Un’anima frammentata, trentadue respiri per raccontare la fragilità dell’esistere. 32 respiri scheggiati è un viaggio lirico e crudo attraverso i margini della vita, dove ogni respiro è una scheggia di ricordo, dolore o desiderio. Le voci si intrecciano in un mosaico che esplora abbandono, solitudine, relazioni tossiche e speranze.
Un’opera intensa che scuote e consola, come un grido sommesso che chiede di essere ascoltato.
Click-Click-Boom
Tick Tick Boom, The Hives, 2007
Aveva sparato il primo colpo nel cortile di casa.
Click-Click-Boom
Una lattina.
Erano passati mesi o forse anni. Voleva il sangue.
Click-Click-Boom
Uno scoiattolo.
Non gli bastavano gli animali, voleva di più.
Click-Click-Boom
Una guerra, una qualsiasi.
Tornato a casa, nessuno lo aveva premiato per quel che aveva fatto.
Click-Click-Boom
Una banca, un negozio di liquori, una rapina facile.
Era vecchio o forse giovane e aveva sprecato la sua vita.
Click-Click-Boom
Un colpo al cervello. Il suo.
Vorrei ma non posso
A Forest, The Cure, 1980
Nelle lunghe giornate chiuso in casa l’unica cosa che faceva era leggere i pochi libri economici che i precedenti inquilini avevano dimenticato – o li aveva portati un vecchio signore che nei meandri della sua memoria forse si chiamava nonno, ma proprio non se lo ricordava – sfogliando le pagine ed entusiasmandosi per quelle scarse figure che interrompevano il flusso di segni strani che sapeva fossero lettere e parole ed era certo che volessero dire qualcosa ma non aveva mai imparato a decifrarli e di certo nessun adulto avrebbe potuto perdere del tempo con lui per spiegargli come fare anche se gli sarebbe piaciuto tanto e di certo il tempo sarebbe passato più velocemente invece di essere un infinito ripetersi di infiniti momenti tutti uguali con il sole la pioggia la notte e il giorno quando tutto quel che gli sarebbe bastato era un po’ di attenzione e magari di affetto una leggera carezza forse un bacio – no quello era chiedere troppo – invece che un loop continuo di ordini abbaiati e cose da fare che lui non era in grado perché non era colpa sua se era nato così e le gambe non gli funzionavano e forse nemmeno il cervello e non era giusto che i suoi fratelli – che poi avrebbero dovuto amarlo o almeno così gli diceva il cuore – potessero avere tutto e lui proprio niente se non la vergogna dei propri genitori – che poi anche loro avrebbero dovuto amarlo o almeno così gli diceva il cuore – quando se avesse potuto si sarebbe alzato di corsa da quella sedia maledetta per obbedire ma proprio non riusciva e anche se aveva ventuno anni e il cervello di un bimbo di cinque era pur sempre una persona ma questo nessuno lo capiva e la sua vita non era vita ma in fondo se era nato così era sicuramente colpa sua e doveva soffrire e scontare la pena per qualcosa che di certo aveva fatto ma che comunque non ricordava e allora ripeteva “me lo merito” a voce sempre più alta ma non riusciva a pronunciare bene le parole e nessuno lo capiva e allora urlava più forte e più forte e più forte fino a quando uno schiaffo non lo colpiva e lui era contento perché era l’unico contatto fisico che aveva con quella donna o quell’uomo che gli aveva donato quell’inferno.
Disco Inferno
Firestarter, The Prodigy, 1996
I suoi occhi si poggiarono su di lei mentre la musica pulsava, i bassi pompavano e un’energia elettrica – o elettronica, vista la tipologia di serata – si diffondeva selvaggiamente nell’aria. Il club era buio, l’aria rarefatta e lo spazio angusto e affollato, pieno di gente e sudore. In quel maelstrom lei ballava eterea, la chioma bionda, gli occhi chiari, lo sguardo incendiario.
Provò a guardarla con intensità, le sfiorò una mano, le sussurrò due parole all’orecchio e ottenne in cambio indifferenza, sdegno e magari derisione, quando lei si girò per parlare con le amiche, le quali, immediatamente posarono, sorridendo, gli occhi su di lui.
Il suo viso si incendiò, il sangue scorse più velocemente nelle vene e fu così che decise che lei sarebbe stata sua, quella sera, a qualsiasi costo, almeno una volta.
Con passo deciso andò a prendere qualcosa da bere e mise in atto il suo piano: facendo scivolare una banconota o forse due nella mano del barista, gli consegnò un mini blister contenente una pasticca di un colore acceso. Indicò la ragazza e tornò a ballare.
La musica era sempre più forte e i suoi sensi più affilati e affinati; provò nuovamente un approccio e questa volta lei lo accolse.
«Finalmente» urlò lei, per sovrastare il rumore.
«Finalmente» rispose lui con la voce roca dal desiderio.
Andarono in bagno, chiudendosi nel primo cubicolo disponibile. Non c’era dolcezza da parte sua, ma solo un selvaggio desiderio di possederla; era finita in trappola, un agnello sacrificale sull’altare del suo desiderio. La prese con forza, come se da quell’incontro dipendesse il destino del mondo. Lei non oppose alcuna resistenza, seguendo il ritmo dei colpi del bacino di lui. Fu un atto breve ma intenso. Catartico. Si tirò sui pantaloni e la lasciò lì a sistemarsi e tornò in pista, gonfio della propria mascolinità, gli occhi iniettati di sangue e uno sguardo fiero.
Non la vide più, d’altronde il locale era sempre più gremito e la musica rimbombava dappertutto, ma non gli interessava, aveva avuto quel che voleva, aveva soddisfatto il suo desiderio.
Prima di andare via, passò al bar a prendere una bottiglietta d’acqua da sorseggiare lentamente per reidratare il sudore e i liquidi persi nel corso della serata. Mentre beveva l’ultimo sorso, pronto a recuperare il cappotto al guardaroba, il barista si avvicinò a lui: «Amico,» gli disse sussurrandogli all’orecchio «ecco i tuoi soldi e la tua pasticca. Mi spiace, ma non me la sono sentita».
Gli mancò il fiato. Non era stato predatore, ma preda.
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