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T.I.M.E.

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Nel 2049, un virus messo in circolo vent’anni prima inizia a mostrare i suoi effetti, minacciando la sopravvivenza dell’intera umanità. Esiste un solo modo per fermarne il creatore: la linea Bradbury, una linea temporale iniziata nel 2002, la cui successione di eventi è la sola a poter assicurare quell’unico momento in cui sarà possibile impedire la liberazione del virus.

Per preservare la linea Bradbury, il dottor Aldo Mantovani, fondatore dell’agenzia T.I.M.E., decide di affrontare un viaggio indietro nel tempo fino al 2029: qui assolda due divertenti e incorreggibili amici – Lipo e Manto, ossia il se stesso trentenne –, per portare a termine una serie di missioni ai limiti dell’impossibile.

CAPITOLO UNO 

Carugate, provincia di Milano, Italia 

Sabato, 10 novembre 2029, 17:30 

 

Silenzioso.  

Si potevano dire molte cose di quel cimitero, ma la più veritiera era certamente che quel luogo era incredibilmente silenzioso: nessun rumore, neanche il più piccolo, rompeva il mortale mutismo che aleggiava tra le tombe. Né il volo di un uccello solitario, né lo sfrecciare di un’automobile in lontananza: nulla.  

Solo il vento, accarezzando di tanto in tanto le foglie dei cipressi, invadeva quell’isolamento, tradendone l’appartenenza al mondo esterno. 

Migliaia di lapidi si ergevano dal terreno, in uno spazio troppo angusto per contenerle; il tutto era circondato da mura di un grigio opaco, segnate dal tempo, come lasciavano intendere le numerose crepe, le quali contribuivano in modo decisivo a rendere il luogo ancora più macabro e spettrale.  

All’improvviso, un fruscio lontano ruppe la fatidica quiete: prima appena percettibile, poi sempre più vicino e definito. Sempre più forte.  

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Un coro di voci che, compatto, avanzava agitandosi in un conciliabolo di idee e pensieri: un’ottantina di persone, forse meno, procedeva a passo lento ma deciso. 

Quattro uomini, contratti per lo sforzo, trasportavano una bara di legno marrone chiaro e, davanti a loro, un sacerdote guidava il corteo. Del denso silenzio che aleggiava solo pochi minuti prima non c’era più alcuna traccia. 

Dietro il feretro, una donna piangeva: una mano sul volto, a nascondere le lacrime, e l’altra sulla vita, ad accarezzare distrattamente la piccola creatura che le stava crescendo in grembo. Era bellissima, nonostante il trucco rovinato dal dolore e i capelli biondi raccolti alla bell’e meglio. Camminava a fatica mentre i presenti alla cerimonia, a turno, cercavano di sostenerla e consolarla.  

Andrea Lipora, l’uomo dentro la bara, era suo marito.  

Si erano conosciuti ai tempi del liceo; lei, bassina ma già molto bella, con un sorriso dolcissimo, e lui, alto e magro, ma incapace con le ragazze. Talmente impacciato, lo scherniva qualche volta Veronica, da dichiararle il suo amore alla prima gita scolastica, dopo appena dieci giorni che si conoscevano, come solo un quattordicenne inesperto e sognatore potrebbe fare. 

Veronica ricordava bene quella escursione al parco Forlanini, appena fuori Milano: aveva passato la giornata con le sue amiche e al ritorno, una volta scesi dal bus, lui le si era avvicinato e le aveva confessato i suoi sentimenti, così, nello stesso modo in cui l’aveva visto fare nei film, convinto che nella realtà fosse egualmente semplice. C’erano, in quelle sue parole di acerbo ma sincero amore, ingenuità e incoscienza: era stata una piccola pazzia e, anche se allora non poteva saperlo, non sarebbe stata l’ultima che avrebbe fatto per lei. 

Lei gli aveva risposto con un secco no e per molto tempo era rimasta determinata sulla sua decisione: ovviamente non ricambiava i suoi sentimenti, e come poteva? Si erano appena conosciuti! Senza considerare, poi, la figuraccia davanti alla classe. 

Nel frattempo, passato l’imbarazzo, erano diventati amici e capitava che uscissero insieme in compagnia, ma niente di più.  

Così, per cinque lunghi anni, lui aveva atteso il momento opportuno per rifarsi avanti e, finalmente, alla festa del diploma, aveva scovato, tra vodka e birra, il coraggio di parlarle ancora del suo amore e lei aveva trovato la pazienza per ascoltare.  

In realtà, era già da un po’ di tempo che la sua idea riguardo a lui aveva iniziato a cambiare: quel ragazzo era sempre stato gentile, così educato, un vero gentiluomo e, cosa più importante, la faceva ridere, anche nei momenti più complicati. 

Che imbranato, aveva pensato Veronica, sorridendo, ma quel suo strano e appassionato discorso l’aveva convinta; a un certo punto l’aveva fermato, appoggiandogli un dito sulle labbra, e lo aveva baciato. 

Fu l’inizio di una bellissima storia d’amore, in cui le diversità non erano motivo di litigio ma la base stessa del rapporto.  

Veronica lo definiva un finto cinico, dal cuore grande e la battuta sempre pronta: tutti lo chiamavano Lipo, mentre per lei era “Amore”, e all’occorrenza sfoderava tutta una serie di nomignoli per metterlo in imbarazzo davanti agli amici, ma sapeva che sotto sotto gli piaceva.  

Andrea aveva vissuto un’infanzia dura, in una famiglia mediamente abbiente ma infelice: il tradimento del padre, quando Andrea aveva soltanto sette anni, aveva portato a un inevitabile divorzio. 

Sua madre era riuscita a ottenere la custodia del figlio e gli alimenti pagati dal padre erano sufficienti per vivere quasi come prima, ma appena fu capace di capire il suo gesto, Andrea iniziò a sviluppare un odio intenso per il genitore, talmente forte che a distanza di anni il loro rapporto non si era ricucito. 

Già da piccolo aveva capito quanto la vita sapesse essere cattiva e quanto a volte servisse essere altrettanto “cattivi” per evitare di farsi abbattere. 

Queste esperienze lo avevano temprato, ma Andrea era riuscito a trasformare la rabbia repressa in energia positiva, diventando una persona un po’ solitaria ma dotata di un’insospettabile dolcezza, che mascherava i segni del passato con un pungente senso dell’umorismo. La sua estrema forza mentale e il saper reagire a ogni difficoltà col sorriso erano due delle cose che Veronica, vissuta in un contesto totalmente diverso, amava di più di lui. 

A differenza del futuro marito, Veronica era cresciuta in una famiglia molto felice, circondata dall’amore dei genitori, che l’avevano resa fin da piccola una persona molto socievole. 

Mentre Andrea aveva avuto problemi nel farsi degli amici da bambino, a causa del suo carattere scontroso e schivo, lei era sempre stata la più popolare di tutte le scuole che aveva frequentato, piena di amiche e di voglia di vivere. 

La morte improvvisa del nonno, un dolore cui non era preparata, l’aveva un po’ cambiata, rendendola più ansiosa e apprensiva; quello stesso anno, però, aveva conosciuto Lipo. 

Andrea era l’uomo perfetto per lei per mille motivi: capiva le sue paure, ma sapeva far ridere il suo cuore, facendola sentire amata, speciale e al sicuro. 

Allo stesso modo, Veronica era la donna per lui per altrettanti motivi: con la sua dolcezza e il suo calore sapeva dargli l’amore che non aveva mai ricevuto e ogni volta che la guardava per Andrea era sempre come la prima, non finiva mai di stupirsi di averla nella sua vita e di sentirsi così sereno. 

Certo, non erano anime gemelle: lei amante dell’arte e dei musei, lui s’interessava soltanto di un quadro, la Gioconda, ed esclusivamente perché la voleva di nuovo in Italia; lei interista, lui milanista; lei ordinatissima, lui mai troppo attento al dettaglio; lei ritardataria cronica, lui sempre puntualissimo a ogni appuntamento. 

Erano opposti ma indispensabili l’uno per l’altro. 

Pochi giorni dopo il matrimonio, la coppia aveva ricevuto la più bella notizia che due novelli sposi potessero desiderare: Veronica era incinta. 

La gioia li aveva investiti in pieno e Veronica si era più volte trovata a pensare a quanto fosse felice e soddisfatta della sua vita: stava per avere un figlio dall’uomo che amava e il suo lavoro di avvocatessa procedeva splendidamente, con alcune cause che di recente avevano dato grande visibilità al suo studio e le avevano portato un aumento di stipendio. Suo marito, che da quando stavano assieme non aveva vinto nemmeno una delle loro discussioni, le aveva detto che era talmente brava che sarebbe riuscita a scagionare perfino Totò Riina dall’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso o Pablo Escobar da quella di spaccio e detenzione di sostanze stupefacenti.  

La vita era talmente leggera che a Veronica pareva un sogno.  

Fino a una settimana prima.  

Era entrata in casa e l’aveva trovato a terra, la bocca contratta in una smorfia grottesca e le braccia stese lungo il corpo, come se fosse sorpreso; sul petto, una macchia di sangue indicava il punto in cui gli era stato inferto il colpo mortale.  

E poi gli occhi. Quegli occhi di cui lei si era innamorata, che non avrebbe mai smesso di guardare, che le davano tutta la sicurezza che le serviva per affrontare la vita, quegli occhi non erano più gli stessi: innaturalmente spalancati, spaventosi e tremendi, come se non avessero più nulla di umano. 

Le urla di Veronica avevano squarciato la tranquillità del condominio, in uno straziante misto di incredulità e terrore.  

La signora Taschierra, la vicina, era entrata appena in tempo per riuscire a impedirle di distruggere l’intero appartamento. L’aveva portata a casa sua e da lì aveva chiamato la polizia, mentre Veronica sedeva sul divano, in stato di shock.  

Aveva risposto in maniera automatica alle domande degli agenti, fissando un punto del muro, e quando il corpo del marito era stato portato via, si era seduta in un angolo della cucina e da lì non si era più mossa per ore. 

E adesso, mentre piangeva rompendo il silenzio del cimitero, si chiedeva come sarebbe riuscita ad andare avanti senza di lui, l’unico amore di tutta la sua vita. 

Tra le persone della piccola folla, invece, serpeggiavano rabbia e risentimento e qualcuno già guardava gli altri con sospetto. Le indagini della polizia avevano confermato che l’uomo non aveva nemici e la porta non era stata forzata: dunque, qualcuno che conosceva e di cui, forse, si fidava l’aveva ucciso.  

A parte ciò, però, nessun indizio, né sul colpevole né sul movente.  

Il corteo funebre arrivò in uno spiazzo; qui, i quattro uomini appoggiarono la bara nel punto segnalato dalla lapide, sulla quale erano incisi una frase e il nome del defunto: Non lasciare mai che la paura soffochi la gioia della vita. Andrea Lipora. 26.03.1999 – 03.11.2029. 

Il sacerdote disse qualche parola, poi un uomo avanzò tra la folla. Si avvicinò al prete, che, senza proferire verbo, gli passò il microfono.  

Aldo Mantovani, per tutti Manto, aveva un viso fiero, incorniciato da una folta barba e da una chioma di un castano quasi nero: i capelli sembravano finti per quanto erano ordinati. 

Il suo sguardo studiava il manipolo di persone, come se cercasse qualcosa di buono in tutta quella disperazione. Con un riflesso automatico, i suoi occhi andarono a cercare quelli di Asia, la sua compagna: negli anni aveva conosciuto bene Lipo e Veronica, aveva giurato di essere presente per loro ed era lì per sostenere il suo uomo in uno dei momenti più tristi della sua vita. 

Dopo un mezzo sorriso alla donna che amava, Manto si sentì finalmente pronto per parlare. 

Strinse il microfono nella mano destra, prese un lungo respiro e si schiarì la voce. «Una volta… Una volta, Lipo mi ha detto una frase che suonava più o meno così: “Manto, sai qual è la cosa più bella della vita?”. E io gli ho risposto che no, non lo sapevo. E lui sapete che mi ha detto? “La cosa più bella della vita è la serenità, quella serenità che provi mentre scherzi con un amico o mentre baci tua moglie.”» Si fermò e guardò Veronica, la ragazza ricambiò con un fugace sorriso. «Questa è la cosa più bella della vita» riprese Manto. «Poi, senza darmi neanche il tempo di dire qualcosa, ha aggiunto: “Ovviamente, dopo una maratona di serie TV e una cassa di birra, ma che te lo dico a fare, no?”.» Una leggera risata si sollevò dal gruppo; Manto aspettò che finisse e continuò: «Lipo… Lipo era un uomo leale e divertente, un amico sincero che avrebbe fatto di tutto per le persone che amava. Lipo credeva nella bellezza della vita. E lo dimostrava ogni giorno regalando un sorriso a chiunque incontrasse. Se lui fosse qui, oggi, cercherebbe a ogni costo di tirarci su il morale e sono sicuro che ci riuscirebbe pure! Ci vorrebbe sorridenti a ricordarlo e vorrebbe che la sua allegria, il suo ottimismo, la sua onestà e la sua gioia di vivere diventassero nostri, per onorare la sua memoria… Lipo…» Dovette fermarsi per deglutire. «Lipo era uno degli uomini migliori che abbia mai conosciuto. Grazie.» 

Uno scroscio di applausi accompagnò la fine dell’elogio funebre di Manto, il migliore amico di Lipo dai tempi del liceo. Tante erano le cose che avrebbe voluto dire ma un grumo di dolore gli si era bloccato in gola e si era sciolto in lacrime.  

Altri si avvicinarono alla lapide e tennero dei brevi discorsi, lodando le innumerevoli qualità di quell’uomo e rattristandosi per la sua così prematura dipartita. 

Il suo capoufficio, Marco Campoalto, direttore del Corriere della Sera, giornale per cui lavorava da circa un anno, lo descrisse come «uno dei migliori giornalisti che abbia mai avuto: geniale e dallo stile unico, sempre entusiasta e mai stanco di scrivere nuovi pezzi» e Giacomo, boxeur tra i più noti al mondo e uno dei suoi amici di lunga data, decantò la sua lealtà e il suo senso dell’umorismo definendolo «l’uomo più divertente che abbia mai conosciuto, però sapeva affrontare al meglio anche i momenti più seri e uscirne con stile». 

Così, al termine di una cerimonia durata quasi un’ora, i presenti iniziarono a scemare, mentre il silenzio si riappropriava del luogo.  

Manto era quasi fuori dall’enorme cancello che separava il camposanto dal mondo dei vivi, la mano stretta in quella di Asia, quando il suo cellulare squillò.  

 

Dall’altra parte del cimitero, a circa un centinaio di metri da dove si era appena tenuto il funerale, un uomo sedeva sopra una panchina di legno dalle gambe un po’ traballanti.  

Era alto e particolarmente magro, tanto da ricordare una specie di buffo lampione.  

Indossava un completo nero e dei pesanti occhiali da sole; i suoi capelli, di un rosso acceso, e la bottiglia di birra che teneva in mano gli conferivano un’aria strana, di un qualcosa che è fuori posto, come un libro nella credenza delle pentole.  

Di fianco a lui, appoggiato sulla panchina, c’era un giornale stropicciato, vecchio di almeno una settimana.  

Sorrideva. In effetti, aveva sorriso per tutta la durata della cerimonia e in alcuni momenti aveva persino riso di gusto, come se stesse assistendo a uno spettacolo di cabaret di medio livello. 

La cosa che lo divertiva tanto era l’aver appena assistito al proprio funerale: quell’uomo era Andrea Lipora.  

Appena finita la cerimonia, Lipo prese con sé il giornale, bevve l’ultimo sorso di birra – rigorosamente la sua Franziskaner – e si alzò. Percorse qualche metro, facendo gracchiare la ghiaia sotto i suoi piedi, e lanciò la bottiglia ormai vuota verso il bidone più vicino: canestro da tre punti.  

Si rammaricò che nessuno avesse visto la sua performance jordanesca. 

Dopodiché, Lipo frugò nella tasca del suo elegantissimo completo ed estrasse il cellulare.  

Era pieno di notifiche: dopo che la notizia della sua dipartita si era sparsa in giro, il suo numero di follower su Instagram era quasi raddoppiato. Morire rende popolari, un classico. 

Sfogliò la rubrica fino alla lettera M e sorrise soddisfatto una volta trovato il numero che stava cercando. Schiacciò l’icona e la chiamata partì. 

Dall’altra parte del cimitero, la voce di Billie Joe Armstrong avvisò Manto dell’arrivo della chiamata. «Do you know what’s worth fighting for?»  

«Scusa, amore, sarà l’ospedale…» disse ad Asia, allontanandosi di qualche metro. 

Guardò lo schermo: sul display lampeggiava la scritta Numero sconosciuto. Non era l’ospedale.  

«Pronto?» rispose, seccato. 

«Non dire una parola» ordinò Lipo. 

Manto riconobbe la voce e per poco non ebbe un mancamento. 

«M-ma che c-cazzo?» balbettò. Era sconvolto, non poteva essere vero, se lo stava immaginando.  

Allontanò il telefono dall’orecchio e guardò lo schermo. Non è possibile, si disse.  

«Invece di balbettare, vieni all’ingresso ovest, e di corsa» gli intimò Lipo, chiudendo la chiamata. 

Manto rimase lì, con il telefono in mano, immobilizzato dall’orrore. Aveva parlato con un morto? Aveva pianto per lui, aveva consolato sua moglie, lo aveva ricordato giusto la sera prima al bar, dedicandogli una birra con alcuni vecchi amici. Aveva appena letto il suo cazzo di elogio funebre.  

No, non poteva essere, si era immaginato tutto.  

Gli arrivò un messaggio: Non ti stai immaginando nulla, è successo davvero. Ingresso ovest. Vieni e ti spiegherò tutto 

«Porco…» gli sfuggì. Un’illusione non ti scrive un messaggio per confermarti di esserci. 

Raggiunse Asia, che, guardandolo, lo vide preoccupato. «Va tutto bene, amore?»  

Manto dovette mentirle: «Sì, sì… tutto a posto. Era l’ospedale, hanno bisogno di me per un intervento». 

«Te la senti di andare? Sanno cosa è successo a Lipo?»  

Direi proprio che non lo sa nessuno, pensò Manto. 

«Sì, certo, amore, tranquilla. E lavorare mi aiuterà sicuramente a non pensarci…» Manto si guardò intorno e si grattò la nuca. «Va’ pure a casa: è probabile che stia via tutta la notte, ti scrivo un messaggio appena finito.» 

Asia non sembrò molto convinta della sua risposta, ma sospirò e disse: «Come vuoi. A dopo» concluse, dandogli un bacio. Si avviò verso l’uscita e in pochi istanti scomparve. 

Manto la guardò andar via e si rese conto di essere come paralizzato. Dopo alcuni secondi, durante i quali la sua mente fu preda della più totale confusione, individuò un cartello che indicava l’entrata occidentale del cimitero.  

Controllò i paraggi: era solo.  

Udì le sirene di un’ambulanza e per un attimo pensò di chiamare l’ospedale per farsi ricoverare.  

Scosse il capo e s’incamminò verso il punto segnalato dal cartello.  

Arrivò lì in cinque minuti, che però gli sembrarono una settimana. Alla sua destra, scorse una donna di mezza età che stava lasciando dei fiori sulla tomba di un uomo e la osservò per qualche istante. Quando distolse lo sguardo, ciò che vide lo fece quasi cadere a terra. Lipo era lì, in tutto il suo metro e novanta, lo guardava e sorrideva. 

«Ciao, fratello» disse. 

«T-t-tu…» iniziò Manto, ma si rese conto di non sapere assolutamente come continuare. 

«Sì, sono vivo» gli venne in soccorso Lipo. «Era questo che volevi dire, no? Bel discorso prima, davvero commovente.» 

Manto sentiva che le sue gambe stavano per cedere e dovette appoggiarsi al muro che delimitava il cimitero.  

«Capisco che tu sia scioccato, amico mio, lo sarei anch’io. Ma posso spiegarti tutto» riprese Lipo, con un tono che sembrava quello di uno che ha bevuto per sbaglio dal tuo bicchiere. 

Forse fu quell’eufemismo – “scioccato” – o proprio quel tono, fatto sta che Manto esplose in una rabbia cieca e incontrollabile: «Figlio di puttana!» gridò, lanciandoglisi addosso e prendendolo per il bavero della giacca. Si fermò con un pugno a mezz’aria, pronto a mandarcelo lui, nella fossa.  

Dal volto di Lipo il sorriso scomparve: in tanti anni di amicizia non aveva mai visto Manto così furioso; a pensarci bene, non l’aveva proprio mai visto arrabbiato.  

«Fidati di me, se avessi potuto, non lo avrei mai fatto. Mi sento davvero uno schifo al pensiero di aver fatto del male a tutti voi. Ma sono stato costretto, non ho avuto scelta» si giustificò Lipo, sperando che l’amico lo lasciasse andare.  

«In che senso? Cosa significa? Chi è che costringe qualcuno a fingersi morto?» Finalmente si calmò e lasciò la presa dalla giacca dell’amico. 

Lipo non rispose subito; lo osservò, sconsolato, e il suo volto divenne ancora più serio e concentrato: «Non posso dirtelo. Almeno, non ora» sussurrò. 

Manto strabuzzò gli occhi e lo guardò stranito, come se non lo avesse mai visto prima: «Non puoi?».  

«Se te lo dicessi, lo farei arrabbiare e ti assicuro che io non voglio farlo arrabbiare; ecco, a dire la verità lavoro per lui.» Lipo fece una pausa, pensando che il suo amico volesse ribattere.  

Ma Manto taceva.  

«Ma la nostra intenzione, mia e del mio datore di lavoro, è di dirti tutto…» 

Manto lo interruppe: «Lipo, ma in che cazzo di situazione di merda ti sei cacciato? Sei un giornalista, quale giornalista deve fingersi morto?». 

«No, io… non più.» Lipo si soffermò sulle proprie scarpe, cercando le parole giuste per continuare il discorso. «Vedi, non è stata una mia scelta lavorare per lui, è capitato per caso, e ora… eccoci qua!» concluse, allargando le braccia. 

Manto fece per parlare, ma Lipo lo interruppe: «Voglio mostrarti una cosa».  

Detto questo, prese il giornale, lo aprì e lo sfogliò, alla ricerca di una pagina in particolare. Dopo una decina di secondi si fermò, esclamando soddisfatto: «Eccolo!». Chiuse il giornale e lo porse a Manto dicendo: «Guarda l’articolo a pagina trentasette, credo che lo troverai interessante».  

Manto allungò il braccio e prese il giornale. Era una copia del New York Times; in alto, a destra, una piccola scritta in grassetto indicava la data del 6 novembre 2029, quattro giorni prima.  

«Cosa ci fai con una copia del New York Times?» domandò Manto. 

«Vai a pagina trentasette e capirai» rispose Lipo.  

A pagina trentasette, un articolo occupava mezza pagina: Journalist killed: a mystery from Italy. Il pezzo parlava di un giornalista italiano ucciso nel suo appartamento nel centro di Milano, delle inutili indagini effettuate dalla polizia e della disperazione dei parenti e della moglie. 

«Ma… è il tuo omicidio!» esclamò Manto. «Ne hanno parlato anche negli Stati Uniti?» 

«Sì,» confermò Lipo «se continui a leggere, vedrai che hanno scritto che il principale sospettato è un newyorchese che vive a Milano, un certo Barney Bones.» 

Manto arrivò a quel nome: erano giorni che leggeva i giornali e chiedeva informazioni alla polizia eppure non ne aveva mai sentito parlare. «Ma sui nostri giornali non è mai venuta fuori questa cosa!» protestò. 

«Non è mai venuta fuori perché si tratta di una clamorosa cazzata: quel tizio, Barney Bones, neanche esiste» rivelò Lipo. «Ma questo non ti deve interessare, non ora. Quello che ti deve interessare, adesso, è il nome del giornalista che ha scritto l’articolo.» 

«Dan Palerraio» lesse. «E chi cazzo è?» Manto era sempre più confuso, tutto quel mistero lo stava facendo innervosire: niente di quanto gli aveva detto Lipo aveva il minimo senso, nemmeno il fatto che fosse ancora in vita.  

«Anagramma il nome, non ti ricorda qualcosa?» 

Manto ci pensò per circa un minuto, durante il quale Lipo tirò fuori il cellulare e fece una telefonata, e poi lo colpì l’illuminazione: «Sei tu!». 

«Complimenti, non sei scemo come sembri!» scherzò Lipo, sorridendo.  

«Perché tutto questo?» chiese Manto.  

«Diciamo che il mio capo ha un certo senso dell’umorismo e un’alta propensione al rischio» notò Lipo.  

«Lipo… tu sei matto… no, anzi, io sono matto, tu sei morto…» Manto si prese la testa tra le mani e iniziò a respirare profondamente.  

Lipo gli appoggiò una mano sulla spalla. «Mi dispiace, amico, saprai tutto a tempo debito. Ora devo chiederti di fare una cosa…» Detto questo, frugò nella tasca sinistra della giacca e ne estrasse una fialetta di circa cinque centimetri di lunghezza, con all’interno un liquido rossastro.  

«Cos’è quella roba?» domandò Manto, indicando la fialetta. 

«Questo? Questo è un potente sonnifero, inventato in Venezuela da un amico del mio capo, un’eccellenza del settore. Lo prendi e dopo due secondi dormi come un neonato» rispose Lipo. «Ed è proprio questo che ti chiedo di fare: bevilo, e quando ti risveglierai, io e il mio capo ti spiegheremo tutto.» 

Manto lo guardò, spaventato. Era giunto il momento di scegliere: fidarsi o no? 

Fino a dieci giorni prima, non avrebbe avuto dubbi: Lipo era il suo migliore amico, un fratello, ed era la persona più onesta che avesse mai conosciuto e da sedici anni la loro amicizia non aveva mai avuto falle. A parte quella storia di Paola, pensò per un secondo. Ma ora non sapeva proprio che fare, non era nemmeno certo di non stare sognando: si sa che la mente umana vive sempre un periodo di non completa lucidità durante l’elaborazione di un lutto come il suo.  

Stress post-traumatico, lo aveva letto da qualche parte. Così, prima di rispondere, si pizzicò il braccio. «Ahia!» Purtroppo, non era un sogno. 

Lipo scoppiò a ridere: «Hai davvero fatto quello che ho appena visto?». 

«Come puoi darmi torto?» esclamò Manto, con una punta d’ansia nella voce. «Ti ricordo che fino a poco fa eri morto!» 

«Sì, ma ora sono qui, ti sto parlando e per dimostrarti che non sono un sogno…» Lipo lasciò la frase incompleta e gli tirò uno schiaffo in faccia. 

«Oh! Non c’erano altri modi per dimostrarmi che sei reale?» chiese Manto, toccandosi la guancia dolorante con la mano destra. 

«Sì» rispose Lipo, sorridendo. «Ma questo è senza dubbio il più divertente. Allora, ora che ti ho dimostrato di essere vero, lo vuoi prendere questo sonnifero?»  

Manto lo guardò. Era ancora indeciso.  

Una parte di lui, quella più razionale, gli diceva di rifiutare, telefonare a Veronica o, ancora meglio, a un bravo dottore. Ma l’altra parte, quella in preda alla curiosità e alla voglia di sapere la verità, spingeva la sua mano verso la piccola fiala.  

«Ma dove mi porteresti di preciso?» domandò, senza essere sicuro di voler conoscere la risposta. 

«Questo te lo posso dire. Ti porto alla sede centrale e segretissima dell’agenzia per cui lavoro, in cui conoscerai il mio capo e scoprirai tutto quello che vuoi sapere» rispose Lipo. «Nella telefonata che ho fatto poco fa, ho detto al nostro autista, Gaetano – lo conoscerai, è un personaggio – di venirci a prendere e…» Il potente rombo di un suv si udì in lontananza. «Dovrebbe essere arrivato; eccolo, è là!» disse Lipo, alzando un po’ la voce. 

Guardando attraverso il cancello aperto dell’ingresso ovest, Manto vide un macchinone nero, coi vetri oscurati, a circa venti metri da loro. Dopo alcuni secondi, dal macchinone scese un uomo non troppo alto, coi capelli chiari e la barba folta. 

Era vestito anche lui di tutto punto, ma la grande sobrietà del suo look era rovinata da una cravatta di tutti i colori dell’arcobaleno e la scritta Napoli in azzurro. 

«Uè uagliò, ci ramm’ na mossa?» urlò Gaetano, con un forte accento napoletano. 

«Uè Gaetà, un attimo e arrivo!» rispose Lipo.  

Lipo guardò Manto negli occhi: «Allora, andiamo?».  

Manto osservò la fialetta: quello che stava per fare era semplicemente folle. 

Gaetano, dall’auto, urlò ancora: «Che sfaccim’ oh?». 

«Andiamo!» disse Manto, con una convinzione che in realtà non provava. 

«Così mi piaci!» esultò Lipo e, rivolgendosi a Gaetano, gridò: «Arriviamo Gaetà, tranquillo!».  

Si incamminarono verso l’uscita a passo sostenuto: mentre avanzava spostando la ghiaia sotto i suoi piedi, Manto ripensò ancora a quello che stava apprestandosi a fare senza trovarvi un senso. 

Una volta arrivati all’auto, fu Lipo a rompere il silenzio: «Bella cravatta, Gaetà».  

«O sapev ca’ te piaceva» rispose Gaetano, con un cenno d’intesa.  

«Bene, credo sia giunto il momento delle presentazioni…» riprese allegramente Lipo. «Gaetano, ti presento Aldo, che già conosci come signor Mantovani; Manto, questo è Gaetano, il nostro autista.» 

Ci conosciamo? si chiese Manto. Non aveva mai visto quell’uomo in vita sua.  

«Cchiu’ che n’autist, chist fa tutt’ cos! U’ cuoc, o’ sart, l’informatic, o’ mierec e tanto altro!» disse Gaetano, stringendo vigorosamente la mano di Manto. Il quale ricambiò, quasi con pari entusiasmo: «Piacere di conoscerti, Gaetano!». Quel tipo gli piaceva. 

«Allora guagliò? Jamm? Ja che o’ viagg nun è curt!»  

«Andiamo, andiamo» confermò Lipo, aprendo la porta del suv e lasciando salire Manto. Entrato nell’auto, l’uomo restò a bocca aperta: al posto dei classici sedili, c’erano due poltrone rosse, disposte sui lati; in mezzo, un tavolo di vetro con stuzzichini e bevande, per la maggior parte alcoliche.  

Davanti a loro, collocata dietro il posto del guidatore, una TV di ultimissima generazione e a fianco, riposti in una libreria appoggiata e tenuta ferma da due sostegni, una collezione di DVD e CD di qualsiasi genere di musica, dal rock al rap. 

Dietro di loro, a completare l’arredamento, un impianto stereo Sony con sopra un paio di mazzi di carte napoletane, chiusi nelle loro scatolette. 

«Bellina, eh?» chiese Lipo. 

Quando finalmente riuscì a trovare le parole, Manto esclamò: «Bellina? Solo bellina?! È una meraviglia! Come hai fatto a farci stare tutta ’sta roba?». 

«Ah, non chiederlo a me,» rispose Lipo «è tutta opera del capo.» 

Manto non ribatté, era troppo impegnato a guardare verso un punto vicino alla spalla destra dell’amico: lì stava un piccolo cofanetto, con una leggera crepa sulla facciata e, raffigurato in copertina, il sorriso malinconico di Bob Marley. «Ma… ma quello è…» balbettò, prendendo in mano Legend. «Dove l’hai trovato? Lo avevo perso. Sei, sette anni fa, credo…» 

«Otto, amico mio. Era il Capodanno 2021, lo abbiamo ascoltato a inizio serata e la mattina dopo non c’era più. Quando il capo me l’ha dato e mi ha detto di portarlo, ero più sorpreso di te» disse Lipo, stringendosi nelle spalle. 

«Te lo ha dato lui?»  

«Eh, sì. E mica solo quello… guarda dietro di te.» 

Manto si girò e sulla copertina di un DVD riconobbe i volti di John Belushi e Dan Aykroyd. Sgranò gli occhi. «No, no, non è possibile, non ci credo…» 

«Oh, invece credici, amico mio! È proprio il nostro film preferito!» esclamò Lipo, tutto allegro. 

«È introvabile…» sussurrò Manto, avvicinando una mano per prenderlo.  

«Potremmo guardarlo durante il viaggio» propose Lipo. 

«Magari!» esplose Manto, senza nemmeno chiedersi di che viaggio si trattasse e verso dove.  

Lipo puntò lo sguardo verso lo stereo e pronunciò più forte e chiaro che poté: «Apertura vano disco».  

«Ah, che bella la tecnologia!» esclamò Manto. 

Lipo inserì il DVD. «Chiusura vano disco.» Ma il vano rimase lì dov’era. «Chiusura vano disco!» ripeté Lipo, ma non successe niente.  

«Non so te, ma io preferisco il caro vecchio telecomando» disse Manto. Prese il telecomando, schiacciò il tasto close e un rumore meccanico annunciò la chiusura del vano. 

«Ma guarda ’sto stronzo di uno stereo!» si lamentò Lipo. 

«Zitto! Ché qua inizia» lo ammonì l’amico. 

«Tropp brav, chillo dduje guaglioni!» esclamò Gaetano dal posto di guida, mettendo fine al suo lungo silenzio; i due amici si erano quasi dimenticati della sua presenza. 

«Lo hai visto anche tu?» chiese Manto. 

«Oooh!» esclamò Gaetano, ridendo. «O’ cumpagn tuoje m’ha scassat o’ cazz ppe mis e tenev ragion, l’agg rivist tre vote!» 

«È diventato talmente fan» aggiunse Lipo «che adesso va in giro per l’ufficio recitando le battute del film!» 

«Stav pensand ’e da’ via a’ macchin ppe nu’ microfon, guagliò» disse Gaetano, citando Elwood e facendo ridere di gusto i suoi passeggeri. 

Quando la risata si spense, l’autista made in Napoli riprese: «Sì, però, guagliò, partimm o no acca’?». La frase dell’autista riportò i due uomini alla realtà: Lipo aveva una missione da svolgere e Manto ne era il centro. Prese il telecomando e mise in pausa il film. 

«Nooo…» brontolarono in coro Manto e Gaetano.  

«Sì,» disse Lipo a Gaetano «metti in moto.»  

Il rombo dell’auto fu potentissimo. 

«Senti come canta!» esclamò Manto, entusiasta.  

«Eh, guagliò, ’sto macchinone è ’na bestia» confermò Gaetano. «Quattrocient cavall. Pur cavall ’e razz eh, belli nutriti, l’hanno dato a’ pastier!» 

Manto rise di gusto ma si accorse presto dell’espressione seria di Lipo. «Ehi, tutto bene?» 

Lipo lo guardò, sorpreso, come sempre, dalla sua straordinaria gentilezza. «Sì, tutto bene, è solo che…» Mentre parlava, estrasse la fialetta contenente il sonnifero dalla tasca dello smoking: «È arrivato il momento». 

Manto osservò la fialetta; senza pensarci, la prese e fece per scolarsela tutta in un sorso.  

Il riflesso del braccio di Lipo fu provvidenziale: lo fermò quando ormai la superficie vetrosa aveva già sfiorato le labbra dell’amico. «Non farlo!» lo ammonì Lipo. «Prima di prenderlo dovresti sapere quanto sono potenti queste quattro gocce di sonnifero.» 

«E quanto sarebbero potenti?» chiese Manto. 

«Be’,» disse Lipo, con un sorriso sornione «se lo avessi bevuto tutto, ti saresti risvegliato tra circa tre, quattro mesi, mese più, mese meno.» 

«Cosa?! Stai scherzando, vero? Guarda che non è divertente!»  

«Te l’ho detto che è potentissimo» esclamò Lipo, allargando le braccia. 

«Ma, Lipo…» sussurrò Manto, con una punta di apprensione.  «Chi… Per chi lavori? In cosa sei finito?» 

«Manto, amico mio,» sospirò Lipo, mettendogli una mano sulla spalla «se berrai la dose giusta, tra qualche ora lo saprai.» 

Detto ciò, prese dal tavolo un bicchierino da shot. «Fidati di me, ti conviene allungarlo con dell’alcol: non ha un gusto proprio piacevole» gli consigliò Lipo. «Cosa preferisci? C’è di tutto qui.» 

«Ho visto» constatò Manto. «Siete proprio ben forniti.» Sul tavolino c’era una vasta gamma di superalcolici: Belvedere, Zacapa, Talisker… e molti altri ancora. 

Per Manto e Lipo, che avevano condiviso un cospicuo numero di sbronze, quello era una specie di paradiso in terra. «Talisker» scelse Manto, senza troppe esitazioni. 

Lipo versò il liquido nel bicchierino e poi vi lasciò cadere una goccia di sonnifero. 

Manto fece un respiro, prese lo shot e lo buttò giù in un sorso.  

Lipo schiacciò play e la voce di Jack Blues riempì il suv; dopodiché, afferrò un bicchierino e si versò uno shot di Belvedere. «Salute!»  

«Salute» rispose Manto, iniziando a sbadigliare e stiracchiandosi sul sedile. 

«Sogni d’oro, amico mio…» Si versò un altro bicchiere, questa volta di tequila, e si rilassò sulla poltroncina a guardare il suo film. «Spingi sull’acceleratore, Gaetà. Il capo ci aspetta.» 

 

07 luglio 2020

Aggiornamento

T.I.M.E. aumenta! Dopo il raggiungimento del goal delle 200 copie, ci saranno 30 giorni extra per comprare il libro qui su bookabook, la nuova scadenza è il 2 settembre.
P.S. Domani sera, 8 luglio, alle 20.35 circa, sarò on air su Radio Cernusco Stereo per parlare del libro!
04 maggio 2020

Aggiornamento

L'articolo pubblicato da Secondamano.it (a cui offrirò una bottiglia di vino come ringraziamento) sul libro:
https://www.secondamanoitalia.it/atmosfere-fantasy-e-unepidemia-misteriosa-nel-libro-del-giovane-emilio-pirola-che-sogna-di-diventare-scrittore/

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Ho letto la bozza di questo libro e mi ha fatto pensare a come sia possibile diventare “un cattivo”. In questo caso entriamo nella mente di un uomo superdotato che non si sente a suo agio in mezzo ai “normali”. La diversità può a volte creare dei mostri a cui noi inconsapevolmente alimentiamo la rabbia lasciandoli in disparte. Il cattivo della storia arriva ad odiare gli altri, rimanendo quasi privo di sentimenti ed emozioni. Un po’ come Joker

  2. (proprietario verificato)

    Dopo aver letto che l’autore si augurava che i lettori provassero il desiderio di restare incollati alle pagine per scoprire il finale della storia, mi sono incuriosito e ho comprato T.I.M.E. e devo dire che è vero, la storia è brillante e si legge volentieri per sapere non tanto se, ma come i 2 riusciranno a fermare il pazzo che vuole scatenare l’epidemia. Eventi a volte banali possono impedire che accadano fatti gravi ed impensabili

  3. (proprietario verificato)

    Mi è piaciuto molto il modo con cui l’autore descrive le varie situazioni, con citazioni immagino corrispondenti ai suoi reali gusti nella realtà. Amo Star Trek e il pensiero che la storia si possa correggere viaggiando nel tempo mi ha sempre affascinato e quindi mi sono ritrovato a mio agio in questa storia. I due protagonisti mi hanno ricordato i 2 “Men in black” i bravissimi Will Smith e Tommy Lee Jones

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Emilio Pirola
nato a Cernusco sul Naviglio nel 1999 e cresciuto a Carugate, ha sviluppato una doppia anima provincial-cittadina grazie agli anni di studio a Milano, prima al liceo e poi all’Università Statale, di cui ancora frequenta la facoltà di Lingue e Letterature straniere. Si ritiene un (finto) cinico dalla battuta sempre pronta, che trova nella scrittura un’amica fedele e affascinante, un intenso connubio di piacevoli fatiche. T.I.M.E. è il suo romanzo d’esordio.
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