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Anche a Londra c’era il sole

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Consegna prevista Aprile 2026

Inverno 2020. Filippo sbarca a Londra con una missione particolare: definire un accordo di partnership elettorale, per conto del partito per cui, senza entusiasmo, è finito a lavorare. All’interno dell’agenzia che lo assiste, il suo contatto è Pavel, ex collega che lo costringe a riaprire le porte di un passato lontano. A Londra, infatti, Filippo ha vissuto una lunga parentesi della sua vita, durante la quale ha conosciuto l’unica donna che abbia mai amato: Aurora.
Adesso, a distanza di anni, quella trasferta sarebbe l’occasione migliore per rivederla. Ma c’è un problema: Aurora sembra scomparsa.
Complice una foto scoperta per caso, Filippo inizia a sospettare dell’esistenza di un legame nascosto tra lei e Pavel. E si mette in cerca del suo vecchio amore. Dopo quattro giorni di vagabondare per le strade della città, quando il mistero sembra trovare una soluzione, la Storia (con la ‘S’ maiuscola) irrompe in scena, travolgendo le vite dei protagonisti e di qualche miliardo di persone.

Perché ho scritto questo libro?

Il primo seme di questa storia è stato piantato durante un soggiorno di un anno a Londra. Ho radunato sensazioni ed esperienze vissute e le ho messe nero su bianco, per non lasciarle andare perdute. Tempo dopo, l’incubo della pandemia e del lockdown (un altro pezzo di vita da raccontare per forza) hanno fatto il resto, dando forma alla trama e caratterizzando due personaggi, Filippo e Aurora, prima distanti e poi uniti, che si muovono in una capitale britannica sospesa tra malinconia e angoscia.

ANTEPRIMA NON EDITATA

PARTE I

Finding Nemo

Cap. 1

Il giorno del suo arrivo a Londra, Filippo pensò subito a lei.

Scendendo la scaletta dell’aereo, gli venne immediatamente da chiedersi se fosse rimasta a vivere nel vecchio quartiere o se avesse cambiato lavoro.

Pioveva. Il cielo inglese lo accoglieva dopo anni con il suo maquillage più grigio. Anzi, con il suo make-up più grigio.

“Comunque c’era sempre il sole quando ci vivevo io!”, considerò Filippo, fiero di aver sfatato un logoro stereotipo con la sua esperienza.

Anni prima, Filippo era stato un cittadino di Londra: ci aveva vissuto per quindici mesi. Quindici mesi di vita, quindici mesi di passione, mai completamente sbocciata.

Londra lo aveva prima drogato, poi annoiato, poi lentamente alienato. Un rapporto di amore-odio con la città. Con la città e con lei.

Ma da quando lei, Aurora, si era rifatta viva, Filippo aveva riattivato una parte del suo cervello, del suo cuore, della sua anima annerita dal fumo del compromesso. E quel viaggio – si convinse – non poteva essere una semplice coincidenza. Anche se le circostanze facevano supporre il contrario.

«Earl’s Court station», riferì distrattamente all’uomo del cab che lo avrebbe portato in città. Era talmente stanco che non aveva voglia nemmeno di controllare l’indirizzo esatto dell’hotel. Si ricordava che era più o meno vicino a quella fermata della metro. Bastava così.

Fuori dal terminal, la sfilata di valigie e zaini e idiomi e razze, tutti in diligente coda per salire sul rispettivo National Express o Terravision, fu il primo frame di un passato sempre meno sfocato.

Nel presente, però, lui non prendeva più il bus, potendosi permettere la rapidità e l’asocialità del taxi.

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«Earl’s Court station», gli disse l’uomo del cab, con il suo accento del Sud.

Bene. In un batter d’occhio, senza nemmeno rendersene conto, era arrivato a destinazione. Forse si era addormentato. O forse aveva tenuto solo gli occhi chiusi per tutta la durata del viaggio. Lo aiutava, quando il mal di testa si risvegliava all’improvviso.

Ciaf.

Una pozzanghera esplose, schiacciata dal suo stivaletto color mogano: il classico pediluvio non richiesto.

Il taxi sfrecciò via, mimetizzandosi nel traffico. Lui rimase là, in piedi, con l’impermeabile in una mano e il manico del trolley nell’altra. In piedi, studiando il profilo delle case con lo sguardo incantato di nostalgia.

“Dove abiterà adesso? Chissà che lavoro fa…”

Il pensiero di lei, sempre meno sommerso nelle sabbie mobili della mente, lo ridestò dal torpore.

Finalmente, accese il telefono, che era rimasto spento dal momento del decollo da Roma. E decise di fare quello che per giorni aveva immaginato: scriverle qualcosa come Sorpresa! Sono a Londra. Ci vediamo?

L’ultimo messaggio della chat di Facebook, che li aveva fatti riparlare dopo più di quattro anni, era di Aurora, che si era limitata a un telegrafico in risposta alla domanda di lui: Hai ricevuto l’e-mail con il mio racconto?

Basta: dopo quel , risalente a circa due mesi prima, non c’erano stati altri aggiornamenti.

Scrisse quindi che era a Londra per motivi di lavoro e che gli avrebbe fatto piacere incontrarla. Decise di limitarsi a questo e di evitare di chiamarla direttamente al telefono. Si sarebbe tenuto quella carta da giocare in caso di mancata risposta su Facebook. Sempre che il numero non fosse cambiato.

Un clic e il cellulare si oscurò. Raccolse una copia dell’Evening Standard dalle mani di un buffo strillone e si diresse verso l’albergo.

Fece una sosta nell’emporio 24 Hours che stava di fronte al suo Oxford Hotel: prese quattro lattine di John Smith’s in ricordo dei vecchi tempi e corse dall’altra parte della strada. Era un peccato che quella birra non ci fosse in Italia.

Dopo una breve pausa, stava ricominciando a piovere.

«Room number 26»

L’invito dell’elegante indiano alla reception non fu preso troppo bene da Filippo, che lo fissò per qualche minuto con un filo di arroganza.

«Che cazzo vuoi? –  pareva chiedere lo sguardo indispettito del tizio dell’albergo – Non ce l’abbiamo il fattorino. Te la porti da solo la valigia!»

Pagava il partito. Bisognava accontentarsi di quello che passava il convento. Anzi, il partito.

Quando un simpatico cartellino rosa con scritto Lift out of order. We apologise for any inconvenience gli sventolò davanti agli occhi, tornò dall’indiano, che strinse le spalle e chiosò: «Second floor»

Era troppo stanco per mettersi a discutere. Anche perché ci sarebbe stato poco da aggiungere. Certo, che problema c’era? Due piani di scale a piedi non avevano mai fatto male a nessuno, figurarsi a uno sportivo come lui.

La camera era tutta tappezzata di moquette blu fiordaliso, come quella che aveva calpestato anni prima nella sua vecchia camera londinese. Disgustosa, ma almeno accogliente. Ebbe come un déjà-vu, una foto scattata dal profondo del suo rimosso. Cercò di non farci troppo caso.

Quando si trovò seduto sul letto, immerso nel silenzio dei minuti che passavano, si sentì quasi prendere dal panico. E mandò giù una di quelle pastiglie. Iniziava a inghiottirne un po’ troppe.

“Pazienza”, pensò.

I sensi di colpa, in quel periodo, andavano calando, in modo inversamente proporzionale alla frequenza delle pastiglie.

Si sciacquò la bocca con una lattina di John Smith’s, solo per lasciare il tempo alla chimica di fare il suo lavoro. Poi, rovesciò tutto il contenuto della valigia sul letto, si denudò, indossò un paio di pantaloncini, la maglia termica e via. Sfrecciò davanti all’indiano in modo talmente veloce che quello si spaventò. E corse per mezz’ora circa, a caso, senza direzione, prima di rientrare in hotel.

Fece i due piani di scale in meno di dieci secondi, rientrò nella room 26 e si addormentò sotto una doccia bollente.

                —————————————— — ——————————————-

Il mio nome è Alberto Iotti.

Ho conosciuto Filippo in occasione dell’articolo da me scritto e pubblicato sul Corriere della Sera il 10 marzo scorso.

In questo lungo periodo di solitudine, non ho fatto altro che pensare a lui. E come poteva essere altrimenti – direte voi – visto il rumore che quella strana intervista ha creato?

La sua vicenda mi ha colpito moltissimo, tanto da spingermi ad andare oltre, ad approfondire. Grazie a mia cugina Aurora, che è la sua donna, oltre a rappresentare il personaggio decisivo di tutta la vicenda, sono riuscito quindi a fare un po’ di luce sul suo passato. E sulle circostanze che lo hanno portato a diventare uno degli italiani più famosi all’estero.

Il pezzo uscito sul Corriere parlava del suo dramma. Qui mi sono concentrato sui giorni che hanno preceduto quel momento: avevo bisogno di un più ampio respiro, di uno spazio potenzialmente infinito, che non fosse limitato dal numero di battute che devi rispettare su un giornale.

Ho quindi ricostruito con grande attenzione i suoi spostamenti, dal momento in cui è atterrato in Inghilterra ed è entrato nella stanza 26 di un anonimo hotel di West London.

Rendere conto del suo frenetico vagabondare, durato praticamente cinque giorni, mi ha ribadito quanto siano imprevedibili le trame ordite dal destino e quante storie personali si intreccino dietro la Storia, quella con la -S maiuscola.

In effetti, le prossime righe raccontano gli sviluppi di due vite, che prima corrono una addosso all’altra fino a scontrarsi e prendersi stupendamente a braccetto; poi, si lasciano in modo traumatico; infine, dopo anni e percorsi alieni, tornano a convergere una dentro l’altra. Non per caso eh! Ma perché si sono cercate, lo hanno voluto.

A quel punto, quando la dinamica centrifuga di queste storie potrebbe rimettersi in moto e farle di nuovo separare, interviene la Storia – quella con la -S maiuscola appunto – e le tiene forzatamente insieme.

In tutto ciò, penso di aver capito che la vicenda di Filippo e di Aurora sia molto di più che una love story. A me è sembrato di trovarmi di fronte a un paradigma, un vero caso esemplificativo del tempo che stiamo vivendo. Un tempo fatto di cambiamenti sociali, di politici senza scrupoli, di nuove migrazioni, di vecchie guerre, di inattese pandemie.

Di conseguenza, mi auguro che le pagine che seguono possano stimolare qualche riflessione su questi temi e sul fatto che tutti, nessuno escluso, rischiamo di finire incastrati in qualcosa di più grande di noi, a volte per casualità, altre per necessità o ambizione. Oppure, semplicemente, perché siamo ingranaggi inconsapevoli della Storia.

Prima di continuare con i fatti, voglio rapidamente ringraziare sia Aurora che Filippo per la disponibilità a condividere con me il loro vissuto, che ho cercato di riportare fedelmente, mantenendo pensieri e punti di vista dei legittimi proprietari. Soprattutto, voglio esprimere loro la mia gratitudine per avermi fatto ricordare una santa verità: quando vi dicono che, nella vita, non si sa mai che cosa vi aspetta, non rideteci sopra! È la più concreta e terrificante delle realtà.

Cap. 2

Il risveglio di Filippo fu improvviso. Quanto aveva dormito? Dieci minuti? Mezz’ora? Due giorni?

La doccia era ancora bollente. Ma lui aveva freddo.

Iniziò a tossire, ma non ci fece troppo caso. Pensò che una sigaretta lo avrebbe aiutato.

Si rivestì svogliatamente e guardò l’orologio: le sette meno un quarto.

Che fare? Rimanere chiuso in hotel a lavorare sul report che stava preparando, magari accontentandosi dei rimasugli di un sandwich preso all’aeroporto? O uscire e prendersi una serata di svago in quella che era stata la sua città?

Vinse la voglia di aria, forse anche per quella tosse che la polvere imprigionata nella moquette sembrava aver scatenato.

Fuori, non pioveva più. Anzi, il cielo si era sbarazzato dei suoi toni più grigi e, dalle poche nuvole basse, filtravano le luci di un tramonto viola. Non faceva affatto freddo; anzi, si iniziava ad annusare l’aria di primavera.

Filippo seguì la scia della sirena di un’ambulanza per ritrovare l’orientamento: dalla porta dell’hotel, si incamminò verso la via principale della zona, Earl’s Court Road. Il richiamo della sera, con i suoi suoni e i suoi odori, veniva da là.

Per mangiare c’era l’imbarazzo della scelta. Senza fare troppa strada, Filippo optò per un’hamburgeria vicino alla fermata della metro.

Quando si rese conto che questa faceva parte della catena Byron, ebbe un sussulto: gli parve proprio di ricordare che, anche nel 2014, appena sbarcato in UK, aveva fatto cena in un ristorante di Byron.

Mentre studiava il menu, non poté trattenere un sorrisino per la curiosa ricorrenza.

All’epoca, sei anni prima, la cena da Byron era stato un errore da pivellino inesperto della città. Se sei un neo-arrivato a Londra con poco cash per le mani, come era lui, presentarsi da Byron non è la migliore delle idee: diciamo che ci sono in giro hamburger a prezzi molto più accessibili. E, in effetti, Filippo rammentava di aver appreso subito la lezione, non ripetendo il madornale errore: per gli hamburger dei giorni seguenti, aveva virato sul ben più accessibile McDonald’s, visto che là si trovavano ottime offerte anche a due sterline. Due Pounds contro i 10-15 che richiedeva Byron per sedersi a uno dei suoi tavoli: non c’era partita.

Nel 2020, sapeva di non avere quel genere di problemi: avrebbe strisciato la sua Mastercard, senza neanche curarsi del conto. Pagava il partito.

Quella sera, in realtà, non arrivò neppure a prenderlo in considerazione, il conto. A metà della solitaria cena, quando sembrava essersi assopito sull’amaca del passato, fu infatti travolto da quell’improvvisa ondata di ansia che lo tormentava negli ultimi tempi. Iniziò a sudare, rendendosi conto che non riusciva più a focalizzare l’attenzione sui vecchi ricordi. In effetti, non riusciva più a focalizzare l’attenzione su nulla che lo circondasse. Nella sua mente, si era affacciata la sagoma ombreggiata della tabella del suo report. E stava là, a richiamarlo all’ordine: niente distrazioni, non era una vacanza quella!

Si trovava in Inghilterra per lavoro, un lavoro molto importante. E doveva portarlo a termine. Doveva portare a termine il dannato report per l’appuntamento del giorno dopo.

Lasciò nel piatto il suo panino a metà, andò a pagare e scappò via, con due chips grondanti ketchup che gli spuntavano dalla bocca. Salì nella camera 26 di corsa, contento che l’ascensore fosse fuori servizio: gli avrebbe fatto solo perdere tempo, l’ascensore.

Accese il computer, spense il telefono, per allontanare ogni forma di distrazione, e aprì il file su cui stava lavorando da settimane. Per un attimo, lo sguardo si perse nel mare di pixel.

Poi, Filippo si diresse verso il cassetto della scrivania, ne estrasse la boccettina gialla e mandò giù una di quelle pasticche. Si chiamavano Adderall e…sì, ne stava prendendo un po’ troppe nell’ultimo periodo. La sagoma della pastiglietta, così come avvenuto poco prima con il menu di Byron, riaprì con una certa ironia la porta del suo passato londinese.

Com’erano lontani quei tempi in cui una sostanza veniva presa per sballarsi o al massimo per rilassarsi!

Nel suo presente, il concetto di sballo e quello di relax erano diventati molto sfocati. Non c’era più il tempo, non c’era più nemmeno la voglia.   

Lavorare, lavorare, lavorare!

Stop.

……continua

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Marco Doddis
Nato a Torino alcuni decenni fa (non troppi, a dire il vero), Marco Doddis si è formato e lavora nel campo della comunicazione. Nel tentativo, spesso disperato, di rendere le proprie passioni dei lavori, ha fatto il giornalista, il telecronista, il bibliotecario, l’insegnante. Da alcuni anni, si occupa a tempo pieno di televisione. Ha diretto tre cortometraggi e pubblicato due romanzi. Il terzo, "Anche a Londra c’era il sole", è stato partorito dopo un’intensa esperienza di vita nella capitale inglese. Nel tempo libero, segue lo sport, cercando di imitare le gesta dei suoi vecchi idoli (con esiti rivedibili). Ama leggere, viaggiare, conoscere culture diverse e guardare film. E fare il papà.
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