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Un’impronta leggera.
Guida pratica per ridurre il proprio impatto ambientale

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Ogni nostro gesto ha delle conseguenze. Chi non se lo è sentito dire almeno una volta? E quante volte abbiamo sbuffato al solo sentire questa affermazione? Oggi però non è più possibile farlo, non quando i nostri gesti si riflettono direttamente sull’ambiente, un ambiente maltrattato o, nel migliore dei casi, trascurato. È quindi ora di prendere consapevolezza di quali siano gli effetti delle nostre scelte, sapendo che, anche se è impossibile non lasciare traccia del nostro passaggio su questa Terra, è possibile fare in modo che la nostra impronta sia leggera. Se un nostro gesto, probabilmente, non cambierà il mondo domattina, la sommatoria di tutti i nostri gesti consapevoli potrà avere, invece, un impatto positivo. 

Un’impronta leggera è una vera e propria guida pratica che, stanza per stanza, offre spunti e suggerimenti per modificare le nostre abitudini nella maniera più sostenibile possibile, facendo del bene al Pianeta e anche a noi stessi. 

Capitolo 1.
Climate Clock 

Poco meno di sette anni: sembra che questo sia il tempo che abbiamo a disposizione per agire. Allo scoccare di questo count-down il cambiamento climatico diventerà irreversibile e sarà troppo tardi per qualsiasi azione volta a salvare il Pianeta e la vita su di esso.

A ricordarlo all’umanità intera è il Climate Clock, l’enorme orologio digitale appeso nell’autunno 2020 a New York, in Union Square a Manhattan, di cui oggi esiste una replica anche a Roma (il quarto al mondo): secondo dopo secondo, scandisce il tempo che ci separa dall’irreversibilità degli effetti della crisi climatica e ci ricorda quanto sia impellente una presa di coscienza collettiva e globale, a cui ci si auspica seguano delle azioni concrete. 

Se dovessimo addentrarci in questa sede in questioni legate ai cambiamenti climatici, le loro cause e le possibili soluzioni, il risultato sarebbe un’enciclopedia. Ci basti ricordare che il riscaldamento globale e i cambiamenti climatici che ne conseguono sono causati principalmente da un’irresponsabile attività antropica, così come sottolineato anche nell’Accordo di Parigi e ribadito dagli ultimi report del Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC) delle Nazioni Unite: proprio per questo, è uno specifico dovere del genere umano rimediare ai danni provocati. Tra l’altro, è lo stesso genere umano, assieme alle altre specie che popolano il Pianeta, a essere la prima vittima dei danni causati da questi cambiamenti: eventi meteorologici estremi che provocano disastri ambientali, alluvioni, siccità e conseguenti migrazioni di intere popolazioni (“migranti climatici”) affamate da questi scompensi, desertificazioni, acidificazione degli oceani, che non sono più in grado di svolgere il loro lavoro in maniera adeguata, etc. 

Abbiamo leso profondamente la Terra tramite le nostre azioni, dalle deforestazioni volte a far spazio ad allevamenti intensivi e conseguente aumento di produzione di gas serra, alla dispersione di rifiuti inquinanti sul suolo e nelle acque (e non solo): adesso siamo noi stessi a subirne le conseguenze, che rischiano di diventare presto irreversibili. 

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Cambiamenti climatici 

Siamo quasi otto miliardi di persone a popolare questo Pianeta e questo numero, secondo le Nazioni Unite, è destinato ad aumentare fino a circa undici miliardi entro il 2100. La nostra presenza ha un impatto di cui la Terra stessa risente in maniera significativa. 

È qui doveroso ricordare che il concetto di “rifiuto” in natura non esiste: nel mondo naturale qualsiasi scarto trova collocazione a titolo di nuova risorsa, dalle feci alle carcasse degli animali, in un ciclo continuo di costante equilibrio. La specie umana, invece, si è evoluta (evoluta?) in maniera tale per cui ha completamente deviato da questo equilibrio perfetto: siamo l’unica specie sulla Terra a produrre rifiuti che non sono in grado di integrarsi in questo equilibrio ciclico. I rifiuti non biodegradabili prodotti dall’uomo, se dispersi nell’ambiente, ne intaccano la funzionalità e l’equilibrio, impattando sull’aria (tramite la produzione di gas serra derivanti dall’utilizzo di combustibili fossili), sulle acque e sul suolo. Ma anche quelli biodegradabili, se dispersi in ambienti che non corrispondono agli ecosistemi da cui traggono origine: in altre parole, un rifiuto biodegradabile non endemico dell’ambiente in cui è disperso può essere ugualmente dannoso. Siamo riusciti a contaminare il Pianeta e, in un karmico effetto domino, adesso ne paghiamo le dure conseguenze. 

L’inquinamento, ogni anno, provoca nel suo complesso nove milioni di morti premature a livello globale: tre volte di più di quelle provocate dalle malattie infettive. 

Sono sempre di più le realtà (locali, come comuni e università, ma anche intere nazioni come Inghilterra, Scozia e Irlanda) che dichiarano lo stato di emergenza climatica, attraverso la pubblicazione di un documento volto a riconoscere la gravità degli effetti dei cambiamenti climatici e si impegnano ufficialmente per ridurre, in relazione al proprio raggio d’azione e competenza, le emissioni di gas serra nel più breve tempo possibile (per esempio, raggiungere le emissioni zero entro il 2030). Le attività volte a perseguire questo fine assumono dunque priorità assoluta rispetto ad altre questioni. A livello territoriale, queste dichiarazioni sono volte a fare pressione politica sui governi affinché prendano coscienza della gravità dell’emergenza e si impegnino ad agire in maniera concreta e immediata. 

L’Accordo di Parigi 

Il fatto che i cambiamenti climatici in tutta la loro gravità siano da imputare all’azione umana, principalmente derivante dall’uso e consumo di combustibili fossili (in termini sia pubblici sia privati), è stato sancito in maniera insindacabile all’interno dell’Accordo di Parigi del 2015, sulla base di acquisizioni scientifiche che fanno riferimento all’aumento nell’atmosfera di CO2: questa, creando uno strato impenetrabile, mantiene il calore sulla superficie terrestre, provocando l’innalzamento della temperatura e tutto ciò che ne deriva. L’Accordo di Parigi esclude in maniera categorica la semplice accidentalità dei cambiamenti climatici emergente da eventi naturali, come invece sostenuto dai cosiddetti “negazionisti climatici” (in cima a tutti l’ex amministrazione statunitense Trump). Più recentemente, l’imputabilità dei cambiamenti climatici all’attività antropica è stata ribadita in maniera certa e insindacabile nell’ultimo rapporto dell’IPCC sopra menzionato.

In questo contesto, viene altresì dichiarato che è indispensabile mantenere l’innalzamento della temperatura globale entro 1,5 gradi centigradi per scongiurare cambiamenti climatici irreversibili e i conseguenti disastri che ne deriverebbero.

“I cambiamenti climatici sono preoccupazione comune dell’umanità”: così recita il preambolo dell’Accordo di Parigi. Tant’è che gli Stati firmatari, nell’assumere l’impegno della lotta ai cambiamenti climatici, hanno stabilito di fornire adeguato supporto ai Paesi in via di sviluppo affinché riescano anch’essi ad attuare politiche volte alla riduzione delle emissioni di CO2. In questo contesto la cooperazione internazionale gioca un ruolo chiave. 

L’agenda 2030

Nel settembre del 2015, 193 Paesi membri delle Nazioni Unite hanno elaborato un programma di azione per le persone, il Pianeta e la prosperità volto al perseguimento di uno sviluppo sostenibile a livello globale, sia da un punto di vista ambientale sia sociale ed economico: l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.

Questa strategia si articola in 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs), ciascuno dei quali comprende numerosi target per un totale di 169 traguardi, che dovranno essere raggiunti entro il 2030 al fine di garantire un futuro sostenibile per tutti. L’avvio di questo programma è datato gennaio 2016. Tutti questi obiettivi corrispondono ai Millenium Development Goals, che però nel 2015 non erano stati raggiunti.

Situazione attuale 

Lo stato dell’aria 

La nostra economia si affida in prevalenza allo sfruttamento di combustibili fossili, ovvero carbone, petrolio e gas naturale. Queste risorse, che si sviluppano in milioni di anni, sono ricche di una sostanza che si chiama carbonio. Nel processo di combustione, da cui l’uomo trae energia, viene rilasciata anidride carbonica (CO2) il carbonio presente in questi combustibili (C) si unisce all’ossigeno presente nell’aria nel rapporto di 1 a 2 (O2). In natura ogni elemento fa parte di un delicato equilibrio: l’anidride carbonica viene assorbita da foreste e oceani, che in cambio rilasciano ossigeno. Il problema è che le produzioni di CO2 oggi hanno raggiunto dei livelli tali per cui il Pianeta non è in grado di assorbirla, e quella in eccesso permane nell’atmosfera, creando un vero e proprio effetto serra: i raggi del sole entrano nell’atmosfera ma non riescono più a uscire per via della CO2 e degli altri gas serra (come, ad esempio, metano e ossido di azoto) che ne impediscono la dispersione. Questo provoca un aumento della temperatura terrestre con catastrofiche e purtroppo ormai note conseguenze sul clima (riscaldamento globale). 

Una valida alternativa all’utilizzo di combustibili fossili è attingere da fonti di energia rinnovabile, come quella idrica, eolica o solare: queste fonti non solo sono inesauribili, ma non contengono carbonio, dunque non immettono in atmosfera gas serra. 

Oltre all’utilizzo di combustibili fossili, altre cause di origine antropica contribuiscono all’aumento della presenza di gas serra nell’atmosfera: dall’abbattimento delle foreste (deforestazione), che sottrae al Pianeta alberi e importanti risorse per l’assorbimento di CO2, allo sviluppo esponenziale di allevamenti intensivi di bestiame da macello, una delle principali cause di immissione di metano nell’atmosfera. Infine, l’utilizzo di fertilizzanti azotati che producono emissioni di azoto.

Mitigare le emissioni di CO2 e ridurre l’immissione in atmosfera di gas nocivi come metano e azoto sono gli strumenti principali per mantenere l’aumento medio della temperatura globale entro 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali come obiettivo a lungo termine, così come previsto dall’Accordo di Parigi. 

Lo stato dell’acqua 

Gli oceani producono il 50% dell’ossigeno che respiriamo e sono in grado di assorbire il 25% della CO2 in eccesso presente in atmosfera, inoltre regolano il clima e sono fonte di sostentamento diretto per 4,3 miliardi di persone, metà della popolazione mondiale. La loro importanza è spesso sottovalutata, eppure salvaguardare i nostri mari equivale a tutelare la vita stessa sul Pianeta. Preservare i mari è uno specifico dovere di tutti noi, ovunque ci troviamo. 

Oggi il loro stato di salute è gravemente compromesso per via di fattori come inquinamento, riscaldamento globale e pesca eccessiva e illegale, che danneggiano interi ecosistemi comportando altresì una importante perdita di biodiversità: tutto questo ne sta mettendo a repentaglio funzionalità e produttività. 

Un’altra questione da tenere presente quando si parla di salvaguardia degli oceani è quella dei rifiuti. Ovunque noi ci troviamo, i nostri rifiuti arrivano al mare tramite le tubature di scarico: è dunque vitale prestare attenzione a smaltirli in maniera adeguata. Un esempio importante è quello di evitare di disperdere olio esausto nel lavandino. Un solo litro di olio è in grado di danneggiare l’acqua, creando una patina insalubre su una superficie ampia quanto un campo di calcio. 

Ammontano a 8,8 milioni di tonnellate i rifiuti che vengono dispersi in mare ogni anno: l’equivalente di un camion colmo di spazzatura ivi riversato ogni minuto. Tra i vari rifiuti tossici e dannosi per il mare – e di conseguenza per l’uomo –, un posto d’onore è riservato alla plastica. 

Quest’ultima è un materiale fondamentale per il progresso dell’umanità, soprattutto in campo medico e scientifico. Purtroppo, però, siamo riusciti a farne un uso sconsiderato, impiegando per oggetti monouso un materiale che era stato progettato per durare per sempre. 

La plastica non si biodegrada mai: affinché un materiale si biodegradi è necessario che siano presenti determinate condizioni grazie alle quali dei microrganismi possono trasformarlo in altra sostanza. La plastica, invece, si limita a degradarsi, ovvero frammentarsi, in tanti pezzettini minuscoli (microplastiche e nanoplastiche) dannosi sia per l’ecosistema marino sia per l’uomo stesso. 

Le superfici di queste microplastiche, infatti, intrappolano le sostanze nocive presenti nelle acque (inquinate) e le rilasciano all’interno del corpo del pesce che le ingerisce e dunque nell’organismo dell’essere umano che si nutre di quel pesce. A ciò si aggiunga che sono sempre di più gli esemplari che muoiono di inedia, per aver ingerito pezzi di plastica che permangono nei loro stomaci, impedendo loro di assumere altro cibo o nutrienti con significative perdite in termini di biodiversità. Questo provoca dei gravissimi danni ai già delicati equilibri degli ecosistemi marini, con altrettanto gravi ripercussioni sull’uomo (da un punto di vista sia di salute sia economico). 

Un valido strumento di salvaguardia dei mari sono le Aree Marine Protette (AMP), zone dove una legislazione più ferrea impedisce lo sfruttamento dell’area, agevolando così la resilienza e la rigenerazione dell’ecosistema. È più semplice attuare questo tipo di protezione a favore dei mari territoriali, più articolato in relazione alle acque internazionali: ancora una volta, una solida cooperazione tra Stati che lavorino assieme verso un obiettivo comune si rivela l’unica strada per il cambiamento. 

Un altro elemento da tenere presente è che all’aumento costante e continuo delle temperature in atmosfera corrisponde l’aumento della temperatura della superficie degli oceani. L’innalzamento della temperatura dei mari ha delle serie ripercussioni sulle correnti atmosferiche, provocando fenomeni anomali come ondate di freddo polare che arrivano a colpire anche medie latitudini. 

Lo stato del suolo 

Così come l’aria e l’acqua, anche il suolo risente degli effetti delle attività antropiche irresponsabili. 

In primo luogo, tramite l’utilizzo di prodotti chimici a titolo di fertilizzante viene alterato l’equilibrio chimico-fisico e biologico del suolo, oltre a essere introdotte sostanze dannose nella catena alimentare. Anche pratiche come la pacciamatura, ovvero la copertura del suolo con teloni di plastica per proteggere la semina, può avere effetti dannosi, in quanto questi teloni, esposti al sole e alle intemperie, si degradano nel tempo rilasciando microplastiche nel suolo sottostante. 

A proposito di comportamenti irresponsabili dell’uomo, è importante dedicare uno spazio a disboscamenti e deforestazioni. Queste pratiche agevolano frane e smottamenti (e conseguenti disastri ambientali), in quanto, non essendovi più le radici degli alberi a tenere ben saldo il suolo, questo risulta facilmente soggetto a sgretolamenti di ogni sorta. Inoltre, distese interminabili di verde vengono per lo più rase al suolo (come è successo in Brasile con l’amministrazione Bolsonaro, che ha distrutto una grande fetta di Amazzonia) per far spazio ad allevamenti intensivi che, a loro volta, come abbiamo già visto, contribuiscono a peggiorare lo stato dell’atmosfera immettendovi gas metano. 

In un momento storico come questo, caratterizzato da una massiccia quantità di CO2 in eccesso presente in atmosfera, è fondamentale puntare su pratiche come la riforestazione, in virtù del ruolo fondamentale degli alberi nell’assorbimento di anidride carbonica e rilascio di ossigeno. È sufficiente un breve ripasso di una lezione di scienze delle elementari per richiamare alla mente il ruolo a cui adempiono nella produzione di ossigeno. Eppure, consapevoli di tutto ciò, talvolta sembriamo muoverci nella direzione opposta alla salvaguardia del Pianeta. 

Conclusione 

A causa di una irresponsabile e sconsiderata attività antropica, oggi stiamo immettendo nell’ambiente quantità e concentrazioni di rifiuti (intesi nel senso più ampio del termine, dalla plastica alle eccessive emissioni di CO2) nettamente maggiori di quelle che il Pianeta è in grado di smaltire e stiamo attingendo alle sue risorse a una velocità superiore rispetto alla capacità che queste hanno di rigenerarsi. Basti pensare che, nel 2021, l’Earth Overshoot Day – ovvero il giorno in cui le risorse planetarie che avrebbero dovuto bastare per tutto l’anno, sono esaurite – è caduto il 29 luglio. A metà dell’anno.

Questo trend non è evidentemente sostenibile. Ma cosa si intende con “sostenibile”?

Per sviluppo sostenibile, si intende una evoluzione della società per cui vengono soddisfatti i bisogni del presente, senza compromettere le capacità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni. Per raggiungere uno sviluppo sostenibile è necessario che crescita economica, inclusione sociale e salvaguardia dell’ambiente siano in armonia. 

Le politiche mondiali, seppur lentamente, si stanno muovendo in questa direzione: dal Green New Deal Europeo, che prevede il raggiungimento di emissioni zero per l’Europa entro il 2050, all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, all’interno della quale sono elencati 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile che è necessario raggiungere nei prossimi anni. Tuttavia, mentre i decision makers tentano di prendere provvedimenti (e rispettarli), non possiamo non agire anche noi, nel nostro piccolo. 

In primo luogo, dobbiamo ridurre il nostro impatto ambientale modificando in maniera responsabile i nostri stili di vita. In secondo luogo, e altrettanto importante, possiamo e dobbiamo lanciare un messaggio forte e chiaro al mercato attraverso le nostre scelte di consumatori. È proprio vero, infatti, che oggi si vota con il portafoglio.

Ogni nostra azione lascia un’impronta sull’ambiente: assumendo consapevolezza riguardo allo stato in cui versa il Pianeta, possiamo scegliere che tipo di impatto avere. Nel prossimo capitolo scopriremo come calcolare la nostra impronta ecologica e capire, man mano, come ridurla. 

Troverai qui tutte le novità su questo libro

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Complimenti e Brava!

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Laura Zunica
Dopo la laurea e due master in ambito legale, sceglie di dedicarsi alla tutela ambientale e alla sostenibilità, conseguendo un master in Sostenibilità nel Fashion, Design & Beauty. Scrive per diverse riviste che si occupano di ambiente e nel 2018 fonda il blog www.progettoimpattozero.org. Nel 2019 costituisce, insieme a un gruppo di donne, TerraLab Onlus, di cui è presidente. Nel team di Worldrise Onlus è responsabile comunicazione della Campagna 30x30 Italia, volta a proteggere i nostri mari. Tramite i propri canali social condivide il suo percorso verso una vita più leggera, nella profonda convinzione che ognuno possa fare la differenza.
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