Dapprima furono le dita.
Si mossero lentamente, in maniera scoordinata. Non sembravano neanche le sue. Toccavano qualcosa di liscio, di umido, di viscido. Di viscido, sì. C’era qualcosa di duro e freddo sotto le sue dita, ora lo sentiva.
Poi arrivò l’odore. Come uno schiaffo inaspettato, per un momento spinse al massimo tutta la linfa vitale che aveva dentro di sé verso tutte le sue terminazioni nervose.
Conosceva quell’odore. Sì, lo conosceva, ma non lo riconosceva. Era un ricordo antico, sapeva di muffa e di polvere. Era l’odore dell’abbandono, delle cose dimenticate, lasciate a sovraccaricarsi di tempo immobile.
Provò ad aprire gli occhi. Aveva macigni sulle palpebre.
Riprovò. Impegnò tutta se stessa nell’impresa. Una lievissima fessura squarciò l’oscurità per un istante, mostrando una versione incomprensibile e sfocata del mondo. Non aveva una benda. Erano palpebre, le sue palpebre molto pesanti.
Il terrore la inghiottì come un serpente con la sua preda. Voleva piangere, ma non ci riuscì. Voleva gridare, ma il terrore le impedì anche quello.
Restò completamente immobile ancora per alcuni istanti. Gli occhi chiusi. Respirò profondamente e sentì una fitta al torace. Forse era stata picchiata. Forse l’avevano rapita e ora era nascosta da qualche parte. In un posto umido e freddo e che sapeva di polvere e muffa.
Una cantina
Un sotterraneo
Una caverna
Non ricordava niente. Era viva e respirava. Questo era l’importante adesso. Ancora qualche istante e avrebbe di nuovo provato a sollevare le palpebre. Poteva farcela. Doveva farcela. La paura che l’aveva resa viva per un momento ora stava di nuovo cedendo il passo a qualcos’altro. Era stanca, terribilmente. Ancora pochi istanti e avrebbe riprovato. Aveva sonno.
Non è una benda
Mi hanno drogata
Ancora una meteora di consapevolezza mentre lentamente scivolava via, in uno spazio informe e voluttuoso, denso e scuro che entrava dentro di lei e ri-usciva per inghiottirla di nuovo. Era una massa informe rassicurante e superiore, lontano da quell’incubo che non comprendeva, ma spietata e terrificante, verso un futuro che rimaneva ora impalpabile e sconosciuto. Stava per cedere.
Poi sentì la voce.
«Svégliati».
Prima parte
Possiamo chiudere con il passato, ma il passato non chiude con noi.
William Shakespeare
CAPITOLO 1
ORA. CAMILLA
«Va bene, sabato no, che ne dici di venerdì sera, allora? Verranno anche gli amici di Claudio, sono uno spasso… Claudio ha già ordinato il vino e le bistecche, speriamo che non piova come l’ultima volta! Se il meteo promette bene apparecchiamo in giardino così posso sfoggiare le lanterne che ho comprato a Mydraks la scorsa estate… Ti prego non puoi mollarmi!»
Lo disse così, tutto d’un fiato, con i seni ancora scoperti davanti all’armadietto, mentre si raccoglieva i capelli in una coda che avrebbe dovuto nascondere lo sforzo dell’ultima ora di allenamento intensivo nella palestra che frequentava da anni, e in cui, ovviamente, aveva trascinato anche lei. Ma in fondo Camilla le piaceva proprio perché era così, disinvolta, mondana, iperattiva, sempre con le mani in pasta in qualche festa o club all’ultimo grido in cui, con poco successo, tentava sempre o quasi di trascinarla. E lei le voleva bene così com’era. Un vulcano in piena attività, capace di farla ridere e ricordarle che aveva ancora tante cose per cui valeva la pena vivere.
«Va bene Cami, ci penserò…»
Disse lei con un sorriso mentre sistemava la borraccia e le scarpe da ginnastica nel borsone, pensando già a cosa avrebbe dovuto inventare per trascinarci anche Dado.
«Ehi, bella cavallerizza» disse Camilla con le mani sui fianchi e i seni ancora al vento ammiccando ironicamente al vestito che indossava l’amica abbinato a un paio stivali fino al ginocchio dalle fibbie pesanti che diceva sempre le ricordavano le cavallerizze dei rodei. «Non stai cercando di rinunciare perché è uno di quei periodi, vero?» chiese storcendo la bocca carnosa in una smorfia che avrebbe dovuto simulare il dispiacere di una bambina, ma che nel contesto ebbe un risultato finale tra il ridicolo e il grottesco.
«No, stai tranquilla, non è uno di quei periodi» disse lei continuando ad aprire e richiudere la cerniera del borsone per non doverla guardare negli occhi.
uno di quei periodi
Ritornavano in fasi brevi e intense, quei periodi. Si chiudeva in se stessa, parlava poco, si teneva occupata con hobby che richiedevano impegno manuale per scacciare dalla mente i ricordi che prepotentemente cercavano ancora di fare capolino. Implacabili e spietati. Troppo dolorosi per lei. Bocconi troppo grandi per essere digeriti. Non riusciva a credere che prima o poi, con l’aiuto della psicologa, avrebbe anche potuto conviverci. Ma ci provava, tra una seduta e l’altra, tra un allenamento e l’altro. Tra il lavoro, Dado, le trovate di Camilla. Oh se ci provava. E ci metteva tutta se stessa.
«Ho un vestito verde che non ho ancora avuto l’occasione di mettere… Magari sta bene con gli stivali da cavallerizza…» disse sorridendo mentre rialzava la testa.
Camilla sorrise e strizzò l’occhio mentre si allacciava il reggiseno. Era il suo modo per ricordarle che lei c’era.
Sorrisero entrambe, per un momento.
*
Davide era chino sulla scrivania dello studio, che più che uno studio era una stanzetta di pochi metri ricavata tra il bagno e la camera in cui a malapena entravano la scrivania, un mobile per la stampante e una piccola libreria di legno bianca. Ma era il loro studio, nel loro piccolo appartamento. Il piccolo rifugio dal cinismo e dalle bruttezze del mondo esterno in cui rintanarsi sempre a fine giornata come un criceto al caldo nell’ovatta.
Quando la sentì entrare sollevò il capo e le sopracciglia, con gli occhiali in bilico sulla punta del naso e le dispensò un sorriso onesto come solo lui sapeva fare.
«Non dirmelo» disse Davide. «Cami ha organizzato una festa. Me lo ha detto Claudio. Dio, quella ragazza non sa proprio come occupare il tempo! Dovrebbe provare a lavorare ogni tanto…» Raccolse con un ghigno alcuni fogli dalla scrivania e li posizionò ordinatamente accanto al computer.
«Lo sai che ogni tanto dobbiamo anche dirle di sì, vero?» disse lei mentre lo abbracciava da dietro e sprofondava con la faccia in quella schiena fatta di sicurezza e prospettive.
Davide le prese la mano, si girò mentre la intrecciava alla sua e le stampò un bacio sulla fronte che sapeva di condiscendenza e affetto.
Si guardarono per qualche istante. Tra loro aleggiava ancora il sapore della tenerezza dei primi tempi, arricchito dalla solidità di chi conosce gli incubi dell’altro e lo abbraccia di notte quando sente che sta piangendo.
quegli incubi
Il suo Dado era così: vero, onesto, rassicurante. La capiva e la proteggeva. La spronava e la rimproverava. E lei pensava che niente al mondo avrebbe mai cambiato questa certezza. Quando lei aveva uno di quegli incubi, così, senza preavviso, nel mezzo di una settimana di apparente e rassicurante routine, si svegliava madida di sudore, spaventata, incapace di distinguere il sogno dalla veglia. L’affanno che provava in quei brevi istanti prima che si accorgesse di aver sognato, di nuovo, sapeva di agonia. Di passato.
Stavano insieme da qualche anno; abbastanza da conoscere le debolezze l’una dell’altro, non abbastanza da sapere se il passato avrebbe potuto infrangere le vetrate limpide della loro storia come un’onda violenta si abbatte su un faro in mezzo al mare. Senza pietà.
*
Nello studio ingiallito dalla luce del primo pomeriggio l’orologio ticchettava come una bomba prossima all’esplosione.
Le lancette si aprivano in spaccata come una ballerina nel finale del suo saggio di danza. Mancavano quindici minuti alle quindici, l’ora di terapia era quasi finita. Di nuovo.
Incastonati sullo sfondo di una carta da parati grigio chiaro spuntavano sospesi e leggeri piccoli quadretti di nature morte dipinte ad acquerello.
Stagliata su quello sfondo ordinato, la dottoressa Simoni prese una lunga pausa.
Con gli occhi schermati dagli occhiali cromati viola correva veloce sugli appunti di quella seduta faticosa e ridondante. Di lì a breve avrebbe snocciolato la frase di chiusura finale rassicurante che tutti i pazienti si aspettano di sentire. Almeno, questo era quello che si aspettava.
Graziana Simoni era una donna di mezza età dal corpo esile, le gambe sottili sempre accavallate in pantaloni chiari che variavano dall’avana, al beige, al marrone pallido, e lasciavano intravedere caviglie esili e piedi sottili, cinti in mocassini di camoscio eleganti e asciutti. Una donna pratica, ma dalle grandi idee. Una donna di quelle che si direbbe ‘sapeva il fatto suo’. Una vita dedicata alla psicologia, ai seminari, agli istituti, ai centri di accoglienza. Capelli castani corti e sottili ordinatamente si raccoglievano dietro le orecchie e si fissavano precisi dietro le stanghette degli occhiali a ricordare al mondo che non amava troppo i fronzoli. Un leggerissimo filo di trucco per rendere presentabile una pelle matura e ben tenuta. Ormai una sicurezza, dopo tutti quegli anni passati a raccontarle quelle cose. Sempre composta e gentile, mai rigida. Educata, ma non sdolcinata.
«Cosa li ha scatenati di nuovo, secondo lei?»
Dicendo così, la Simoni aveva interrotto quella pausa abituale in cui i pazienti si crogiolano in attesa della rassicurazione finale.
«Io…io non lo so. Io mi sono svegliata… era come se fossi lì… insomma, era tutto così reale… Io ultimamente non credo di avere avuto eventi per cui…insomma…che giustifichino il fatto di rifare gli incubi…Stavolta era diverso però, era più…come un presagio…»
«Lei è una donna piena di risorse. Lavora, fa attività fisica, ha degli amici, una relazione stabile. Qualcosa ogni tanto scava dentro di lei e riporta alla luce frammenti depositati nel suo inconscio, lo abbiamo già detto tante volte. Opporsi non risolve nulla. Abbiamo fatto notevoli progressi negli ultimi tempi, non si arrenda proprio ora. Non si deve allontanare dalla strada che porta a rinascere».
Rinascere
Infine sollevò le spalle come dopo aver finito un lavoro soddisfacente.
«Va bene, per oggi abbiamo terminato. Scrive ancora quei suoi pensieri come avevamo detto?»
«Sì, dottoressa».
«Bene, allora ci vediamo la settimana prossima».
La dottoressa Simoni chiuse il taccuino con un movimento rapido del polso, sfilò gli occhiali e le sorrise.
Lei tirò un sorriso amaro mentre si sentiva sprofondare lentamente nella poltrona di pelle verde scuro e risucchiare lentamente in una dimensione parallela in cui si rimpiccioliva verso lo sfondo della carta da parati, come se diventasse anche lei uno di quei quadrucci ordinati. Di lì a poco sarebbe uscita dallo studio della dottoressa e avrebbe ripreso la sua routine quotidiana, ma una parte di sé insisteva per sapere se gli incubi fossero definitivamente tornati.
CAPITOLO 2
ALLORA. BEA
«Credi sia ancora vivo?»
Rannicchiata sulle ginocchia con i capelli setosi del colore del miele arpionati maldestramente dietro l’orecchio, Bea sembrava la divinità implacabile di un’altra epoca. I capelli lucenti continuavano ribelli a ricaderle sul viso nascondendone il naso e gli occhi. Il braccio destro ero disteso per punzecchiare con un legnetto quella creatura esanime con l’occhio vitreo che le fissava dal terriccio scuro, il braccio sinistro poggiato in grembo, sul leggero vestito color sabbia a fiorellini neri che lasciava intravedere le ginocchia sbucciate. Bea era sempre bella ed elegante, qualsiasi cosa facesse, anche con le ginocchia sbucciate. L’eleganza le apparteneva come un sigillo, un talento con cui si nasce; o la si ha o non la si ha. Lei l’aveva da sempre, da quando, sin da bambine, lanciavano sassi nel lago per vedere chi li mandasse più lontano. L’aveva quando tutta sporca di terra giocavano ad arrampicarsi sugli alberi del bosco di Annosa. E l’aveva ora, a quattordici anni, quando rideva sguaiata con i ragazzi mentre li imbambolava scostando i capelli con un gesto della testa e otteneva da loro favori e complimenti. Bea, al secolo Beatrice Casolari, figlia dell’ingegner Ugo Casolari, rinomato e conosciuto in tutta Annosa, era bellissima, di una bellezza spontanea e pericolosa, e lei le voleva bene. La madre, una giovane modella canadese, l’aveva abbandonata a pochi mesi dalla nascita, emigrando all’estero per inseguire i suoi sogni. Bea non ne parlava mai, non ne valeva la pena, diceva.
Ma anche se la sua bellezza ispirava dolcezza e delicatezza, sapeva essere spietata, non aveva rimorsi e a volte si comportava male. ‘Tutta suo padre’ dicevano in paese, a voler sottolineare quei lineamenti forti ma bellissimi e l’indole affilata di chi non ha mai paura di perdere.
Madre natura l’aveva dotata di un corpo slanciato e magro, lunghi capelli chiari e lucenti e occhi verdi, dal taglio acuto e sospettoso. Era così incredibilmente affascinante.
Bea sapeva muoversi nel mondo, in quel mondo che a lei restava ancora spesso ostico e incomprensibile. Del resto l’amica aveva perso l’ingenuità molto tempo prima di lei e la guidava, in quel mondo, come una di quelle ragazze sfacciate di cui tutti parlano, ma che anche un po’ invidiano.
In fondo anche Bea le voleva bene, ne era certa.
Erano cresciute insieme, i loro padri si conoscevano bene, il papà di Alma lavorava nella finanza e spesso collaborava con l’ingegner Casolari per questo o quel progetto. Alma non immaginava la sua vita senza l’amica. Certo, a volte entravano in contrasto per quei suoi modi un po’ poco delicati con cui la scherniva di fronte agli amici, ma che lei, perdonava sempre. Perché Bea era una divinità un po’ selvaggia e indomabile, questo era il suo sigillo. E con i talenti ed i sigilli, non si può fare niente.
«Allora, credi sia morto? Non si muove» disse titubante lei.
«La smetti di tartassarmi? Sì» sentenziò la dea spietata dai capelli di miele con uno sbuffo che le spostò la ciocca di capelli da davanti agli occhi. «È decisamente stecchito».
Il corvo giaceva ricurvo su se stesso, un’ala aperta come un mantello, il becco di lato. Piccole colonne di formiche facevano la spola tra l’essere e mucchietti di terra.
Bea spingeva il legnetto sulla pancia rigonfia dell’animale dondolandosi in equilibrio sulle gambe rannicchiate. Lei provava un leggero disagio e avrebbe voluto dirle di smetterla, come se il povero animale avesse potuto ancora sentire una qualche sorta di dolore, o come se dovesse portargli rispetto, quel rispetto che i suoi tanto tenevano ad insegnarle. Poi Bea le gettò uno sguardo rapido. Gettò il legnetto e si alzò di scatto.
«Basta è tardi, devo incontrare Nano, andiamocene, non voglio presentarmi sporca di terra» disse piroettando su se stessa come una ballerina che esce di scena.
Pamela Fanciulli (proprietario verificato)
“Aura Oscura” di Roberta Bucci è uno di quei romanzi che ti cattura sin dalle prime pagine e ti tiene incollata fino all’ultima parola. Non capita spesso di leggere quasi 500 pagine in meno di due giorni, eppure è esattamente quello che mi è successo: l’ho letteralmente divorato.
La trama è avvincente, intensa, con un intreccio di personaggi profondamente umani, ognuno con la propria ombra e luce. Roberta Bucci ha la rara capacità di dare voce e spessore a ogni figura che popola il suo mondo narrativo, al punto che – arrivata alla fine – ho provato un senso di vuoto. Non solo perché la storia principale era finita, ma perché avrei voluto continuare a vivere tra le pieghe delle vite dei personaggi secondari, scoprirne i retroscena, seguirli nei loro percorsi individuali.
C’è un buon equilibrio tra mistero, emozione e introspezione. Ogni evento, ogni colpo di scena, è ben calibrato e mai forzato, e questo rende la lettura ancora più coinvolgente. Mi sono “affezionata” ai personaggi, alle loro fragilità, alle loro scelte – anche a quelle sbagliate – perché così autentici da sembrare reali.
“Aura Oscura” è un libro che resta. Resta nella mente e resta nel cuore per la profondità delle emozioni che riesce a trasmettere. Lo consiglio a chi ama le storie intense, i legami profondi e i romanzi capaci di lasciare il segno.
Ora non mi resta che sperare che Roberta Bucci ci regali un seguito.