Al centro dell’Oceano Atlantico, nascosta al mondo da un potente incanto, Ancestral viveva tranquilla la sua unicità.
Più di diecimila anni orsono quella era stata la mitica terra di Atlantide, prima che Agavè, il Dio di tutti i mondi, il padre di tutte le altre divinità, non scatenasse la propria ira sui suoi abitanti, i suoi favoriti, per aver cercato di piegare al proprio volere il resto dell’umanità.
Furono pochissimi gli atlantidei che raggiunsero le terre degli uomini, sfuggendo all’ira di Agavè e, pentiti per aver tradito Dio, ricchi delle conoscenze che portavano con loro, giurarono di proteggere e guidare la razza umana nel proprio percorso evolutivo.
Da quel giuramento nacque l’Originario Compito, dando vita, di fatto, al primo ordine di stregoni.
Per migliaia di anni questi formidabili individui contribuirono con il loro operato allo sviluppo delle più importanti civiltà del passato, fino a quando il Male non trovò di nuovo il modo di raggiungere i loro cuori.
Questi stregoni drogati di avidità, sfruttando le alte cariche ricoperte, si macchiarono di crimini orrendi, causando morte e sofferenza alle persone che avevano giurato di servire e proteggere. A quel punto, quelli ancora fedeli all’Originario Compito cercarono di contrastarli con tutte le loro forze, scatenando una sanguinosa guerra senza quartiere che durò più di due secoli.
Nel frattempo, gli esseri umani avevano cominciato a temere tutto ciò che aveva a che fare con la magia, bollandolo come demoniaco.
Così ebbero inizio le persecuzioni e la caccia alle streghe, senza più distinzioni tra il Bene e il Male.
Decine di migliaia furono quelli che trovarono la morte sul rogo e, per evitare la completa distruzione, sette dei più grandi stregoni dell’epoca riuscirono a riaprire gli antichi passaggi per Atlantide, permettendo ai sopravvissuti di fuggire su quella che un tempo era stata la terra dei loro antenati.
Ancestral la ribattezzarono e, per la seconda volta, ebbero la possibilità di ricominciare.
La primavera era alla fine e il sole tramontava sempre più tardi.
L’enorme parco che circondava New London era invaso dai giovani, intenti a scaricare lo stress di quell’anno scolastico quasi alla fine.
Non per tutti però era giunto il tempo del riposo.
Quel venerdì pomeriggio, in uno degli appartamenti al quarantaduesimo piano della torre nord-est dell’enorme città grattacielo, una tempesta chiamata Marcus Flinch stava infuriando minacciosa e implacabile.
L’ampio studio era davvero un posto raffinato e un po’ stonava con quello che vi accadeva al suo interno.
L’arredamento era composto da mobili antichi in noce scuro e delle eleganti tende di panno rosso erano raccolte ai lati di una grande finestra alle spalle della scrivania. Due delle quattro pareti erano coperte da scaffalature piene zeppe di libri di ogni tipo e, al centro della stanza, tre piccoli divanetti in pelle erano disposti di fronte ad uno splendido caminetto in pietra, nel mezzo di una parete tappezzata di fotografie.
Il figlio quindicenne di Marcus Flinch era in piedi davanti alla scrivania del padre con le braccia lungo i fianchi e il capo leggermente piegato in avanti.
«Archibald, questa è l’ultima volta che tollero questo tuo disprezzo per le regole» disse l’uomo seduto sulla comoda sedia girevole cercando di darsi un contegno. Aveva usato il nome del figlio per intero, segno che era davvero molto deluso dal suo comportamento.
Cliff Bennett, il preside dell’accademia di Numis, nonché suo amico d’infanzia, lo aveva chiamato al giornale in cui lavorava per comunicargli che Archibald aveva aggredito con la magia un ragazzo waiasso, un “profugo d’oltre cortina” a cui era stato concesso di fuggire dall’inferno in cui erano caduti gli esseri umani.
In origine, il termine “waiasso” era stato coniato per sottolineare una natura imperfetta e priva di magia ma, nei secoli, quella parola aveva perso il suo significato dispregiativo ed era diventato un semplice nome comune con cui gli abitanti di Ancestral definivano tutti quelli che non facevano parte del loro mondo.
Quella di Marcus era una delle famiglie più importanti di tutta la comunità e un comportamento così scorretto era a dir poco inaccettabile, specialmente in un periodo così delicato.
Aghata, la figlia di otto anni, era nascosta dietro la massiccia porta di quercia dello studio ad origliare quella terribile lavata di capo che il fratello stava subendo.
La bambina era molto legata ad Archibald; “il mio dolce Archie”, come soleva definirlo quand’era con le sue amichette.
Anche il ragazzo l’amava, ma aveva un modo tutto suo di dimostrarlo, trattandola sempre con finto distacco.
«Ti prometto che la prossima telefonata da parte della scuola ti costerà la caccia al folletto» continuò Marcus consapevole di quanto il figlio tenesse alla cosa.
Il Cobolorum Venari, o caccia al folletto, era una vecchia tradizione estiva che aveva luogo nelle foreste, in cui un gruppo di giovani stregoni cercava di catturare una di queste sfuggevoli creature senza l’uso della magia. Era un compito tutt’altro che facile, ma chiunque riusciva nell’intento si guadagnava il rispetto degli altri compagni. Per di più, secondo la tradizione, catturarne uno ti donava fortuna per un intero anno.
I folletti erano esseri dalle folte capigliature ed erano alti non più di una quarantina di centimetri. Avevano dei grossi piedi pelosi e la loro pelle era dura come il cuoio. Con grossi nasi a patata e orecchi lunghe a punta, di solito erano vestiti con le pelli dei piccoli animali di cui si cibavano. Non avevano poteri magici, ma in passato venivano catturati dagli stregoni perché i loro capelli erano l’ingrediente principale di alcune pozioni molto potenti. Ormai però, i capelli di folletto provenivano solo da allevamenti certificati e la caccia a quello scopo era diventata inutile.
«Comunque, per non rischiare che tu dimentichi questa nostra chiacchierata, ho deciso di requisire la tua bacchetta fino a nuovo ordine.»
«Ma papà, non puoi…» Iniziò a dire il giovane bloccandosi subito; mai aveva visto il padre cambiare espressione così all’improvviso.
«Non posso?» Ribatté lo stregone battendo i pugni sulla scrivania, alzandosi lentamente dalla propria sedia.
Quando fu in piedi, superando il figlio in altezza di almeno quindici centimetri, Marcus allungò la mano verso Archie e questi, a testa bassa, gli consegnò la bacchetta rosso fiammante.
«Come farò per le lezioni a scuola?» Chiese il giovane quasi in un sussurro.
«Ho già parlato con il professor Ignatius e abbiamo trovato una soluzione pratica. Userai una delle bacchette che la scuola ha in dotazione.»
«Ti prego, dimmi che non parli sul serio» disse il ragazzo, sconvolto dalla cosa. «Come speri che diventi un grande stregone se mi farai usare una di quelle bacchette da morto di fame?»
A quelle parole lo stregone, sospirando, ricadde scoraggiato sulla sedia imbottita.
«Prima cosa: quelle bacchette “da morto di fame” come le chiami tu, le ho usate anch’io quando frequentavo la scuola; tuo nonno non mi ha mai viziato come purtroppo ho fatto io. Seconda cosa: non è la bacchetta che ti farà grande, ma solo quello che hai nel cuore e, mi duole dirlo, se continui ad avere queste idee infelici, avrai poche possibilità di diventarlo.»
Marcus sapeva di aver usato delle parole pesanti, ma non sopportava quella scarsa considerazione per le persone meno fortunate. «Ti posso assicurare che molti dei più potenti stregoni che ci hanno preceduto non devono il loro successo a una bacchetta da duemila talleri come quella che ti abbiamo regalato tua madre ed io.»
Tra i due ci fu qualche secondo di assoluto silenzio.
Lo stregone aspettava un qualche segno di pentimento da parte del figlio, ma non arrivò mai.
Marcus sapeva quanto il ragazzo fosse orgoglioso e testardo: due caratteristiche che gli ricordavano tanto il suo amato fratello, e un’altra ombra calò sul suo animo già messo a dura prova.
«La tua punizione non finisce qui» continuò l’uomo. «C’è un’altra cosa.»
Un sorriso a malapena percettibile affiorò sulle labbra dello stregone.
«Dovrai badare a tua sorella mentre la mamma ed io saremo a cena dai Ferendeles.»
«Siii!»
L’urlo di gioia della bambina arrivò schietto e spontaneo da dietro la porta.
«Quella peste. Non ha ancora perso il vizio di origliare» disse Marcus rassegnato, guardando verso la
porta chiusa.
Lo stregone si aspettava una replica immediata da parte del figlio, ma stranamente non successe niente.
In realtà Archie era alquanto contrariato dalla prospettiva di passare quel venerdì sera da solo con la sorella, ma non voleva dare al padre un pretesto per altre punizioni.
Dannazione! Pensò stringendo i pugni. Proprio stasera che dovevo andare al cinema con gli altri.
Marcus Flinch apprezzò molto quella prova di autocontrollo e decise di non infierire ulteriormente. A quello ci avrebbe pensato la monella nascosta dietro la porta.
«Per me può finire qui. Sappi però, che se te la sei cavata così a buon mercato lo devi solo a tua nonna Kristeen. Fosse stato per me avresti già detto addio ai tuoi folletti.»
Grande nonna! Pensò Archie.
«Ora puoi andare.»
Il ragazzo girò i tacchi e, senza aggiungere altro, uscì dalla stanza.
Non appena Archie fu fuori, Aghata gli si fiondò letteralmente tra le braccia.
«Quanto sono felice. Questa sera sarai il mio cavaliere.»
«Hai ascoltato tutto eh? Sei una scimmietta malefica!» Disse il ragazzo scrollandosela di dosso.
La bimba era abituata a quelle strane dimostrazioni d’affetto e, tutta eccitata, corse in cameretta a prepararsi per la serata.
Anche Archie andò nella sua stanza e, sdraiato sul suo morbido letto ad acqua, ripensò a tutte le cose successe quel giorno.
Solo nel suo studio, Marcus Flinch poté concedersi finalmente un po’ di riposo.
Dopo qualche secondo, passato a ripensare a quel triste colloquio, lo stregone si alzò dalla sedia per raggiungere il camino, estrasse dal taschino il suo “sedibus”, un’elaborata penna stilografica e, con un esperto movimento del polso, ne fece uscire dalla punta alcune scintille.
I ciocchi secchi, colpiti da quella piccola magia, presero immediatamente fuoco, dando vita ad un’allegra fiamma scoppiettante.
Ad Ancestral esistevano due categorie principali di stregoni: gli elementali e i metodici. I primi erano quelli che riuscivano ad accedere alla parte più profonda del loro essere, entrando in sintonia con l’ambiente circostante e a controllare gli elementi attraverso l’energia del proprio spirito, chiamata anche “magia elementale”. I metodici invece, che si dividevano a loro volta in accademici, ritualieri, alchimisti e curatori, erano quelli che prediligevano l’applicazione delle procedure scritte sui testi.
Riponendo il proprio sedibus nel taschino, lo stregone si fermò qualche secondo ad osservare le fiamme.
Un sedibus, o catalizzatore, era lo strumento che la maggior parte delle streghe e degli stregoni usava per convogliare la magia elementale all’esterno del proprio corpo.
Questo catalizzatore, nella stragrande maggioranza dei casi, non era la classica bacchetta usata per lo più dai ragazzi in fase di studio. Spessissimo, un catalizzatore, costruito con essenze affini allo stregone, era un oggetto che aveva uno specifico significato per chi lo utilizzava e poteva assumere le forme più bizzarre; gioielli, orologi, armi, bastoni da passeggio, cappelli di tutti i tipi. “Tutto” poteva essere trasformato e, a volte, risultava molto difficile capire quale fosse il sedibus di una strega o di uno stregone. Il limite era solo nell’abilità dell’artigiano a cui era commissionato il lavoro, e non era insolito che uno di questi oggetti arrivasse a costare anche decine di migliaia di talleri. I nani erano i più bravi.
Dopo aver aspettato qualche minuto, quasi come rapito dai movimenti ipnotici del fuoco, Marcus afferrò una lunga pinza in ferro battuto e tirò fuori dalle fiamme vivaci due carboncini incandescenti per posizionarli sul fornelletto del narghilè libanese caricato con del tabacco al gusto di limone e menta.
Seduto comodamente sul divanetto centrale, lo stregone iniziò a tirare delle profonde e lente boccate accompagnate dal famigliare gorgoglio rassicurante.
Il suo corpo si rilassò quasi subito e i pensieri iniziarono a vorticare insieme alle spirali di fumo profumato.
Decine di immagini iniziarono a scorrergli veloci davanti agli occhi chiusi e, d’un tratto, il ricordo di una foto si bloccò nella sua mente.
Chiara e indelebile, un’immagine in bianco e nero mostrava suo fratello Victor ventiduenne, in tenuta da pilota davanti ad uno scintillante aereo Hawker Hurricane con le insegne della RAF, la Royal Air Force.
Erano passati all’incirca centodiciotto anni da allora, ma ancora ricordava i tentativi del loro inflessibile padre affinché Victor, il primogenito, non partisse a combattere in una guerra tanto lontana quanto inutile e, soprattutto, che non era la loro.
«Cosa ci guadagnerai a farti ammazzare come uno stupido?» Aveva detto il padre piazzandosi davanti alla porta di casa. «Se vuoi essere d’aiuto non è certo questo il modo.»
Come c’era da aspettarsi, il fratello non aveva dato retta a nessuno e, insieme ad altri quattro amici, aveva attraversato la cortina a bordo del mercantile di Basileios, uno stregone rinnegato che commerciava con il mondo dei waiassi.
Due settimane dopo, suo fratello Victor era già in un campo di addestramento inglese, smanioso di spiccare il volo spinto dai potenti motori Rolls-Royce.
La preparazione era durata poco meno di venti giorni a differenza dei sei mesi originari. Già da due mesi infatti, imperversava la famosa Battaglia d’Inghilterra e i cieli della Gran Bretagna gremivano di bombardieri tedeschi intenti a sganciare i loro carichi di morte.
I piloti inglesi morivano a decine negli scontri contro i caccia della Luftwaffe e il governo, per rimpinguare le fila, aveva ridotto drasticamente i tempi per la loro formazione; era come mandare un gregge di agnelli incontro ad un branco di lupi famelici, dove morire non era una delle possibilità, ma solo una questione di tempo.
Kyro interruppe inesorabilmente il flusso dei ricordi di Marcus, andando a reclamare la sua dose di coccole.
Lo stregone fu tutt’altro che dispiaciuto e, grato al suo bel leopardo nebuloso di Formosa, iniziò ad accarezzarlo teneramente sulla testa. Quello che aveva riportato alla memoria era qualcosa di estremamente doloroso.
Il grosso orologio a pendolo, coi suoi sordi rintocchi, lo avvisò che erano già le sette di sera.
Il tempo era volato.
«Amore sei pronto?» Chiese la moglie dalla stanza attigua.
«Sì, tesoro» rispose Marcus allontanando da sé il leopardo. «Prendo la giacca e sono da te.»
Abigail era una donna bellissima e dal carattere vivace.
Marcus aveva centotrentacinque anni, settanta in più di lei, ma ad Ancestral quella grossa differenza di età non era un problema. Gli abitanti di quelle magiche terre invecchiavano molto più lentamente rispetto ai comuni esseri umani e non era insolito trovarsi faccia a faccia con degli arzilli vecchietti tricentenari.
Un miracoloso elisir infatti, ideato alcuni secoli addietro, veniva somministrato la prima volta al compimento del ventunesimo anno di età durante la più famosa delle cerimonie, lo Spiritus Vitae.
Quando si erano fidanzati, venticinque anni pima, la cosa non era stata accettata di buon grado dalla famiglia di lui, specie da Jacob Flinch, il padre di Marcus, uno dei ventinove membri della Suprema Giunta dei Maestri, il Gotha di tutto il sistema politico-decisionale di quel magico continente.
A detta dello stregone, tra i due c’era una colossale differenza di classe sociale e un’unione sarebbe stata deleteria per il buon nome dei Flinch, che da sempre si erano uniti solo con esponenti di altre famiglie di stregoni. Abigail, invece, era solo una veterinaria che aveva preferito lo studio delle scienze mediche a quello delle arti magiche.
Ad Ancestral, infatti, col passare del tempo, la maggioranza degli abitanti aveva abbandonato l’apprendimento della stregoneria, divenendo una pratica sempre più riservata a pochi.
L’unica sostenitrice di quel fidanzamento era stata la madre, la dolce Kristeen, un’anziana strega sempre pronta a mettere i sentimenti del figlio al primo posto.
Dopo un po’, però, le infinite qualità della bella dottoressa avevano conquistato tutti, compreso l’orgoglioso suocero che, messo davanti a quel sentimento sincero, aveva finito per arrendersi.
Quella sera, i Flinch erano stati invitati a cena dai Ferendeles, una coppia di amici di lunga data.
Mikel Ferendeles abitava al ventunesimo piano, nella torre sud-est della città grattacielo di New London e, oltre ad essere il migliore amico di Marcus, era anche il suo vice nella direzione del New London Journal, il più rinomato giornale di tutta la regione.
Per raggiungere la casa di Mikel, Marcus e Abigail avevano cambiato sei ascensori e attraversato due enormi sale gremite di gente intenta a godersi spensierata quel venerdì sera.
New London, da quasi cinquant’anni, aveva terminato quel processo di trasformazione che l’aveva portata a diventare una gigantesca struttura proiettata verso l’alto, formata da un torrione centrale circondato da otto torri più piccole, posizionate negli otto punti cardinali. La sua superficie era ora dieci volte più piccola rispetto a prima e, alta più di seicento metri, poteva ospitare duecentomila abitanti, quasi il doppio rispetto a quelli che poteva contenere la vecchia città.
Ora, al posto dei palazzi e delle strade invase da migliaia di automobili, vi erano un enorme parco pieno di boschi, magnifici giardini e campi coltivati.
Quel drastico cambiamento era stato deciso dalla Suprema Giunta dei Maestri proprio per eliminare notevolmente l’impatto ambientale. Ora, tutto quel gigantesco agglomerato urbano funzionava interamente grazie all’energia elettrica prodotta dal sole e dal vento, per mezzo di tecnologie rubate alla scienza dei waiassi prima che lo scoppio della Terza Guerra Mondiale portasse al caos l’intera civiltà umana.
Il campanello suonò annunciando l’arrivo dei Flinch.
La porta si aprì e una bellissima donna mulatta li accolse col suo più bel sorriso.
«Ciao! Finalmente siete arrivati. Non ce la facevo più a tenere Mikel lontano dagli stuzzichini» disse Nilaya mettendosi di lato. «Dai, non restate sulla porta. Accomodatevi.»
«Che buon profumo» disse Abigail entrando in casa seguita dal marito.
«Nilaya, diventi ogni giorno più bella» disse Marcus mentre le faceva un cavalleresco baciamano.
«Tu sì che sei un nobile cavaliere d’alto lignaggio» iniziò a dire la donna fingendo di essere lusingata. «Non come quel saltimbanco che non ricorda mai il giorno del nostro anniversario» continuò la donna alzando un po’ la voce per farsi sentire dal marito in cucina.
Marcus fece un finto colpo di tosse per attirare su di sé l’attenzione. «Ecco! Queste sono per voi» disse. «Due bottiglie del miglior vino della mia riserva personale.»
«Oh, caro. Non dovevate disturbarvi» disse la donna prendendo il sacchetto con dentro le bottiglie.
«Credimi. Nessun disturbo. L’ho fatto con vero piacere.»
All’inizio della loro frequentazione, quasi dieci anni prima, Abigail aveva provato un po’ di gelosia nei confronti di Nilaya, ma dopo averla conosciuta un po’ più a fondo, la donna aveva finito per far crollare quel muro di diffidenza che aveva eretto ingiustamente.
Oltre ad una moglie molto innamorata del proprio marito, Nilaya si era rivelata un’amica insostituibile, sempre pronta a sostenerla nei momenti più difficili.
«Era ora. Vi aspettavamo con ansia!» Esclamò Mikel uscendo dalla cucina, ancora con il grembiule addosso.
L’uomo si avvicinò prima ad Abigail, schioccandole due sonori baci sulle guance. Dopo passò all’altro ospite, dandogli una bella pacca sulla spalla.
«Come stai capo?» Chiese Mikel per fare il simpatico.
«Potrebbe andare un po’ meglio» rispose Marcus con un’espressione d’un tratto incupita.
«Spero che tu non sia stato troppo duro col ragazzo» disse ancora l’amico. «Dai, vieni nel mio covo, così ci facciamo un bel goccetto e ci scordiamo delle cose brutte.»
«Mi sembra una buona idea» rispose subito l’altro.
«Non dimenticate che tra pochi minuti è pronto in tavola» disse Nilaya rivolta ai due uomini.
«Beviamo solo un bicchiere e arriviamo.»
Il covo non era altro che una piccola stanza, poco più grande di un ripostiglio, con le pareti tappezzate di libri e una scrivania munita di una postazione computer.
Era molto lontano dall’assomigliare allo spazioso ed elegante studio di Marcus, ma allo stesso modo, regalava quella tranquillità di cui un uomo aveva tanto bisogno in alcuni momenti.
«Cosa ti servo mon amie?»
«Conserva il tuo francese per le belle signore» disse lo stregone. «Ce l’hai ancora quel rum dell’anno scorso?»
«L’ho sempre saputo che sei un buongustaio» rispose Mikel prendendo una bottiglia dalla vetrinetta dei liquori. «Lo gradisci un pezzetto di cioccolato per accompagnare?»
«Facciamo due!»
«Ahi! Mi sa proprio che tuo figlio l’abbia combinata davvero grossa» disse Mikel mentre versava il liquido ambrato nei due calici da rum.
«Alla salute!» Fece Marcus, allungando il bicchiere verso l’altro.
«Alla nostra!» Rispose l’altro alzando il proprio.
I due uomini si guardarono per un attimo negli occhi e, subito dopo, accostarono i bicchieri alle labbra.
Nello stesso momento, un urlo agghiacciante giunse tremendo dalla cucina.
CAPITOLO SECONDO
(INFERNO)
Cerbero, fiera crudele e diversa,
Con tre gole caninamente latra
Sovra la gente che quivi è sommersa
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
E ‘l ventre largo, e unghiate le mani;
Graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra.
Dante – Inferno, CANTO VI, 13-18
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IL GUERCIO
24 maggio 2058, venerdì pomeriggio
Un vento tiepido soffiava teso tra le strade senza vita di quella che fino a qualche decennio prima era stata la plurimillenaria città di Taranto, nel sud-est della penisola italiana.
La natura, non più controllata dalla mano dell’uomo, aveva ormai preso il sopravvento su quelle rovine, quasi a cercare di nascondere, con la sua presa avvolgente, le cicatrici di quella terza guerra mondiale che venticinque anni prima aveva cambiato per sempre il volto dell’intera umanità.
“La Grande Catastrofe”, così i sopravvissuti avevano ribattezzato l’evento che aveva ucciso quasi il novantacinque per cento della popolazione mondiale, in parte sepolta sotto i pesanti bombardamenti e in parte, la fetta più grande, divorata dal caos che la guerra aveva lasciato al suo passaggio.
Negli anni del conflitto una carestia planetaria aveva portato a sanguinose rivolte tra i popoli, distruggendo ogni forma di governo esistente nel mondo.
Alla fine, nessun vincitore poté issare la propria bandiera; “Il Nulla” era il padrone incontrastato di tutto.
I traguardi che la civiltà umana aveva raggiunto in migliaia di anni di evoluzione erano scomparsi lasciando il posto alla pazzia, dove il più forte piegava al proprio volere chi non poteva difendersi.
Nuovi equilibri si erano venuti a crearsi.
Bande di criminali erano libere di scorrazzare ovunque, saccheggiando e uccidendo quelli che incontravano. Quelli più intraprendenti erano riusciti ad organizzarsi in veri e propri eserciti, diventando i padroni incontrastati di vastissimi territori.
Il Guercio era uno di questi e, come sempre più spesso faceva, per vincere la monotonia del pomeriggio, era salito sul terrazzo dell’alto edificio di fronte al suo accampamento, per osservare col potente telescopio la normale vita degli abitanti di Borgo Antico, un piccolo villaggio protetto da alte mura, arroccato su di un’isola a poche decine di metri dalla terraferma.
Una delle schiave del suo harem, una ragazza mezza nuda di nome Jasmine, era china su di lui ad armeggiare col suo membro, cercando di dargli del piacere, mentre quattro dei suoi soldati, i ragni, come lui stesso aveva soprannominato i componenti del suo esercito, erano di sentinella agli angoli del terrazzo per garantire la sua incolumità.
Per il capo di quella gigantesca orda di assassini, spiare Borgo Antico, o “la cittadella”, così come era stata ribattezzata dai suoi ragni, era come fare un tuffo nel passato e, molto spesso, si ritrovava a pensare a come era arrivato ad essere quello che era diventato.
La sua carriera di criminale era iniziata quando era appena un ragazzino, molto prima che la guerra scoppiasse.
Era lo smilzo garzone di un vecchio idraulico; di giorno lo aiutava nel suo lavoro e di notte andava negli stessi appartamenti in cui aveva lavorato per rubare le tubature di rame che egli stesso aveva impiantato.
In quella maniera, rivendendo il rame, arrivava a triplicare la misera paga di garzone, fin quando, una notte, il vecchio idraulico lo aveva beccato con le mani nel sacco.
Nazif Durak, così si chiamava il povero garzone turco prima che la sua anima diventasse nera come la notte, messo con le spalle al muro dall’evidenza, aveva subito colpito il suo maestro alla testa con una martellina da muratore e, per finire, lo aveva strangolato con un pezzo di fil di ferro fin quando nell’uomo non era rimasta nemmeno una goccia di vita.
Per non far ricadere i sospetti su di lui, il ragazzo aveva derubato il cadavere in modo da simulare una rapina, accontentandosi delle poche lire presenti nel portafoglio e del vecchio orologio da polso.
Quella semplice astuzia bastò a fargliela passare liscia.
Da quel giorno, gli anni si erano susseguiti velocemente e, a soli vent’anni, era già il capo di un piccolo gruppo di delinquenti dedita agli scippi e ai furti in appartamento.
E poi era arrivata la guerra.
L’anno in cui la Turchia era scesa in campo, l’ex apprendista idraulico Nazif Durak era prigioniero in un carcere di minima sicurezza, più un centro di recupero che una prigione.
Il governo, per ottimizzare le risorse, aveva arruolato a forza i detenuti per i crimini minori e, una volta addestrati alla bell’e meglio, li aveva spediti nelle basi avanzate in territorio siriano a compiere i lavori più umili.
Una notte, durante il suo servizio di pulizia notturna alle latrine, la piccola base avanzata era stata attaccata da un commando di paracadutisti cinesi aiutati da partigiani siriani.
L’attacco fu così rapido e feroce che quasi tutti i soldati turchi non ebbero nemmeno il tempo di equipaggiarsi e di rispondere in maniera efficace.
Il maggiore Hurmaci, il comandante della base, che non era un esempio di coraggio, aveva deciso di nascondersi proprio nelle stesse latrine che Nazif stava facendo finta di pulire.
Il comandante si era ritrovato così faccia a faccia con il soldato che tante volte aveva punito per insubordinazione.
«Brutto scarafaggio codardo!» Aveva esclamato il comandante. «Cosa ci fai nascosto qui dentro?»
Lì per lì, il ragazzo fu preso un po’ alla sprovvista, ma gli erano bastati pochi secondi per capire l’intera situazione.
«Sarei io lo scarafaggio codardo?» Aveva risposto il giovane con sguardo di sfida.
«Come osi?» Aveva subito detto il corpulento maggiore, colpendo Nazif sul volto con la canna della pistola. Il colpo era stato talmente forte da farlo cadere sul pavimento svenuto e con l’occhio sinistro quasi interamente fuori dall’orbita.
In quello stesso istante, degli spari avevano fatto capolino dal corridoio.
I cinesi stavano rastrellando la struttura, facendo scempio dei soldati ancora mezzi addormentati.
Hurmaci, in preda al panico, aveva cercato di nascondersi in uno dei condotti per l’areazione, ma la sua grossa pancia non glielo aveva permesso, facendolo rimanere con i piedi penzoloni a un metro e mezzo di altezza proprio sopra uno dei water.
Entrando nelle latrine, i soldati cinesi avevano visto il giovane Nazif riverso per terra in una pozza di sangue e, credendolo morto, lo avevano superato per ispezionare il resto del locale.
Non ci volle molto affinché trovassero Hurmaci che ancora si divincolava nello stretto tunnel.
I soldati lo avevano tirato giù e, dopo averlo disarmato, lo avevano portato via con loro.
Tre giorni dopo Nazif Durak si era risvegliato in un letto di ospedale con una fascia strettissima che gli copriva la testa e tutta la parte sinistra del viso.
Un medico allampanato gli si era avvicinato quasi subito dalla parte destra del lettino.
«Allora? Come si sente?» Aveva detto il medico, mentre con una piccola torcia portatile gli esaminava l’occhio scoperto.
«Dove sono?» Aveva chiesto il ragazzo ancora mezzo addormentato.
«È ricoverato nell’ospedale di Van. L’hanno portata qui due giorni fa in elicottero.»
«Cos’è successo?»
Il medico non sembrava sorpreso dalla domanda. Sapeva che un colpo violento come quello che il giovane soldato aveva subito poteva provocare amnesie più o meno gravi.
«Tre giorni fa la sua base è stata attaccata e lei è l’unico sopravvissuto di centoundici soldati.»
Il ragazzo sembrò restare quasi indifferente alla notizia.
«Cosa mi avete fatto?» Chiese ancora dopo qualche secondo di silenzio.
Per il medico quella era la parte più dura del suo lavoro.
«Abbiamo dovuto asportarle l’occhio sinistro, ma per sua fortuna l’occhio destro sembra non aver subito nessun danno.»
Nei giorni di degenza che erano seguiti, due giovani ufficiali erano andati in ospedale per interrogarlo.
Nazif si era limitato a dire che la notte dell’attacco non si era reso conto di niente fino a quando uno dei soldati cinesi non lo aveva colpito con il calcio del fucile mentre era di servizio alle latrine.
I due ispettori, senza interrompere il racconto, si erano limitati a registrare il tutto con un piccolo apparecchio digitale. Alla fine dell’interrogatorio, durato all’incirca un paio d’ore, i due ufficiali gli avevano detto che l’esercito aveva deciso di promuoverlo al grado di sergente e di trasferirlo al servizio in patria come reclutatore.
Da quell’incontro il neopromosso sergente Durak aveva appreso anche che il comandante Hurmaci era stato consegnato dai cinesi ai ribelli siriani e che questi, per ripagarlo del trattamento che aveva sempre riservato ai civili della zona, lo avevano crocefisso lungo una delle strade principali.
La degenza in ospedale era durata un altro lunghissimo mese prima che fosse trasferito nella città di Bursa, precisamente nel distretto di Osmangasi, una delle zone più centrali della città.
Il giovane non era mai stato in una città così bella, molto lontana dalla periferia puzzolente in cui era cresciuto.
Lì, il fatto che la Turchia stesse combattendo una guerra, sembrava non aver sortito alcun effetto.
«Buongiorno!» Aveva detto il sergente mettendosi sull’attenti una volta entrato nell’ufficio del suo nuovo comandante.
Il colonnello Aral Zan era completamente diverso dal maggiore Hurmaci, sia nell’aspetto che nell’intelletto.
Più basso e più vecchio, il colonnello aveva l’aspetto del padre di famiglia, ma dagli occhi verdi coronati dalle rughe e dalle folte sopracciglia si poteva percepire la forza di una mente acuta e pericolosa.
«Salve! Venga avanti e si accomodi» gli aveva detto il comandante con un cortese sorriso stampato sulla faccia.
L’ufficio del colonnello era molto elegante e sfarzoso, con oggetti di grandissimo valore esposti in bella mostra su tutte le superfici disponibili.
Nazif, grazie alla sua pregressa esperienza da topo d’appartamento, sapeva valutare bene quel genere di cose e non gli fu difficile stimare con poche occhiate un valore di qualche centinaio di migliaia di dollari.
Anche il Rolex d’oro che il suo comandante brizzolato portava al polso ne valeva almeno ventimila.
«Vedo che si intende di oggetti di valore» aveva detto l’alto ufficiale quasi a leggergli nella mente. «Ma non resti lì in piedi, si accomodi» aveva aggiunto il colonnello indicandogli una delle due poltroncine in pelle poste d’innanzi alla sua scrivania.
Il giovane fu preso un po’ alla sprovvista da quel trattamento, ma dopo qualche attimo di esitazione fece come gli aveva detto il suo nuovo comandante.
«Allora, vedo dal suo dossier che lei è stato reclutato nel centro di recupero di Denizli e che, dopo un piccolo periodo di addestramento, è stato inviato in una delle basi avanzate in territorio siriano.»
Nazif aveva continuato ad ascoltare l’uomo senza proferire parola, scrutandolo con l’unico occhio rimasto.
Per coprire l’orbita vuota, il ragazzo aveva utilizzato una benda nera. All’ospedale gli infermieri gli avevano proposto di utilizzare in alternativa un occhio di vetro, ma lui aveva preferito l’aspetto da pirata che la benda gli conferiva, quasi come se avesse saputo che quella sarebbe stata la caratteristica per la quale, in futuro, la gente lo avrebbe ricordato e temuto.
«Quello che qui non c’è scritto è il reato per il quale era stato condannato» aveva continuato il colonnello. «Ad ogni modo, a me non interessa. Se si è guadagnato i gradi sul campo vuol dire che è una persona in gamba e a me le persone in gamba e sveglie piacciono.»
Dopo quel primo incontro con il colonnello Zan, le settimane e i mesi si erano susseguiti rapidamente.
Nell’ambiente dei reclutatori la fama di Nazif era accresciuta parecchio così come la sua massa muscolare, che non smetteva mai di allenare.
Ormai tutti lo chiamavano il Guercio e il fatto che fosse crudele e senza scrupoli, requisiti indispensabili per quel genere di lavoro, gli avevano fatto guadagnare la fiducia dei suoi superiori, in particolar modo del suo comandante.
Ben presto, il Guercio aveva iniziato a capire i meccanismi corrotti con cui il colonnello Zan riusciva a guadagnare montagne di soldi e, dopo pochissimo tempo, anche lui aveva iniziato a servirsene per i suoi scopi.
L’alto ufficiale prendeva tangenti da chiunque avesse da dare qualcosa in cambio di un incarico senza rischi o, in casi particolari, dell’esenzione totale dal servizio militare.
Grazie al suo intuito criminale, il giovane sergente era diventato il più bravo nel procuragli i clienti giusti e, ben presto, era stato convocato nell’ufficio del suo comandante.
«Vedo che la mia previsione si è rivelata esatta» gli aveva detto il colonnello Zan invitandolo ad entrare.
L’aspetto del ragazzo era cambiato molto dal loro primo incontro. Ora aveva un fisico da toro e nell’unico occhio sano una luce inquietante rivelava la sua vera natura di bestia perversa.
Una settimana prima il sergente aveva avuto degli screzi con il suo comandante di squadrone, il tenente Bala Mor, e questi, qualche ora dopo, era misteriosamente scomparso per essere ritrovato a distanza di due giorni in un bidone della spazzatura con la gola tagliata da un orecchio all’altro.
Nessuno si era permesso di muovere accuse nei confronti del Guercio, anche se in realtà tutti sapevano che solo lui ne avrebbe avuto la forza e, soprattutto, un movente.
«Ti ho fatto chiamare per dirti che stai facendo davvero un ottimo lavoro.»
«Grazie Comandante» aveva risposto secco Nazif.
«Per questo ho deciso di premiarti.»
Il colonnello Zan si era alzato per mettersi di fronte al giovane sergente.
Il ragazzo era più alto di lui di almeno venti centimetri.
«Come avrai certamente saputo, il tenente Bala Mor è stato ritrovato morto non molto lontano da qui.»
A quelle parole, il Guercio si era irrigidito quel tanto che bastava da confermare a Zan chi era stato il reale colpevole.
«Tranquillo!» Si era affrettato ad aggiungere il comandante per rassicurarlo. «Non ti ho fatto chiamare per accusarti.»
Il colonnello tirò fuori dalla sua tasca un paio di gradi da tenente. «Non mi frega un bel niente di chi ha tagliato la gola di quell’idiota. Se non ci avesse già pensato qualcuno lo avrei fatto io stesso.»
Con quell’affermazione il colonnello aveva sancito la sua posizione in maniera inequivocabile.
«Quello che voglio fare è promuoverti al grado di tenente e metterti a capo del tuo stesso squadrone.»
La prima cosa che il neopromosso tenente Durak aveva fatto dopo la promozione era stata quella di ricontattare i suoi vecchi scagnozzi, arruolandoli nelle sue squadre di reclutatori.
Pian piano, il suo potere era diventato sempre più grande e anche lo stesso colonnello Zan aveva iniziato a temerlo.
Il vecchio ufficiale, senza volerlo, si era messo tra l’incudine e il martello: da un lato non poteva allontanarlo per paura di essere denunciato alle autorità superiori, dall’altro, il ragazzo stava diventando sempre più ambizioso e pericoloso e, prima o poi, sarebbero dovuti arrivare ad uno scontro che ormai sapeva di non poter più vincere.
E poi, come un temporale estivo, giunsero le fatidiche Giornate Dell’Apocalisse.
Gli equilibri si ruppero all’improvviso e in pochi giorni le più potenti nazioni del mondo si diedero battaglia con le loro armi più micidiali, fino ad arrivare anche all’utilizzo degli ordigni nucleari.
Un’ecatombe di proporzioni bibliche fu l’unico risultato.
I governi erano caduti uno dopo l’altro come i tasselli del domino e il caos aveva cominciato a imperversare per le strade di tutto il mondo.
A Bursa la questione era degenerata così repentinamente da cogliere tutti di sorpresa.
Gruppi di persone giravano impazziti assaltando negozi e presidi militari per procurarsi cibo e armi e, molto presto, anche il distretto militare fu attaccato.
Il colonnello Zan aveva cercato di organizzare la difesa come meglio poté.
«Lo scenario lì fuori è qualcosa senza precedenti» aveva detto il vecchio ufficiale nel cortile della piccola caserma, di fronte a quel che era rimasto del suo personale. Molti erano fuggiti alla fine del bombardamento per andare dalle loro famiglie, altri, invece, erano morti per le strade nel vano tentativo di resistere alle folle inferocite.
Il Guercio era lì, davanti al suo comandante, in mezzo alle canaglie che componevano le sue squadre.
«L’unica notizia certa è che non arriveranno aiuti da parte di nessuno. Il governo turco è caduto. Non so quale sia la situazione nelle altre città, ma di sicuro non stanno meglio di noi.»
Un brusio si levò dalle fila più o meno ordinate degli uomini nel piazzale.
«So benissimo che molti di voi smaniano dalla voglia di ricongiungersi alle proprie famiglie, ma credetemi se vi dico che andreste incontro a morte certa. Quello che dobbiamo fare è resistere fin quando la situazione non si sarà calmata. Abbiamo armi a sufficienza e il cibo necessario per almeno due settimane.»
Uno sparo aveva messo fine al bel discorso del colonnello Zan, insieme alla sua vita.
Tutti si erano girati verso il Guercio che ancora reggeva in mano la pistola fumante.
A parte lo sgomento iniziale, gli uomini non si erano mossi dalle loro posizioni.
Il tenente assassino si era avvicinato al cadavere del suo ex comandante; lo aveva colpito di poco sotto l’occhio sinistro. La pallottola, uscendo dalla parte opposta, gli aveva portato via anche una parte del cranio.
«Statemi a sentire» aveva iniziato il Guercio, riponendo la pistola nella fondina. «A me non piace perdermi in chiacchiere.»
Nel frattempo, i suoi scagnozzi si erano defilati, mettendosi con le armi puntate sul resto degli squadroni schierati.
«Le cose sono due: o restate con me o vi congedo con una pallottola nel cervello.»
Nessuno aveva osato controbattere, nemmeno i due ufficiali superiori che avevano fatto parte dello staff di Zan.
Abbassandosi sul cadavere del comandante, il Guercio gli aveva sfilato i gradi da colonnello e li aveva sostituiti ai propri. Anche il costoso Rolex era diventato di sua proprietà, andando a finire proprio sotto il vecchio orologio che tanti anni prima era appartenuto al vecchio idraulico suo maestro.
«Detto questo, mi dichiaro il nuovo comandante della base.»
Grazie alle armi in loro possesso, i soldati del distretto militare erano riusciti a tenere fuori le folle inferocite e alla fine, quando il cibo era diventato insufficiente, insieme al loro nuovo comandante, avevano abbandonato la base, spostandosi di luogo in luogo per sopravvivere.
Il Guercio si riscosse dalla trance in cui era caduto rivivendo tutti quei ricordi. La schiava era ancora piegata su di lui cercando disperatamente di darsi da fare con un membro ormai addormentato.
Con un manrovescio sul viso, l’uomo fece cadere la schiava all’indietro con le labbra rotte.
«Non sei buona a niente» disse il colonnello Durak sputandole addosso. «Forse dovrei farti a pezzi e utilizzare le tue morbide carni per lo stufato di questa sera.»
«Mio signore, ti scongiuro… Fa di me quello che vuoi, ma non mi uccidere. Fammi riprovare. Sono sicura che questa volta riuscirei a compiacerti» disse la ragazza singhiozzando tra le lacrime.
Lo sguardo terrorizzato della ragazza e il sangue che le fuoriusciva copioso dalle labbra tumefatte lo fece eccitare molto, ma decise che non era più il momento per quel genere di cose. Qualcosa di più importante richiedeva la sua attenzione.
Allo schiocco delle sue dita, due dei quattro ragni di guardia gli si avvicinarono immediatamente.
«Riportatela all’harem e dite alla matrona Zabel che la voglio per domani sera.»
«Grazie mio signore, non ti deluderò» disse la giovane schiava mentre veniva trascinata via.
Aspetta a ringraziarmi, pensò lui, abbozzando un sordido sorriso.
Un giovane ragno dalla faccia tutta tatuata fece la sua comparsa sul terrazzo.
«Colonnello, sono arrivati!» Gli disse avvicinandosi al suo orecchio.
Quel pomeriggio, il Guercio avrebbe dovuto rivedere gli ultimi dettagli del piano assieme ai suoi luogotenenti e al Prete, il suo consigliere.
«Falli avvicinare!» Ordinò entusiasta il colonnello. «E fa portare qualcosa di forte da bere.»
L’esercito del Guercio contava all’incirca milletrecento persone. Quasi seicento erano soldati, ripartiti su tre squadroni comandati ognuno da un luogotenente, e più di settecento erano gli schiavi, tra uomini, donne e bambini.
Per tenere sotto controllo tutte le vie d’accesso a Borgo Antico, il Guercio aveva dato ad ogni luogotenente una zona di competenza. Il Caprone, con lo Squadrone Sentenza a sud-est, nei pressi del vecchio stadio comunale e Viper, con lo Squadrone Morte a nord-ovest, nella zona dell’ormai abbandonata stazione ferroviaria. Lui invece, insieme al suo terzo luogotenente, il figlio Aziz, il più grande dei suoi ventisette figli, si era stanziato con lo Squadrone Inferno e il resto dell’orda nei pressi dei Giardini Peripato, la sede della vecchia villa comunale, cinquecento metri ad est del canale navigabile che isolava la cittadella.
Erano quasi nove mesi che il Guercio e suoi ragni infestavano quei luoghi e, per il momento, data l’abbondanza di risorse e il clima favorevole, non aveva nessuna intenzione di andarsene. Anzi, non vedeva l’ora di diventarne il padrone incontrastato.
La cittadella fortificata fungeva da specchietto per le allodole e, ormai, erano centinaia i disperati che erano caduti nelle grinfie del colonnello Durak nel vano tentativo di raggiungerla.
Oltre che su quei poveri disperati, i ragni potevano fare affidamento sull’abbondante selvaggina e sugli alberi da frutto che crescevano spontanei tra le rovine della città abbandonata.
«Dunque» disse aprendo il discorso il Guercio davanti ai suoi luogotenenti seduti di fronte. «È arrivata l’ora di fare la nostra mossa.»
Solo Viper mancava all’adunata di quel tiepido pomeriggio.
Al posto della donna però, in rappresentanza dello Squadrone Morte, si era presentato Shere Khan, uno dei suoi ufficiali più anziani, un omone grande e grosso con un uncino al posto della mano sinistra.
«Come sta la nostra attrice protagonista?» Chiese il Guercio sorridendo.
«Ormai è entrata nella parte. Se la vedeste non pensereste mai che è la donna più letale del nostro esercito. Sembra una giovane creatura indifesa con gli occhi pieni di paura» rispose ridendo l’ufficiale monco.
«Molto bene!» Fece il colonnello. «Non ci resta che aspettare che quei bifolchi si decidano a fare qualcosa.»
«Capo, posso proporre un brindisi?» Chiese il Caprone alzandosi in piedi con la coppa di liquore in mano.
Il Guercio fece segno di sì con la testa.
«Allora in alto i calici e brindiamo a quel cerbiatto impaurito che ci aprirà le porte della città.»
«Tu non brindi, Prete?» Chiese il Caprone di colpo serio, vedendo l’uomo ancora seduto sulla sua sedia.
Il Prete, vestito con una lunga tunica nera, alzò il viso, fissando lo sguardo negli occhi ingialliti del rozzo luogotenente. Aveva la parte destra del viso ustionata e la folta barba nera copriva solo in parte le cicatrici che partivano dalla guancia fino al punto in cui doveva esserci il sopracciglio. Anche i corti capelli ricci erano di un nero intenso e mettevano in risalto il verde degli occhi.
«Solo gli stolti vendono la pelle dell’orso prima di averlo ucciso» rispose il consigliere quasi sussurrando.
L’odio che quei due individui provavano l’uno per l’altro era noto a tutti.
Un silenzio agghiacciante cadde pesantissimo sul gruppo di uomini.
Nessuno, a parte il Guercio, avrebbe mai osato dare dello stolto al Caprone.
All’improvviso, la brutta faccia pelosa del luogotenente si tramutò in una smorfia feroce e, soffiando come un toro imbizzarrito, caricò in direzione del consigliere disarmato.
Tutto si svolse molto velocemente.
Il basso tavolino, con un semplice gesto della mano del Prete, come se fosse stato spinto da una forza invisibile, si spostò rapido in direzione del Caprone, facendolo cadere rovinosamente per terra.
Con la faccia sanguinante e ancora stordito, il luogotenente, aiutato da Shere Khan, si rimise in piedi e, dopo qualche attimo di esitazione, estrasse un grosso coltellaccio dalla cinta, pronto a scagliarsi nuovamente sul consigliere.
Il Prete, nel frattempo, a pochi passi da lui, aveva di nuovo alzato la sua mano puntandola stavolta verso il viso del suo avversario.
«Basta così» disse calmo il Guercio. «Non mi va che vi scanniate a vicenda come due galli da combattimento.»
Il colonnello lasciò ai due qualche altro secondo per sbollentare gli animi prima di continuare. «Se tutto andrà bene e quel bastardo lì dentro non mangerà la foglia, ben presto la città sarà nostra con tutte le meraviglie che nasconde» disse alzando la coppa. «Alla nostra vittoria!»
CAPITOLO TERZO
(PURGATORIO)
Il golfo di Taranto poi ch’è quasi tutto importuoso, ha in vicinanza della città un porto grandissimo e bellissimo chiuso da un gran ponte, con cento stadii di circonferenza. Dalla parte che più s’addentra in fra terra forma un istmo che va al mare esteriore, in modo che la città giace sopra una specie di penisola, e il collo dell’istmo è di sì poco momento, che si possono trasportar facilmente le navi dall’una all’altra parte.
Strabone – Geografia, Libro VI, Capo V
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ANGELICA
24 maggio 2058, venerdì sera
Sull’ultimo dei torrioni rimasto intatto del Castello Aragonese, sotto una bandiera fremente raffigurante un delfino cavalcato da un uomo col tridente, Angelica contemplava estasiata e sognante il mare al tramonto.
Le onde s’infrangevano contro la carcassa arrugginita di una vecchia nave da guerra semi affondata, rimasta lì a sussurrare al vento le vicende di quella che tutti ricordavano come La Grande Catastrofe, la devastante guerra mondiale che aveva fatto sprofondare nel caos l’intera umanità.
Nonostante tutto, c’era ancora chi aveva il coraggio di lottare e che, con un po’ di fortuna, era riuscito a ricreare un piccolo angolo di mondo dove ancora si poteva sperare.
«Angelica!» Il richiamo lontano di sua madre la riportò nel mondo reale.
Come sempre più spesso succedeva, la ragazza si era rifugiata in quella dimensione immaginaria dove poteva vivere avventure fantastiche come quelle descritte nei libri che il suo papà non esitava a fornirle.
Angelica aveva quattordici anni e l’unica realtà che conosceva era quel piccolo borgo fortificato di quasi duemila anime chiamato Borgo Antico.
La cittadina sorgeva su di un’isola a poche decine di metri dalla costa, sulle rovine di quello che prima della guerra era stato il quartiere più vecchio della ormai distrutta città di Taranto.
Prima del conflitto il quartiere era collegato al resto della città per mezzo di due ponti, il Ponte Girevole e il Ponte di Pietra; il primo distrutto nello stesso bombardamento che aveva danneggiato parte del Castello Aragonese, il secondo, invece, era stato fatto saltare con l’esplosivo dagli abitanti del borgo per accrescerne la sicurezza. A quello stesso scopo era stata edificata lungo tutto il perimetro dell’isola una cinta muraria molto alta e robusta, capace di resistere anche all’assedio più audace.
C’erano voluti quasi dieci anni per completare la fortificazione. Alla fine, però, il duro lavoro aveva premiato e Borgo Antico era diventato un baluardo di civiltà nel bel mezzo di quelle terre senza legge.
Nicola, il padre di Angelica, era il sognatore che aveva edificato quella piccola speranza quasi vent’anni prima. Era stato lui, tarantino di nascita, insieme a pochi altri, a trainare le volontà di quanti avevano deciso di seguirlo. Lui, ex pilota di elicotteri dell’esercito appassionato di storia, era riuscito a creare un posto sicuro per far crescere quelle nuove generazioni che, secondo lui, avrebbero risollevato le sorti del pianeta.
Oltre ad essere il capo del Consiglio Cittadino, l’ex militare era anche il curatore della biblioteca, un posto dove centinaia di migliaia di libri, recuperati un po’ ovunque, regalavano a chiunque la chiedesse quella saggezza che la maggior parte del genere umano aveva ormai perso.
«Allora?» Chiese Maria vedendo la figlia entrare in casa. «Sei stata di nuovo al castello?»
Angelica non rispose. Sapeva che la madre disapprovava il fatto che si arrampicasse sulle torri di quel rudere.
Avvicinandosi alla madre, sempre senza dire una parola, la ragazza le schioccò un rumoroso bacio sulla guancia. La donna, avvezza a quel genere di cose, sorrise rassegnata.
Solo allora la ragazza parlò.
«Ti prometto che un giorno riuscirò a portare lassù anche te. Il mare al tramonto è bellissimo» disse Angelica sedendosi.
«Fin quando tuo padre non farà ristrutturare quel posto non metterò piede da nessuna parte. E nemmeno tu dovresti. Non voglio che tu finisca sepolta sotto le macerie. Ormai sei una donna e dovresti imparare a comportarti come tale. Come speri che un giorno qualcuno possa interessarsi a te?»
«Mamma smettila! Ti prego! Lo sai che quelle cose non mi interessano!» Rispose subito la ragazza con la faccia disgustata. «A proposito, dov’è papà? È ancora a discutere di quelle persone che sono arrivate stamattina? Perché non le facciamo entrare e basta? Abbiamo ancora un mucchio di case vuote» aggiunse addentando la fetta di pane e pomodoro che la madre le aveva messo sotto il naso.
«Che ne sai tu? Chi te lo ha detto?» Chiese Maria turbata.
Da mamma apprensiva quale era aveva sempre cercato di tenere la figlia lontana dai fatti di “quelli di fuori”, come li chiamava lei. Naturalmente il marito non la pensava nello stesso modo. Secondo lui era giusto che le nuove generazioni sapessero cosa si nascondeva oltre quelle alte mura.
«Me l’ha detto Mattiash. Dice che i vecchi hanno deciso di lasciarli fuori a morire di fame. E comunque in città non si parla d’altro. Già scommettono su quando il Guercio si farà vivo per mangiarseli.»
«Angelica, come fai a parlare così di quelle povere persone?» Intervenne subito Maria, scossa da un brivido di disagio.
Con molta difficoltà, la donna cercò di mantenere la calma.
«Devi dire a Mattiash di non intromettersi in fatti più grandi di lui e che nessuno in questa città ha interessi a far morire di fame della povera gente che cerca aiuto.»
«E cosa stiamo ancora aspettando? Mi ha detto Matti–» La ragazza si era stoppata prima di pronunciare il nome dell’amico. «La gente dice che ci sono molte donne e bambini.»
Prima di rispondere, la donna tirò altro lungo respiro.
«Non possiamo “farli entrare e basta” come dici tu. C’è bisogno di prendere tutte le precauzioni del caso.»
Angelica, nel frattempo, continuava a mangiare con appetito le sue fette di pane.
«Prima di tutto dobbiamo assicurarci che tra di loro non ci siano uomini cattivi che cercano di entrare in città per farci del male…»
A quelle parole, la ragazza smise per qualche secondo di mangiare, posando la fetta di pane morsicata nel piatto.
«E, seconda cosa» continuò la madre. «Dobbiamo impedire che queste persone portino all’interno della nostra comunità malattie che potrebbero ucciderci tutti.»
«Mamma, come faremo a capire tutte queste cose prima che il Guercio compia un’altra strage?»
«Di questo non devi preoccuparti. Qualcosa mi dice che tuo padre ha già in mente una soluzione.»
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NICOLA FONTANA
24 maggio 2058, venerdì sera
Quella sera, nella Sala Consiliare di Palazzo di Città, la residenza municipale di Borgo Antico, il Consiglio Cittadino era nel pieno di un acceso dibattito.
«Non possiamo ignorare tutte quelle persone che chiedono il nostro aiuto. È pieno di bambini, Santo Dio!» Tuonò il grasso abate del convento di San Francesco, tutto rosso in viso.
Padre Salvatore non faceva parte del consiglio, non era uno dei vecchi, ma come sempre più spesso accadeva in quel tipo di questioni, era entrato a gamba tesa nel problema, facendo sentire la sua voce da tenore.
«E cosa credi di fare? Saranno più di cinquanta, tutti sporchi e malati» chiese Gafurr Bakaj, il rappresentante di Contrada Marina, un pescatore rude di mezza età con la pelle scurita dal sole e il fisico da maratoneta. «Come minimo rischiamo un’epidemia di pidocchi, per non parlare di qualcos’altro.»
«Non mi sembra che tu e la tua numerosa famiglia eravate messi meglio quando siete arrivati qui cinque anni fa a bordo di quella bagnarola piena di buchi» intervenne Baltasar Ayala, detto anche Big Bud, un omone barbuto di origine argentina rappresentante di Contrada Sant’Eligio. «Se non ricordo male sono stato proprio io a ripescarti mezzo morto quando sei andato a sbattere contro la scogliera.»
«Non usare quel tono quando parli della mia famiglia. Ho perso due delle mie sette figlie in quella maledetta traversata» rispose Gafurr mettendosi in piedi minaccioso, pronto a scattare contro Big Bud.
L’argentino, dal canto suo, non sembrava per niente intimorito. Anche da seduto era alto quasi quanto il pescatore albanese.
Nicola Fontana alzò gli occhi infastidito, tutt’altro che turbato da quelle dimostrazioni di forza; quella era la fase in cui ognuno doveva dar senso alla propria presenza. Specialmente Big Bud, che era un esperto nel far innervosire gli altri, in particolar modo Gafurr Bakaj, il suo bersaglio preferito.
Sette mesi prima i due avevano avuto uno scontro feroce per questioni famigliari molto delicate e, da allora, per l’argentino ogni scusa era buona per fargliela pagare.
Certo però, pensò Nicola, se ci fosse stato Gustav sarebbe stato tutto molto più semplice. Quel gran bastardo ha sempre la cosa giusta da dire al momento giusto.
Gustav l’erborista era un forestiero arrivato sette anni prima da chissà dove, a bordo di una feluca armata di vele latine, in compagnia di un bizzarro equipaggio e la stiva piena di unguenti e medicine naturali.
In città i farmaci erano praticamente inesistenti e l’uomo, assieme ai suoi due compagni di viaggio, un nano barbuto e un ex schiavo di colore alto più di due metri e dalla lingua mozzata, erano stati accolti con gioia da tutta la comunità.
Grazie ai suoi intrugli molte persone erano riuscite a guarire da quei disturbi da cui erano affetti e alla fine, quando era arrivato per lui il tempo di spiegare le vele, gli abitanti di Borgo Antico lo avevano convinto a restare lì per sempre.
In principio, i tre non furono molto contenti di fermarsi definitivamente, ma infine, innamorati di quel piccolo borgo e dei suoi abitanti, si erano abituati all’idea, facendo del Castello Aragonese la loro casa.
L’enorme giardino nascosto era perfetto per far crescere le piantine officinali, garantendo quella riservatezza di cui tanto sentivano il bisogno.
Di tanto in tanto, Gustav e i suoi due compagni sparivano per settimane, prendendo il largo a bordo della loro piccola imbarcazione.
Nessuno sapeva dove l’erborista si recasse durante i suoi viaggi, nemmeno lo stesso Nicola Fontana, senza dubbio la persona di Borgo Antico a lui più vicina.
Quando Gustav era fuori città, il ruolo di curatore era ricoperto dal dottor Santi, un medico impacciato dall’animo buono che combinava sempre un sacco di pasticci.
Due anni prima, l’enigmatico erborista era stato eletto membro del Consiglio Cittadino come rappresentante di Contrada Castello, in seguito alla morte prematura del consigliere precedente.
Grazie ai suoi consigli, Borgo Antico aveva iniziato un percorso di apertura verso il mondo esterno, cercando di uscire dal regime di terrore che l’attanagliava.
La strada da fare però, era ancora molto lunga, soprattutto dopo che il Guercio, il capo di una gigantesca banda di criminali dedita anche al cannibalismo, aveva ostentato il suo interesse verso tutto quello che la piccola cittadina rappresentava.
Borgo Antico era divisa in sette contrade: Contrada Castello, Contrada San Francesco, Contrada Marina, Contrada San Cataldo, Contrada Addolorata, Contrada Sant’Eligio e Contrada Fontana, ognuna delle quali rappresentata da un consigliere eletto tra i suoi cittadini. Il capo consiglio invece, secondo le leggi della città, doveva essere eletto tra i sette rappresentanti, per mezzo di una votazione in cui ognuno di loro doveva esprimere due preferenze, anche se, fino a quel momento, Nicola aveva ricoperto quell’incarico da quando il consiglio era stato formato da lui stesso più di quindici anni prima.
Oltre all’erborista, quel giorno mancava anche un altro consigliere, il rappresentante di Contrada San Francesco, Pol Harte, il vasaio: un irlandese obeso ricoverato all’ospedaletto per un’indigestione di cozze.
«Allora!» Esclamò il capo consiglio mettendosi in piedi. Quelli che ancora stavano disquisendo tacquero immediatamente. «Non c’è dubbio sul fatto che quelle persone debbano essere soccorse» disse subito per mettere le cose in chiaro e far sapere quale fosse il suo pensiero.
A quelle parole, Padre Salvatore sembrò rilassarsi leggermente e il suo pesate respiro parve decelerare.
«Sicuramente, come ha detto Gafurr, non possiamo rischiare di far scoppiare un’epidemia in città solo perché siamo spinti da spirito caritatevole.»
Nel dire quelle parole, Nicola Fontana fulminò con lo sguardo il grasso frate che stava per controbattere, facendolo desistere. «Quando parlate voi io non v’interrompo, perciò gradirei che voialtri usaste la stessa cortesia nei miei confronti» aggiunse con tono spazientito.
Una pausa imbarazzante raffreddò per un attimo i bollenti spiriti dell’orgoglioso sacerdote.
«La prima cosa che dobbiamo fare è quella di impedire a quel pazzo criminale di avvicinarsi a quelle persone. Lo scorso nove maggio ci deve servire come insegnamento.»
Gina Costa, la rappresentante di Contrada San Cataldo, alzò una mano per prendere la parola.
«Parla pure Gina» disse Nicola rimettendosi seduto.
La donna aveva superato da poco la quarantina e oltre ad essere uno dei sette rappresentanti di Borgo Antico, era anche la presidentessa del Comitato delle Donne Artigiane.
Gina era una donna alquanto intelligente oltre che molto bella e avvenente. Il marito era morto sette mesi prima durante un’imboscata da parte di un gruppo di ragni che voleva impossessarsi di un carico di olive nei pressi di Punta Penna, durante il trasporto dalla zona degli uliveti a Borgo Antico. Nell’attacco erano cadute, oltre al marito di Gina, altre due persone, tra cui il figlio ventenne di Big Bud, Tomás, prima catturato e poi torturato a morte.
Da quel giorno la donna, se pur con due figli adolescenti da crescere, aveva cominciato a dedicarsi con tutta sé stessa al lavoro di rappresentante della sua contrada oltre che a quello di sarta nella sua piccola bottega.
«Non sono un dottore» iniziò la donna mettendosi in piedi. «Ma credo che l’unico modo per capire se quelle persone siano malate, sottraendole allo stesso tempo alle grinfie di quei maledetti cannibali, sia quello di metterle in quarantena in un posto sicuro e, secondo me, l’unico posto che conosco che potrebbe fare al caso nostro è l’isola di San Paolo.»
Un brusio si alzò subito dopo l’intervento della donna.
Geniale, pensò subito Nicola Fontana seduto sulla sua comoda sedia. Stava già valutando la cosa sotto i vari punti di vista e gli sembrava sempre più una buona idea. Perché non ci ho pensato prima? Per di più è pieno di vecchie strutture che potrebbero essere utilizzate come rifugi.
San Pietro e San Paolo erano due isolette a poco più di tre miglia da Borgo Antico. Erano anche chiamate Isole Cheradi e segnavano la fine del vecchio porto di Taranto.
San Pietro, l’isola più grande, aveva un’estensione di circa centosedici ettari ed era usata dai borgatari per le coltivazioni di grano, avena, legumi e ortaggi oltre che all’allevamento dei cavalli e di altri animali. L’isola era il posto ideale per quel genere di attività e dal momento che era lontana dalla terra ferma era anche facilmente difendibile.
San Paolo invece, con una superficie di cinque ettari, era ancora abbandonata a sé, insieme a tutte le vecchie strutture militari risalenti alla Seconda Guerra Mondiale. Già da moltissimo tempo si era pensato di recuperare l’isoletta per renderla una postazione difensiva, come già era stato fatto nei secoli passati, ma mai si era pensato di farla diventare “un’isola parcheggio” che potesse accogliere tutte quelle persone disperate in attesa di una sistemazione permanente. In quella maniera avrebbero preso due piccioni con una fava.
Bastava curare solo qualche piccolo dettaglio ed era fatta.
Mettendosi in piedi, il capo consiglio aspettò qualche altro secondo prima di prendere la parola.
«Sei davvero una donna in gamba» disse Nicola con sincerità.
La donna sembrò arrossire.
Il capo consiglio sembrava di colpo rinvigorito e pieno di entusiasmo.
«Big Bud» disse rivolgendosi al gigantesco mastro d’ascia. «Di quante barche disponiamo?»
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