troppo mi dà un posto sicuro dove stare ma nessuno che possa realmente considerare casa.

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Sino ai vent’anni non avevo mai lasciato la mia terra d’origine; è stata l’università ad allontanarmi la prima volta, dal piccolo mondo circoscritto che un irrefutabile futuro nella falegnameria di famiglia mi prospettava. Dagli undici ai diciannove anni, ho passato tutte le estati levigando ogni sorta di legno nella piccola bottega artigiana che mio padre aveva ereditato dal suo, perciò non c’è da biasimarmi se, con una punta di incestuoso cinismo, fui il solo a godere quando, oberato di debiti, il mio vecchio fu costretto a chiudere la baracca.Per lui, come per tutti gli uomini cresciuti col solo obbligo morale di sostenere economicamente le sorti della propria famiglia –dimenticando o delegando la componente affettiva del proprio ruolo di genitore –, la bancarotta fu indubbiamente un’onta indecorosa.Da quel momento il suo mutismo esasperante, il broncio perenne e la mancanza d’interessi differenti dalla ricerca di un nuovo lavoro –possibilmente sfiancante –trovato tempo dopo nel forno di una panetteria, hanno esacerbato il mio livore nei suoi confronti e fatto sì che, una volta terminato il liceo, prendessi la decisione di proseguire gli studi lontano da casa.Dovetti spesarmi di tutto, ovviamente, senza la minima possibilità di intaccare il traballante bilancio domestico. Iniziai così la mia carriera da studente universitario fuori sede,lavorando come cameriere. Gli orari –specie quelli notturni –ai quali ero costretto, tuttavia, poco e male si addicevano alla lucidità mattiniera necessaria allo studio in facoltà; ma piuttosto che chiedere aiuto e cercare una mediazione economica con i miei, preferii perseverare nel mio intento suicida di emancipazione, andando inevitabilmente incontro al primo fallimento certificato della mia giovane vita: quello scolastico.La fine di quell’unico anno accademico –superai, con voti minimi, solamente due miseri esami complementari –segnò l’inizio della mia nuova vita di adulto. Tornare a casa era escluso; non potevo ammettere la sconfitta, per cui scelsi quello che dalla prima adolescenza ero abituato a subire: sacrificare la conquistata libertà scolastica delle mie estati. Niente levigatrici, pialle o carta abrasiva questa volta; il penetrante profumo del legno appena tagliato venne sostituito dall’acre fetore che il sudore produce quando si mischia agli oli abbronzanti e alle creme doposole.Ottenni facilmente il patentino di bagnino e questo mi garantì la remunerativa possibilità di annoiarmi tranquillamente, almeno per i successivi quattro mesi, sotto il torrido sole della riviera romagnola. Malauguratamente, non tutto andò per il meglio. Un impavido turista tedesco, violando il divieto di balneazione esposto sulla spiaggia di mia competenza, affrontò gli irrequieti cavalloni di quel ventoso inizio di settembre. Ci vollero meno di trenta secondi, ma quando lo raggiunsi in acqua aveva già perso i sensi. Dopo averlo adagiato sulla battigia, mi ritrovai di fronte un sessantenne sovrappeso e cianotico, spiaggiato come un grosso cetaceo. Vincendo non tanto la paura, ma la consapevolezza della mia inesperienza di ventenne, provai a lungo a rianimarlo, inutilmente.Il medico dell’ambulanza disse che lo spavento gli aveva probabilmente causato un infarto e che, in definitiva, era stato quello a ucciderlo. All’epoca l’episodio non mi turbò particolarmente; certo, per un paio di notti ebbi difficoltà ad addormentarmi, ma alla fine di quell’estate quasi non ci pensavo più.Oggi invece, mi capita spesso di lambiccarmici insistentemente. Non è per un dilazionato senso di colpa; feci tutto quello che doveva essere fatto e mai una volta in questi anni mi sono sentito responsabile. Tuttavia, molto banalmente, mi rimprovero di non riuscire più a ricordare i lineamenti di quel viso. Se chiudo gli occhi, per rovistare meglio tra le anse della memoria, al massimo della perspicuità mi sovviene solamente uno di quei deformi e indistinti ritratti alla Francis Bacon, niente di più. Tante volte mi sono chiesto se fosse normale dimenticare i connotati di una persona morta letteralmente tra le tue braccia. Ero sicuro che quel volto mi si sarebbe stampato indelebilmente tra le meningi, invece niente. È probabile che sia una sorta di autodifesa, come quando da bambino, al capezzale di mia nonna, intuii per la prima volta la reale portata del concetto di morte; ma bastò uscire da quella stanza e accendere la TV del tinello, per inebetire la terrificante consapevolezza che non si può vivere in eterno.Quello che invece vorrei dimenticare, e che da quell’estate sintetizza le mie giornate malinconiche, è la reminiscenza dell’indelebile sapore salso e gelido di quelle labbra teutoniche. Non c’è volta, specie durante le giornate ventose, che il mio palato non richiami dalle spire di un passato lontano la chiara e intensa nuancedi quel gusto spiacevole.Durante quella stagione, conobbi anche la ragazza che determinò pesantemente le mie scelte lavorative future, quelle che dopo una lunga gavetta mi hanno permesso di diventare quello che sono ora. Si chiamava Laura –si chiama ancora così –e faceva la cameriera presso la struttura alberghiera per la quale lavoravo anche io. Fu per lei, per starle vicino, se quell’inverno decisi di emigrare tra le fredde pianure delNord-Est e, con i primi caldi, seguirla come un fedele cagnolino per fare l’animatore in uno sperduto villaggio turistico delle Baleari. Ora che lei mi ha lasciato da un pezzo, passo undici mesi l’anno –equamente divisi tra la Sardegna e la Valle D’Aosta–a dirigere due discrete strutture alberghiere a quattro stelle. Il resto del tempo viaggio; ogni tanto –come adesso –ritorno a casa.Non ho mai avuto il vezzo di reclamizzare particolarmente il mio rientro, questa volta però, quel poco è stato sufficiente perché due dei tre amici d’infanzia rimasti in paese –l’altro è lo sposo –s’impuntassero per venirmi a prendere all’aeroporto. Né la stanchezza accumulata nel volo intercontinentale dal Messico, né la consapevolezza che quel gesto avrebbe procrastinato di parecchie ore l’abbraccio con i miei, sono stati ritenuti dai due vecchi compaesani motivi sufficienti perché potessi negarglielo. In più, profittando del Martedì Grasso –come temevo –i due si sono presentati all’appuntamento bardati da Banda Bassotti, la nostra ufficiale divisa di carnevale dai tempi del liceo. Prima ancora che i rituali saluti martoriassero con pacche argentine le mie povere spalle bruciate dal sole di Acapulco, sono stato infatti obbligato a indossare il caratteristico maglione rosso marcato con le cifre che riassumono la mia data di nascita.Immagino non sia necessario fare il resoconto di tutto quello che è accaduto successivamente al rendez-vouscon i miei postquarantenni sodali; sarà infatti sufficiente un briciolo di banale fantasia per colmare facilmente questo, tutto sommato ininfluente, vuoto narrativo. Piuttosto, passerei al momento in cui, intorno alle due di notte, rientrando a casa, ho dovuto affrontare la sgradevole contingenza di mio padre che usciva per recarsi al forno.Ecco un volto, e il suo disappunto, che invece non sono mai riuscito a dimenticare.La colpa è mia, ovviamente; ma l’alcol, la goliardia carnascialesca e la stanchezza di quell’infinita giornata hanno irrimediabilmente compromesso la mia capacità analitica, facendomi compiere l’errore che mi ero ripromesso di non commettere più.Non sono forse stati soprattutto quegli sguardi intransigenti che quasi venticinque anni fa mi hanno indotto a fuggire dal mortificante torto di essere un normalissimo adolescente, voglioso di divertirsi senza rattristarsi con le deprimenti condizioni economiche della propria famiglia?Fortunatamente l’incontro non si è protratto a lungo. Dopo esserci salutati con una vigorosa stretta di mano, mio padre ha chiesto semplicementequanto tempo sarei rimasto e, senza prestare apparente attenzione alla mia risposta, si è congedato chiudendosi il portone dietro le spalle.«Ciao, ci vediamo domani, papà» ho detto io in evidente ritardo, poco prima che la faringe condensasse una peculiare intonazione salmastra.

23 maggio 2020

Aggiornamento

Obiettivo raggiunto
19 maggio 2020

Aggiornamento

21 aprile 2020

Aggiornamento

Cari amici,
a una settimana dall'inizio della campagna, ho piacevolmente appreso che i preordini del libro hanno superato la cifra mediana del auspicato obbiettivo di 200 copie. Non voglio, soprattutto per scaramanzia, farmi illusioni inutili sul livello del guado raggiunto, però devo riconoscere che questa ragguardevole soglia ha piacevolmente sorpreso il mio noto temperamento scettico.
Tuttavia, questo più che uno scollinamento credo sia l'inizio dell'ultima salita, ma che il livello raggiunto ci dia quantomeno lo slancio necessario per affrontare gli ultimi faticosi tornanti che ci condurranno al traguardo. Questa forzata clausura, se da un lato mi impedisce una pubblicità più "fisica" con i possibili lettori, dall'altro mi sta concedendo il tempo necessario per rivedere, insieme ad un paio di prodi revisori, le bozze del mio scritto, e ai quali voglio rinnovare il mio sentito grazie.
Concludo questo scritto, auspicando che il passaparola che vorrete continuare a dare al mio libro, ci permetta in breve di raggiungere la quota necessaria per la sua pubblicazione.
Grazie a tutti.
Cordialmente, Samuel.

Commenti

  1. Mega Pick

    Un rumore sinistro proviene dalla mia destra:
    ironie dello spirito raccontate da Samuel Usai

    Morto Torres è il luogo di un immaginario mentale prima di essere il luogo fisico per l’ambientazione dei racconti di questa Spoon River dei viventi narrata in maniera disincantatamente appassionata da un Samuel Usai che passa con disinvoltura dalla regia di intriganti cortometraggi ad altrettanto interessanti corti narrativi, dove l’occhio è sostituito da una fessura dell’anima che lascia intravedere solo una porzione di spazio, ancorché nitida e dettagliata.

    Dal punto di vista della struttura narrativa quasi tutti i racconti hanno in comune un breve spazio temporale che, seppure talvolta interrotto da flashback, rappresenta l’unità di uno stato d’animo compiuto. In altri è una voce narrante vicina al protagonista che descrive una parte della vita di quest’ultimo. Spesso le storie restano sospese ad un filo e si spengono come una candela dopo un debole soffio. Lo scrittore non va oltre. Il lettore che voglia sapere di più rimarrà frustrato. In altre storie il protagonista non riesce ad uscire dal groviglio del susseguirsi degli eventi e insegue la sua narrazione come un’ossessione onirica, un incubo che riesce a coinvolgere il lettore, fino alla risoluzione finale.

    Ma nella maggioranza dei casi bisognerà adattarsi da subito ad accettare questi narrati come sentieri che non portano in nessun particolare luogo, o che si interrompono come si interrompe, per l’appunto, un sogno. Tuttavia, mentre camminiamo, ci guardiamo intorno e riconosciamo scenari della psiche conosciuti forse solo nella nostra ancestrale memoria, ma talmente familiari da risultare dolorosamente nostri, anche se di un dolore quasi rassicurante, e a volte addirittura inebriante.

    Nei personaggi di cui seguiamo un pezzo di percorso di vita e di cui talvolta (ri)conosciamo l’identità solo a metà strada ( o addirittura, con un piacevole effetto sorpresa, alla fine), ritroviamo padri, madri, figli, mariti e mogli, nonni e nonne, amici, autisti, impiegati, operai disoccupati, portatori di pizze, tifosi di calcio, malati di follia, scrittori… quasi tutti accomunati dall’appartenenza allo stesso microcosmo: la cittadina industriale di Porto Torres. Il lettore locale riconoscerà da subito non solo gli spazi, ma talvolta anche la parlata, efficace per caratterizzare alcune personalità. L’effetto su questo lettore privilegiato è un’ulteriore empatia con certi individui comuni, a cui perdoniamo la bruttezza che spesso rasenta il fastidio, come quello che potremmo provare durante la visione di certi film di Sordi o Monicelli.

    Questo variegato universo umano è espresso attraverso altrettanto varie tipologie di narratori, dall’onniscente al reticente, passando per monologhi interiori che contemplano o rievocano allo stesso tempo una quotidianità banale alla Mr Bloom insieme alla passione vitale di Mollie, quasi sempre però alleggeriti da un’ironia che a volte sconfina nella commedia, o comunque un malinconico distacco, come a voler prendere le distanze da un sentimento troppo grande. Sebbene il parallelismo joyciano vuole essere solo una vaga suggestione e in nessun modo intenda proporsi come cifra stilistica, è curioso ritrovare in molti di questi racconti la stessa tensione verso l’epifania, verso una qualche forma di realizzazione della coscienza. In questo, la dimensione territoriale si allarga ed abbraccia il cuore della universale condizione umana.

    Come già detto, non sono solo le storie a rendere queste narrazioni piacevoli e accattivanti, è anche il linguaggio molto personale e il tono curiosamente sopra le righe, originale e indefinibile. L’autore gioca con le parole e la sintassi come a voler smontare un giocattolo per rimontarlo in un altro modo, magari anche strambo; e le suggestioni che ne risultano ricordano spesso il gusto dei bambini nello sguazzare dentro il codice verbale, esplorandone le potenzialità con leggerezza e senza paura del giudizio; come quando, da soli, si intrattiene un dialogo con l’amico immaginario. Ma forse sarebbe meglio parlare di linguaggi, al plurale. Lo scrittore esprime il suo divertimento in maniera esplicita quando si intrattiene nel gioco di sperimentazione di stili e registri, come fa in Il vecchio Caulfield, che risuona di clichè linguistici da “doppiaggio italiano di film statunitense”, o quando, sarcastico e autoironico, sfodera il meglio del repertorio dal catalogo “recensioni” in L’angolo della critica.

    Come avrete intuito, quest’opera, pur intrisa di emozioni che arrivano dritte al cuore, è anche, e in discreta misura, un esercizio di scrittura. Sovente il vero protagonista è il narrare e i suoi argomenti. Perciò ogni racconto, rappresentandone un piccolo esempio, è diverso dagli altri come possono essere diversi i sassolini su una spiaggia, lucidati dalle onde di risacca: un mosaico policromatico dove ogni pezzo ha una sua misura, colore, forma e imperfezione; non riusciamo a decidere quale portarci a casa, ognuno è un pezzo unico di nuances, geometrie, rude e delicata bellezza.

    Maria Grazia Pichereddu

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Samuel F. Usai
nasce, cresce, studia, si sposa, si riproduce, invecchia e (le probabilità sono alte) morirà in Sardegna. Appassionato di letteratura, musica e cinema, è socio fondatore dell’Associazione Culturale la Camera Chiara, che si occupa di arti visive con forum, rassegne e proiezioni. Sullo stesso tema, nelle scuole, conduce laboratori teorico-pratici sull’utilizzo degli strumenti audiovisivi volti alla realizzazione di brevi cortometraggi a tema. Da venticinque anni lavora provvisoriamente nella ristorazione. Singolare identità plurale è il suo primo libro di racconti.
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