Il mio nome riecheggia in questa tiepida mattina assolata. Siamo già a fine ottobre, ma a quanto pare anche qui l’inverno tarda ad arrivare. Bisogna che si sbrighi però, in valigia ho solo abiti caldi. Qualche giorno fa ho depredato la collezione autunno-inverno dei tailleur di una nota griffe e non vedo l’ora di sfoggiarli.
Ma… È me che stanno chiamando? Com’è possibile? Sono arrivata da soli due giorni e non conosco nessuno. Mi guardo intorno. Dall’altro lato del parcheggio un ragazzo alto e allampanato, mai visto prima, si sta sbracciando allegramente e mi fa segno di avvicinarmi.
Deve avermi scambiata per un’altra persona. Con il mio stesso nome? Che coincidenza… Mi avvicino aspettando un qualche gesto di scusa, che non arriva. Vista la sorpresa con cui lo squadro e visto che non muovo un altro passo, canzonatorio aggiunge:
Ma io non ho incontrato nessun Luca, chi diamine sei e perché sai queste cose di me?! Con fatica metto insieme le informazioni. Presa dall’euforia di firmare un contratto di lavoro, un vero contratto, a cui corrisponde una vera busta paga, prima nemmeno ho alzato gli occhi dal foglio. In effetti, ora che ci penso, ho sentito che nel gruppo c’era una seconda persona destinata alla mia stessa fantomatica via Bizzozzero. Quindi l’unica ipotesi plausibile è che questo sia il collega assegnato con me al Main Accreditation Center.
“Non si sale in macchina con gli sconosciuti!” tuona la voce di mia madre nelle orecchie. E se fosse un maniaco? Un serial killer? Un qualsiasi matto di quelli che ho l’innata dote di attirare? Perché insiste tanto per darmi un passaggio?
Ma oggi è il primo giorno della mia nuova vita ed è una bellissima giornata. Ho lasciato la mia città. Ho lasciato il mio fidanzato storico. Ho lasciato gli esami di chimica – con tutti gli annessi e connessi. Sto iniziando una nuova avventura, voglio essere positiva. E poi questo tizio non sembra affatto pericoloso, anzi. Sembra più una cicogna a dire il vero… o un airone, un airone che si è appena schiantato al suolo in fase di atterraggio! Il che spiegherebbe perfettamente il suo vistoso occhio tumefatto. Con quei capelli arruffati e la sua erre velare ha qualcosa di vagamente goffo e disarmante. È un tipo decisamente curioso, ma dai lineamenti gradevoli e un non so che di interessante.
Però un attimo, l’occhio nero non è esattamente un buon segno.
– “Tranquilla, non ho partecipato a una rissa ieri notte. Anche se mi piacerebbe raccontarti di essermi battuto per salvare l’onore di una damigella in difficoltà.” spiega serio, anticipando la mia domanda. “Ma la verità è solo che sabato scorso, al matrimonio di un amico, mi sono messo a fare il fenomeno con lo champagne e… mi sono sparato il tappo nell’occhio”.
Ride. Rido anch’io. Il suo buonumore è contagioso e mi ispira istintivamente fiducia. È vero, sta insistendo, ma in modo molto garbato. Senza neanche rendermene conto, abbandono l’atteggiamento difensivo e salgo in macchina.
Il MAC, centro della mia vita per i prossimi due mesi, si trova in una zona un po’ defilata rispetto alla città, vicino al Lingotto. Sono felice di scoprire che non dista troppo dal mio appartamentino e che, con una mezz’oretta di cammino, posso facilmente recarmi al lavoro a piedi. L’edificio è una specie di prefabbricato a forma di cubo, non proprio un’indimenticabile opera di architettura. Al piano terra stanno montando l’ufficio per il pubblico che aprirà più avanti. Al piano superiore, una distesa di scrivanie in un unico enorme openspace sarà il teatro cosmopolita in cui si incroceranno i destini della cinquantina di ragazzi che compongono la brigata. Nemmeno il tempo di fare le presentazioni che riceviamo il manuale integrale di “Procedures and policies” da leggere, insieme a un estratto di quelle da imparare a memoria. In inglese. Entro la fine della settimana. Poi saremo interrogati e catapultati nelle simulazioni di ogni sorta di situazione ordinaria o di emergenza: l’addestramento è già iniziato, durante il grande evento dovremo essere tutti in grado di cavarcela da soli.
La mattina successiva il mio nuovo capo mi chiede di preparare una tabella Excel in cui riportare una serie di dati. Una che? Io fino a ieri studiavo chimica. Al massimo organizzazione di eventi. So usare Word, Outlook, oggi lo sanno fare tutti. Ho anche fatto un po’ di pratica con Power Point, perché i professori ci davano alcune slide .ppt su cui studiare. Ma su Excel non so dove mettere le mani… E non mi sembra una buona idea rispondere al mio capo che non sono capace, alla prima richiesta che mi fa il primo giorno. L’unica speranza è che oggi l’airone schiantato confermi la disponibilità che ha dimostrato ieri. Mi avvicino titubante alla sua scrivania e chiedo a voce bassa:
– “Scusa Luca, mi hanno chiesto di fare una tabella Excel, io non l’ho mai usato prima. Tu avresti la possibilità di mostrarmi qualcosa?”
– “Sssshhhhh! Non farti sentire, vieni, parliamo altrove”.
Mi trascina al piano di sotto, dove c’è un distributore e inserisce le monete per un caffè.
– “Come sarebbe non sai usare Excel? – Di nuovo quel tono canzonatorio – Non te l’han chiesto alla selezione?”
– “No… Ma guarda che non era nemmeno menzionato nei requisiti necessari. Però ho sostenuto una parte di colloquio in inglese.” Aggiungo così, tanto per darmi un tono.
Riflette un attimo.
– “Allora, senti che facciamo: io ti imposto la tabella, tu inserisci i dati e poi però passi la giornata a smanettare, perché devi imparare al più presto. Se hai bisogno, mi chiedi, con discrezione. Non dire a nessuno che non sai usare Excel perché fai una figuraccia”.
Tornati su, si siede alla mia scrivania e anche oggi mi risolve la situazione. Poi si allontana con un cenno d’intesa. Direi che la prima impressione è confermata.
CAPITOLO 2
Microcosmo olimpico
I giorni scorrono veloci, faticosi ma interessanti: tutto è in fermento per le Olimpiadi che ormai sono dietro l’angolo. Entriamo che è ancora buio, usciamo che è di nuovo buio: solamente a pranzo ci concediamo una tregua, l’unica mezz’ora libera fino a tarda sera. Di tanto in tanto andiamo ciascuno con i propri amici: un sushi fra ragazze, un accenno di shopping. Più di frequente, con tutto il gruppo invadiamo il simpatico bar di fronte, dal nome evocativo: l’Happiness. I ragazzi al bancone ormai ci conoscono e ci coccolano. Non di rado ci salutano con un marocchino, un godurioso caffè macchiato con una generosa cucchiaiata di crema al cioccolato e nocciola. Forse era questo a cui pensavano i proprietari, quando hanno scelto il nome! Oppure avevano già intuito che per gli impiegati del cubo dall’altro lato del marciapiede sarebbe stato una vera oasi di pace.
Di solito mi piace spostarmi a piedi, ma a volte la stanchezza ha il sopravvento, così prendo l’autobus. È una sera di queste che lo incontro per la prima volta: in piedi accanto alle porte di uscita, un uomo dai tratti orientali e dall’età indefinita mi fissa insistentemente. Sulle prime penso di avere qualcosa fuori posto, ma no, è tutto in ordine. Per fortuna sono solo poche fermate: io scendo, lui continua verso il centro e l’imbarazzo finisce. Ma la sera seguente la scena si ripete identica. Sebbene mi sorrida gioviale, come a volere attaccare bottone, la mia apprensione è immutata: io non ho idea di chi sia. Con mio grande stupore, una mattina lo trovo alla pensilina dell’autobus sotto casa mia. Non riesco a spiegarmi cosa faccia qui, non è la fermata a cui scende di solito. Possibile stia aspettando me? Per scoprire a che ora esco di casa? Che pensiero sciocco, mica siamo in un film. E invece, appena uscita dal portone:
– “Hallo!”
Mi saluta gioioso, come se fossimo vecchi amici.
La situazione è alquanto bizzarra, ma non ho vie di fuga: forzo un sorriso e scelgo di restare guardinga, ma cortese. Durante il tragitto, in un inglese stentato, mi racconta che è un giornalista di Tokyo, inviato a Torino per seguire i Giochi e le fasi preparatorie. Alle sue domande incalzanti rispondo in modo vago, che anche io sono a Torino per i Giochi e che lavoro nell’organizzazione. Solo il momento di scendere, che arriva come una liberazione, mette fine al mio interrogatorio.
Ah, ma non mi lascio più cogliere impreparata: inizio a variare i miei orari di uscita e imparo a controllare dalla finestra del soggiorno se mi stia aspettando. Solo quando sono certa che ci sia via libera, scendo. Metto in pratica tattiche elusive degne di una spia del MI6. Una mattina, però, il James Bond che è in me non mi assiste: proprio quando mi accingo a festeggiare, convinta che l’appiccicoso seccatore abbia desistito… zac! Mi compare davanti. Salita a bordo, cerco di evitare il suo sguardo, concentrandomi su argomenti di estrema rilevanza: la sfumatura di colore del chewing-gum attaccato al finestrino, il font utilizzato per gli avvisi che esortano a reggersi agli appositi sostegni… Insomma, riflessioni di alta filosofia contemporanea. Un po’ come quando la professoressa scorreva il dito sul registro in cerca di una vittima da interrogare e tutti noi trovavamo urgenti questioni da risolvere sul fondo dell’astuccio.
– “Hallo!”
Arieccolo, penso tra me e me, alzando gli occhi al cielo.
– “Hallo…” rispondo rassegnata.
Il nostro eroe si fa infine avanti: con l’entusiasmo di un bambino, mi propone di andare con lui in centro e di mostrargli la città. Avrò capito male, complice il suo pessimo accento e il mio inglese non proprio fluente.
– “Guarda… io non sono del posto, la città praticamente non la conosco, mi dispiace, devi chiedere a qualcun altro”.
– “Non fa niente, mostramela lo stesso”
– “No, dicevo che non sono di Torino…”
– “Allora andiamo a fare una passeggiata al parco del Valentino”.
Siamo a posto. Il Parco del Valentino è uno dei luoghi più romantici di Torino: lungo il Po, con viali alberati e giardini curati. Il borgo medievale poi ha un’atmosfera suggestiva e raccolta, con viuzze di pietra, torri, porticati e angoli nascosti.
– “Ehm no, guarda, sto andando al lavoro.”
– “Dopo, quando hai finito.”
– “Finisco tardi.”
– “Un giorno che sei libera.”
– “Non sono mai libera, lavoro sempre.”
– “Quando finisci di lavorare.”
– “Quando finisco di lavorare, torno a Roma.”
Pazzesco, non molla! Non è palese che non sono interessata? Basta, da domani prendo la macchina.
La mattina dopo salgo in ufficio, appunto, con le chiavi dell’auto ancora in mano. Il dettaglio non sfugge alle ragazze:
– “Non dirmi che hai preso l’auto per evitare il tuo spasimante!” mi stuzzica Francesca, ad alta voce da qualche scrivania più giù.
Luca si volta di scatto, con improvvisa attenzione e mezzo sorriso sospeso.
– “E tu che ti chiedevi come mai non avessi ancora un caso umano attaccato alle calcagna… Eccolo!” aggiunge Christine.
Vittoria, detta Vichi, ribatte con il suo esilarante accento campano:
– “Ma quale caso umano? È un giornalista, un “buon partito”! Pure esotico, pensa a come faresti felice a tua madre!”
Mezzo ufficio ride. Le telefonate di mia madre non sono passate inosservate.
“Pronto Maria? Finalmente! Non rispondi mai a questo benedetto telefono! Lo sai che stamattina tuo fratello ha chiuso un altro contratto importante? Che bravo quel ragazzo, ha proprio sfondato! E tu cosa fai? Stai lavorando? Guarda che questa è la tua occasione, vedi di non sprecarla. Il conservatorio non l’hai finito, la laurea non l’hai presa, le lezioni di canto sono state un inutile dispendio di soldi e tempo. Bla bla bla… Mah, speriamo che questa sia la volta che combini qualcosa di buono. Ti stai vestendo elegante? Sei stata dal parrucchiere? Ti sei truccata? Speriamo che a Torino ti trovi un uomo presentabile, altrimenti cosa dico alle amiche del golf?”
Il tono più o meno è sempre questo, il tutto ad un volume tale che sarebbe impossibile non sentirla nemmeno da dietro al bancone dell’Happiness. Poi si domanda perché la maggior parte delle volte non le risponda al telefono o perché, una volta ricevuto il cellulare aziendale, non abbia voluto darle il numero.
[…]
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