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Amami, dannami.

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Consegna prevista Agosto 2026
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Lei era la luce che l’inferno non aveva previsto. Rebecca non ha mai saputo di essere il prezzo di un patto. Nel giorno del suo diciottesimo compleanno, l’uomo che compare davanti a lei non è un sogno né un incubo: è Lucifero in persona.
Trascinata negli abissi dell’Inferno, si ritrova in un mondo dominato da fiamme, segreti e creature immortali. Lui è il Re. L’incarnazione della dannazione. Un sovrano crudele e tormentato, che l’ha voluta ancor prima che nascesse.
Ma l’Inferno non è solo tortura e obbedienza. È desiderio, potere, un legame oscuro che cresce, si insinua e diventa impossibile da spezzare.
Lucifero avrebbe dovuto dominarla, invece la osserva, la sfida, la protegge e forse… la desidera.
Rebecca sa che amarlo potrebbe condannarla per sempre, ma resistergli è già una forma di agonia.

Perché ho scritto questo libro?

Per me la concezione di bene e male non esiste: esiste la via di mezzo, il grigio, nulla è solo luce così come nulla è solo oscurità. Viviamo in un mondo dove è più facile puntare il dito piuttosto che comprendere. Nasce dal bisogno di dare voce a chi è stato frainteso, a chi è stato chiamato “demone” solo perché non si è omologato. È una storia d’amore che brucia ma illumina, di libertà che costa caro ma che ti rende vivo. E dopotutto, il libero arbitrio lo dobbiamo proprio a Lucifero.

ANTEPRIMA NON EDITATA

PROLOGO

La pioggia cadeva fitta, tamburellando sui vetri appannati dell’auto parcheggiata davanti alla casa immersa nel bosco. L’aria odorava di terra bagnata, muschio e disperazione. I tergicristalli si muovevano lenti, come se non volessero disturbare il silenzio teso che aleggiava tra i due occupanti.

«Se non funziona nemmeno questo…»

La voce della donna si spezzò, tremante. Le mani aggrappate al volante, le nocche bianche per la tensione. Accanto a lei, suo marito non rispose. Aveva gli occhi fissi sul vialetto, dove una luce fioca tremolava dietro una finestra screpolata. Una luce che prometteva risposte. O condanne.

Avevano provato tutto. Medici, cliniche, preghiere, santuari, lacrime. Avevano supplicato il cielo e ricevuto solo silenzi. E ora, come ultima possibilità, si rivolgevano a ciò che si annida nel buio.

La donna scese dall’auto per prima. Il vento le sferzò il viso come uno schiaffo. Stringendosi il cappotto, si avviò lungo il sentiero fangoso seguita dal marito. Bussarono. Una, due, tre volte.

La porta si aprì con un cigolio. Dall’oscurità emerse una figura curva, vestita di nero, i capelli come rami secchi incorniciati da un volto scavato. Gli occhi erano piccoli e lucidi, come quelli di un corvo.

«Siete venuti per ciò che non vi è concesso avere.»

La donna annuì.

«Ho provato tutto. Non riesco a concepire. E.…»

La fattucchiera alzò una mano.

«Zitta. Entrate.»

La casa odorava di cera, fumo e ferro. Il camino acceso gettava ombre danzanti sulle pareti cariche di oggetti strani: fiale con liquidi scuri, piume, teschi, candele nere.

«Esiste un rituale», disse la vecchia. «ma non è per i deboli. Non c’è redenzione una volta aperta la porta. E la porta che spalancherete… conduce a Lui.»

Il marito serrò la mascella. «Faremo qualsiasi cosa.»

La vecchia annuì come se se lo aspettasse. Tirò fuori un pugnale rituale, una ciotola di pietra, un antico tomo. Disegnò un cerchio sul pavimento con sale e sangue essiccato. Sistemò quattro candele ai punti cardinali. Ogni passo era lento, preciso. Un brivido percorse la schiena della donna quando la vecchia pronunciò il nome.

«Lucifero.»

Il nome fu sussurrato, ma parve rimbombare in tutta la casa. Le fiamme delle candele si piegarono verso l’interno del cerchio. La temperatura crollò di colpo. Il vento ululò come se mille anime avessero cominciato a piangere contemporaneamente.

Il pavimento tremò. Il fuoco nel camino si spense. E poi, dal cerchio, si levò una figura.

Era… magnifico. Terribile. Inumano.

Lucifero.

Alto, avvolto da un’ombra che sembrava respirare. Ali nere si spiegavano dietro di lui, gigantesche, lucide come piume d’onice. Indossava solo un paio di pantaloni neri, aderenti, e nulla copriva il petto scolpito come quello di una divinità antica. Gli occhi erano glaciali, un azzurro tagliente come vetro rotto. Lo sguardo bruciava.

«Chi osa disturbarmi?»

La donna cadde in ginocchio. Il marito la seguì, tremante.

«Ti supplichiamo… Vogliamo un figlio. Siamo disposti a pagare qualsiasi prezzo.»

Lucifero sorrise. Un sorriso lento, pericoloso.

«Qualsiasi prezzo?»

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La vecchia non osava nemmeno respirare. Gli occhi fissi sul re dell’Inferno.

Lucifero si chinò, osservando la donna inginocchiata ai suoi piedi. Le passò due dita sotto il mento e la costrinse a guardarlo.

«Avrai la tua bambina. Sarà sana, forte, unica. Ma al compimento del suo diciottesimo anno verrò a reclamarla. Sarà mia. Appartiene a me.»

Il marito deglutì, il cuore in gola. «Cosa… cosa ne farai?»

Lucifero si raddrizzò. Le ali si chiusero leggermente, come il sipario di un teatro che cala dopo la tragedia.

«Sarà la mia regina.»

La vecchia trattenne un gemito. Nessuno disse nulla per lunghi secondi. La pioggia fuori si era fatta più violenta. Ma dentro la casa, il silenzio era totale.

La donna, con un filo di voce, disse: «Lo accetto.»

Lucifero annuì. Le si avvicinò e poggiò una mano sul ventre. La sua pelle brillò per un istante, come se una brace fosse stata accesa dentro di lei. Lei si portò le mani alla pancia, sussultando. Un calore mai provato le esplose nel petto.

«E sia.»

Poi scomparve. Il cerchio si spense. Le candele morirono. La temperatura tornò normale. Solo il pugnale rituale restava lì, a testimoniare che tutto era reale.

La donna si accasciò sul pavimento, piangendo, ma non di paura. Di gioia. Per la prima volta, si sentiva… piena. Completa.

La vecchia la fissava, immobile.

«Hai fatto un patto con il Diavolo. Ricordatelo quando stringerai tua figlia tra le braccia. Non sarà mai del tutto tua.»

Fuori, la tempesta infuriava. Ma nel ventre della donna, una scintilla oscura aveva appena cominciato a crescere.

Un destino era stato scritto. Con sangue e tenebra.

E tra diciotto anni, l’Inferno avrebbe reclamato ciò che gli apparteneva.

Rebecca non aveva mai saputo spiegare il senso di estraneità che l’accompagnava fin dall’infanzia. Non era solo timidezza o insicurezza, non era un disagio passeggero come quello che si legge negli occhi di chi cambia scuola o perde un amico. Era qualcosa di più profondo, radicato, che non lasciava tregua. I colori le sembravano troppo intensi. Le luci delle aule scolastiche la facevano lacrimare, i neon le bruciavano la pelle. I suoni erano troppo forti, persino il fruscio delle pagine voltate in una classe silenziosa la infastidiva come un’unghia su una lavagna. A volte le sembrava di sentire il battito del proprio cuore rimbombare nella testa, e quello degli altri le pareva un’eco costante, come tamburi sotto la pelle. Aveva provato a spiegare ai suoi genitori quel senso di estraneità, quella sensazione di vivere in un mondo sbagliato, o forse, più precisamente, di non appartenere affatto a questo. Anna e Marco, sua madre e suo padre, l’avevano stretta forte tra le braccia, avevano sussurrato che era speciale, che la sua sensibilità era un dono. Ma nel loro sguardo, seppur nascosto dietro un amore sincero, lei aveva colto qualcos’altro: paura.

A scuola non era diversa la situazione. Anzi, era peggiore. Rebecca era una presenza silenziosa nei corridoi, un’ombra che nessuno cercava di illuminare. I suoi compagni la evitavano, ridevano alle sue spalle, la additavano. Strega, dicevano. Ma non con tono scherzoso. Lo dicevano con un odio strisciante che Rebecca non si era mai spiegata. Una volta aveva trovato un disegno lasciato nel suo armadietto: lei impiccata a un albero, con fiamme ai piedi. E sotto, una scritta tracciata in rosso: Torna nel tuo mondo. Era alta e pallida, troppo pallida. I suoi occhi, verdi e profondi, cambiavano sfumatura a seconda delle emozioni. Verde bottiglia quando era triste, smeraldo brillante se rideva. Ma rideva di rado. Nessuno la conosceva davvero. Nessuno aveva mai tentato di avvicinarsi. Qualche insegnante aveva provato a parlarle, ma sempre con la distanza prudente che si riserva a chi si teme possa esplodere. O implodere.

A volte gli oggetti le cadevano di mano senza motivo. Altre volte, le cadevano intorno. Una volta, mentre era particolarmente nervosa per un’interrogazione, l’intero scaffale della biblioteca era crollato a pochi metri da lei. Nessuno era stato colpito. Nessuno le aveva detto nulla. Ma tutti avevano guardato. Lunghi, silenziosi sguardi pieni di sospetto.

Rebecca aveva imparato a isolarsi prima che lo facessero gli altri. Passava le ricreazioni seduta sotto una vecchia quercia in fondo al cortile, con le cuffie nelle orecchie e lo sguardo perso in un cielo che le pareva sempre troppo chiaro, troppo azzurro. Le sembrava un cielo finto. Aveva sogni strani. Si svegliava nel cuore della notte con la sensazione di essere osservata, braccata da qualcosa di oscuro e familiare al tempo stesso.

Eppure, non aveva mai avuto paura davvero. Era come se una parte di lei sapesse. Sapeva che la sua solitudine non era un errore. Che quella diversità non era un incidente biologico, ma qualcosa di intenzionale.

A tredici anni aveva scritto sul suo diario segreto: “Non sono fatta per questo mondo. Ma non credo di essere fatta neanche per un altro. Credo di essere fatta per restare sospesa.”

Non aveva amici. Qualche conoscente, forse. Nessuno a cui confidare i propri pensieri, nessuno che potesse anche solo capire la profondità del suo disagio. Ogni tanto si chiedeva se fosse lei il problema. Se magari fosse davvero malata. Aveva persino chiesto a sua madre di portarla da uno psicologo. Ma Anna aveva detto di no, che non era necessario. «Tu sei sana, amore mio. Solo… più sensibile.»

Una risposta che non la convinse mai. E più cresceva, più le sembrava che il mondo intorno a lei si restringesse. Come se fosse un vestito troppo stretto, cucito su un corpo che stava cambiando forma.

La sua camera era il suo rifugio. Lì tutto era scelto da lei: tende scure, luci calde, pareti ricoperte di libri e disegni. Disegnava molto, soprattutto occhi. Occhi ovunque. Occhi grandi, occhi che piangevano, occhi senza pupille. Una volta sua madre le aveva chiesto: «Perché solo occhi?» E Rebecca aveva risposto, senza pensarci: «Perché è l’unica cosa che vedo anche quando chiudo i miei.»

Una frase che poi le era sembrata assurda. Ma che sentiva vera.

Il tempo passava lento e immobile. L’inverno era più freddo per lei, l’estate più soffocante. Come se non si adattasse nemmeno alle stagioni. Tutto le dava la sensazione di un mondo ostile, come se vivesse in una gabbia invisibile e nessuno potesse vederla tranne lei.

E mentre il suo diciottesimo compleanno si avvicinava, sentiva un’ansia che non riusciva a spiegare. Non era la paura di diventare adulta, non era neppure l’agitazione per una festa che non ci sarebbe mai stata. Era qualcosa di diverso. Come un conto alla rovescia inciso dentro le ossa.

Ogni notte faceva lo stesso sogno, ma quando si svegliava non le rimaneva impresso nulla, il cuore però le batteva come impazzito. Si guardava allo specchio e non si riconosceva. A volte i suoi occhi sembravano più scuri. A volte, sembravano non appartenerle affatto.

Una volta si era detta sottovoce: «C’è qualcosa in me che aspetta.»

Ma non sapeva cosa. Non ancora.

Quel giorno a scuola era identico a tutti gli altri. Ma anche diverso. C’era una tensione nell’aria, come l’elettricità prima di un temporale. I compagni la fissavano di più. Ridevano più forte. E lei camminava come se stesse percorrendo un corridoio che non le apparteneva.

Il tempo stava finendo. Lo sentiva. Anche se non sapeva da cosa dovesse scappare.

E forse, la cosa più inquietante, era che una parte di lei… non voleva affatto scappare.

Il compleanno di Rebecca si avvicinava come una promessa sottile, sospesa tra l’entusiasmo e un senso di inquietudine che non riusciva a spiegare. Mancavano pochi giorni ai suoi diciotto anni, ma dentro di lei non c’era quell’attesa febbrile che aveva sempre immaginato. Si sentiva come se qualcosa si stesse chiudendo, come se ogni passo verso la maggiore età fosse anche un passo verso l’ignoto.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Erika Salari
Mi chiamo Erika Salari, ho trent’anni e sono nata a Casalmaggiore, un piccolo paesino in provincia di Cremona. Ora vivo a San Giovanni in Croce, sempre in provincia di Cremona insieme a mio marito e al nostro cocker Lucky. Ho sempre amato le storie dove il confine tra luce e tenebra si mescola fino a dissolversi, intrise di magia, oscurità e legami che sfidano ogni regola non scritta. Amo l’oscurità, il diverso, il celato, il “non rientra nei canoni di” e questo, forse, è uno dei motivi per cui trovo molta affinità con Rebecca. Quando non sono al lavoro mi potrai sicuramente trovare a casa, nel mio angolino del divano con un libro dark-fantasy in mano e una camomilla nell’altra.
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