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Calcare, Cronache da Nordest

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Gianca, Alan, Sandro e Caio sono nati a Trieste. Figli di madri assenti, sono cresciuti nei quartieri popolari. In casa, niente è più definitivo del provvisorio, la rabbia si tramanda di padre in figlio come fosse un’eredità, i soldi non ci sono mai, la città è una gabbia piena di vecchi dalla quale fuggire e la musica metal diventa l’unica possibilità di riscatto da un mondo che vuole costringerli a fare solo un lavoro inutile. Calcare. Cronache da Nordest è suoni devastanti, alcol, concerti abusivi nelle grotte del Carso, Carabinieri, pentoloni di Grand Pumpel, retate della Finanza sulla spiaggia, serate da coma etilico e perquisizioni in piazza. È rabbia che vibra sotto pelle, con le spille da balia nelle guance e gli autofilettanti nelle orecchie. È la ricerca costante di qualcosa che nessuno sa cosa sia, ma che manca come l’aria.

INTRO

Tom Araya va a messa tutte le domeniche. L’ho letto su Wikipedia. Magari non è una notizia, ma io non lo sapevo.

Dopo diciotto dischi con gli Slayer, Tom Araya dichiara che è diventato un cattolico praticante. Non c’è niente di male nel diventarlo. Ma se per tutta la tua vita hai diffuso nel mondo la cultura delle croci alla rovescia, vendendo dieci milioni di dischi, ispirato assassini come le Bestie di Satana a fare sacrifici umani nei boschi del Varesotto e inneggiato ai valori del diavolo e del nazismo, vuole dire che qualcosa nel tuo cervello è andato storto.

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E forse anche nel nostro che gli siamo andati dietro. Il metal, con tutte le sue declinazioni, è stata una rivoluzione che in realtà non ha mai detto niente di niente. I concetti erano spesso maldestri, banali, niente di poetico o generazionale; i testi inneggiavano a feste, alcol, donne, droga e follia, osannavano il Male come simbolo, qualcosa che poi nemmeno gli autori delle canzoni conoscevano esattamente, ma andava bene così. Erano suoni devastanti, tutto il resto lo faceva la gente. Le band avevano le maschere, i capelli lunghi, il rossetto e i musicisti andavano sul palco vestiti e truccati come in una messa in scena.

In effetti lo era.

Poi sono passati tanti anni, il rossetto e le maschere sono spariti, è crollato il Muro di Berlino, anche le Torri Gemelle e noi siamo tutti cresciuti, compreso Tom Araya che ora di anni ne ha sessanta suonati.

Ma i ricordi sono rimasti.

A Nordest, negli anni Ottanta, nasceva parte dell’heavy metal italiano (gli Steel Crown di Sunset Warriors, Discomagic, Milano 1987). Centinaia di giovani suonavano uno strumento. La scena rock pulsava di talenti e decine di gruppi cercavano di affermarsi. Era la rabbia di una città di provincia dimenticata da tutti, dove non succedeva mai niente di niente.

Poi, in realtà, trent’anni dopo, qualcosa è successo. Qualcosa che nessuno si aspettava. Qualcosa che stava tra la vita e la morte e non aveva una ragione.

Un mistero che faceva pensare.

Per questo avevo ricevuto quella telefonata.

Non ci sentivamo da più di vent’anni, non sapevo nemmeno dove fosse finito e lui ha esordito con un: «Dovemo scriver’ un romanzo. Go tuto in testa».

Abitava ancora nella stessa palazzina, allo stesso numero, nella stessa via. Quando ci siamo seduti al tavolo della sua cucina, io ho aperto il Mac e lui ha iniziato a raccontare quella che alla fine è stata la storia più assurda che avessi mai sentito.

Una storia che comincia più di trentacinque fa, all’inizio di tutto.

I protagonisti di questo romanzo non sono degli eroi.
Tutti i fatti narrati sono realmente accaduti.
(Nulla che si muove è innocente.)

PHANTOM CITY
1987

TRUST, ANTISOCIAL

Giovedì sera. Teatro Romano.

La città colava acqua.

Sotto un cielo di nuvole grigie, due metallari risalivano corso Italia imboccando via del Teatro Romano. Le Converse schiacciavano pozzanghere piatte come chi, in quella città, ci viveva da sempre.

Una città immobile, tranne per la polizia.

«Documenti» disse uno dei due uomini in divisa appena sceso dalla volante. Non li aprì nemmeno. Fece girare quelle due carte d’identità lacerate con una mano. «Tirate fuori il fumo.»

«Non abbiamo niente» rispose Sandro.

«Seee…» ironizzò quello.

«C’è qualche problema?» chiese l’altro. Dietro di lui, il Teatro Romano in rovina sembrava fosse stato bombardato. L’uomo seguì con lo sguardo un gatto bagnato sparire nella boscaglia, poi si voltò di nuovo verso i metallari. Fissò la croce alla rovescia disegnata sulla toppa degli Slayer. «Ma come vi vestite? Con tutte queste cazzate di Satana… Ma perché non vi tagliate i capelli e andate a lavorare?»

«Io non lavoro, sono un musicista» rispose Sandro.

«Eh, certo, cosa potresti fare? Perché non hai ancora capito niente della vita. Con quei capelli poi… sembri il cane di mia cugina!»

«Io sono libero di vivere la vita che voglio. E se non me la danno, me la prendo.»

Partì uno schiaffo che girò di novanta gradi il volto di Sandro.

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Commenti

  1. I protagonisti di questo romanzo, che ha tutte le caratteristiche del romanzo storico, non sono i personaggi.

    Il vero protagonista è un flusso impetuoso fatto di musica da sala prove e di concerti più o meno ufficiali, sesso consumato senza interesse nè passione e di tanto alcol consumato ossessivamente, come anestetico contro ansia, fastidio, irritazione.

    I personaggi galleggiano trasportati in questo flusso, urtano tra loro, incrociano ostacoli, spariscono sotto la superficie e riemergono, tanto più sconvolti e irriconoscibili, quanto uguali a prima.

    Decidono poco del loro destino e quando ci riescono lo fanno in maniera scomposta, ritrovandosi puntualmente al punto di prima, ancora più frustrati e insoddisfatti.

    La loro forza è alimentata dai sogni di libertà e dal rifiuto di accettare il sistema, sistema da cui vengono regolarmente schiacciati a ogni tentativo di opposizione.

    C’è poesia nella loro disperazione, una poesia maledetta che l’autore avrebbe potuto illuminare di più, spremere ancora i tessuti fatti di sofferenza, i personaggi avrebbero sicuramente dato e detto altro di loro.

    Con dei personaggi più delineati ci si sarebbe addirittura potuti affezionare, sarebbero potuti restare maggiormente nella memoria visiva del lettore, diventare veri protagonisti, nonostante la loro impontenza di fronte ai loro destini e le loro miserie.

    La città è la co-protagonista del romanzo, descritta con molta cura, riportando dettagli precisi, percorrendo vie e descrivendo palazzi, evocando sensazioni legate a clima, atmosfere, suoni, viste, apprezzabili da chi la città la conosce e la vive e stimolante per chi voglia farci un giro per la prima volta.

    I dialoghi sono per la quasi totalità in dialetto triestino, scelta molto audace ma obbligata: i personaggi dell’epoca non si sarebbero potuti esprimere diversamente.

    Leggendolo con regolarità ci si abitua, la musicalità del triestino entra in testa e la lettura diventa scorrevole.

    La speranza è che l’autore decida di mettere su carta altre memorie e sensazioni della sua città di origine, dopo questa opera prima imponente, viste le oltre 400 pagine, e coraggiosa, viste le immagini crude e senza censura.

    E’ un libro da comprare e leggere, con una storia che descrive anni per i quali sarebbe difficile dire “si stava meglio quando si stava peggio”, in una tendenza dei giorni nostri ad esaltare il passato nei confronti di un presente che ci sembra vuoto, specialmente quando la retorica investe e giudica le nuove generazioni.

    Nelle prossime trame di Massimiliano Rotti ci sarà sicuramente ritmo, i personaggi daranno trazione alla narrazione, ci saranno meno giri a vuoto, augurandoci di trovare la stessa durezza calcarea, la stessa genuina sincerità, alleggerendo dove si può alleggerire e calcando dove si può CALCARE.

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Massimiliano Rotti
ex musicista e tecnico del suono con venticinque anni di carriera nel mondo dello spettacolo, live e televisivo, è nato a Trieste negli anni Settanta, dove ha vissuto fino all’età di ventisei anni. Oggi risiede nella provincia di Como. Nel 2012 ha pubblicato una raccolta di racconti e Calcare. Cronache da Nordest è il suo primo romanzo.
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