Dora non ne poteva più di stare seduta tra i banchi di scuola. Guardò per l’ennesima volta fuori dalla finestra: quella mattina faceva freddo ma il cielo era nitido, sgombro di nuvole. Sbuffò ancora una volta e lasciò che la mente vagasse fuori dall’aula. Mancava poco a Natale, era il 16 dicembre del 1943. Quel giorno capì che c’era davvero la guerra e sarebbe stato per sempre il giorno dei biscotti, come lo avrebbe chiamato in seguito.
Quando suonò la campanella che segnava la fine delle lezioni, uscì dalla scuola e si diresse quasi di corsa verso casa, anche se le scarpe le facevano male, erano diventate strette ormai, ma non c’erano soldi per comprarne altre, la mamma aveva detto di avere un po’ di pazienza.
Non vedeva l’ora di mettere qualcosa sotto i denti, lei aveva sempre fame ma, soprattutto negli ultimi mesi, sembrava che fosse sempre più difficile trovare del cibo, e il suo stomaco di dodicenne reclamava nutrimento dalla mattina alla sera.
Passò davanti alla grande casa in cui abitavano fino a qualche settimana prima Vittorio e Giancarlo, due fratelli con cui giocava spesso nel grande parco che c’era lì vicino. Vittorio aveva nove anni, mentre Giancarlo ne aveva tredici, e a Dora piaceva quel ragazzino di un anno più grande di lei, dagli occhi marroni, caldi e le orecchie un pochino a sventola. Erano circa una decina i ragazzini del quartiere che si trovavano insieme a giocare all’aperto. Si erano divisi in due gruppi, uno formato dai più piccoli, l’altro dai ragazzini dell’età di Dora. E Giancarlo era quello che le piaceva di più. Facevano sempre insieme la strada per tornare verso casa e lui aveva tantissime storie da raccontarle, soprattutto sugli animali, e lei si meravigliava sempre di quante cose sapesse. Ascoltava affascinata tutto quello che le raccontava e poi si salutavano all’incrocio della strada, ognuno per andare verso casa sua, lei verso via Savonarola e i fratelli verso Via Petrarca.
Un pomeriggio di fine novembre, soleggiato e non troppo freddo, Giancarlo e Vittorio non si erano presentati al parco per giocare, così come il giorno dopo e quello dopo ancora. Lei era passata davanti alla loro casa e aveva visto le imposte chiuse. Se ne erano andati, così, da un giorno all’altro, senza dire nulla a nessuno. Continuava a chiedersi se sarebbero mai tornati e ogni volta il suo animo sprofondava nello sconforto, perché forse già sapeva che non li avrebbe più rivisti.
Le mancavano le chiacchiere continue di Giancarlo mentre percorrevano la strada insieme, a volte le spalle si toccavano e a lei batteva forte il cuore, sentiva le palpitazioni fino alla gola. E lui parlava, parlava e le raccontava tutto quello che leggeva, era un ragazzino strano che sapeva tanto e di tutto e lei era letteralmente stregata da tutto quello che ascoltava.
Perciò ogni volta che tornava a casa da scuola e passava davanti a casa di Giancarlo si fermava per controllare se fossero tornati. In un paio di occasioni aveva anche provato a suonare.
Quel giorno fece lo stesso, si bloccò davanti al portone e osservò le finestre: avevano gli scuri chiusi. Alzò il dito per suonare il campanello, come aveva già fatto altre volte. Esitò un momento ma poi si disse che non aveva nulla da perdere. Schiacciò il pulsante e attese un po’, ma non ci fu risposta.
Fece un sospiro e riprese a camminare con un passo più lento. Arrivata in via Savonarola aprì con la chiave il portone, salì le scale e bussò alla porta della loro dirimpettaia. La mamma lavorava alla Snia Viscosa, una fabbrica tessile dove si recava ogni mattina in bicicletta e sarebbe tornata solo nel tardo pomeriggio, perciò a pranzo andava sempre dalla vicina, che si chiamava Elena.
Sentì ciabattare e poco dopo le aprì la figlia Clara, più grande di lei di tre anni, una ragazza magra come un chiodo, con i capelli neri come il carbone e gli occhi grandi. Si sedette a tavola insieme a loro e mangiarono come al solito la polenta bianca, quel giorno accompagnata da qualche crosta di formaggio. Nessuno le chiese come era andata a scuola, glielo chiedeva la mamma quando si sedevano a tavola per la cena e lei ripeteva sempre: “bene”. Per farla stare tranquilla. Ma in realtà la scuola non le piaceva affatto, era tutto così noioso e ripetitivo e la maestra non era per nulla paziente o gentile. Sembrava le procurasse piacere utilizzare la lunga bacchetta di legno che teneva sempre a portata di mano sulla cattedra. Appena qualcuno sbagliava la risposta o disturbava o si distraeva lei si alzava con gelida calma, la prendeva tra le mani e si avvicinava con aria minacciosa. Ma questo lo teneva per lei, mica lo raccontava a sua madre. Non sarebbe servito a nulla lamentarsi, le bacchettate sulle mani sarebbero arrivate lo stesso.
Dopo aver sparecchiato la tavola e lavato i piatti, Elena e Clara si misero a cucire e lei aprì il quaderno per fare i compiti. Sarebbe stata lì con loro per un po’ e poi, se ne avesse avuto voglia avrebbe potuto andare a giocare, anche se senza Giancarlo non era più lo stesso.
Stava finendo il primo compito di matematica, quando Elena disse: «Appena ho finito queste tende andate a consegnarle alla signora Cortivo».
Una gioia infinita pervase la mente e il corpo di Dora. Cortivo voleva dire solo una cosa: biscotti. Le salì l’acquolina in bocca al pensiero di quei dolci pieni di burro e zucchero che la signora dava sempre loro quando andavano a consegnare la merce. Elena era una delle più brave sarte di Padova e aveva dei clienti fissi, spesso Dora e Clara andavano a portare i lavori finiti e riscuotere i soldi e la consegna alla Cortivo era la sua preferita. La strada per arrivarci era un po’ lunga, però la fatica sarebbe stata ricompensata dai biscotti.
La signora abitava vicino alla stazione dei treni, in una raffinata dimora con un giardino e un immenso albero di magnolia davanti. Quando suonavano il campanello la governante apriva il portone massiccio di legno scuro, le faceva entrare e loro aspettavano nell’atrio, poi arrivava la signora, che aveva i capelli grigi stretti in un crocchia alta e qualche chilo in più del dovuto, che avvolgeva in abiti eleganti. Le salutava e chiedeva come stavano, prendeva i soldi da un borsello, poi arrivava la governante con due involucri contenenti dei biscotti. Di solito dentro ce n’erano una ventina, e quattro, cinque biscotti finivano nella pancia sulla strada del ritorno. Gli altri Dora li custodiva e cercava di farli durare il più possibile nei giorni successivi.
Continuava a pensare ai dolci e non riusciva a concentrarsi sul problema da risolvere, perciò lo rilesse per la terza volta: A scuola ci sono 160 Balilla e 180 Piccole Italiane. Quanti sono in totale? Alla gita scolastica parteciperanno 5/8 dei Balilla e 4/3 delle Piccole Italiane. Quanti andranno in gita e quanti rimarranno a scuola?
Aveva appena scritto il risultato finale quando Elena disse che aveva finito, dovevano muoversi e andare dalla signora Cortivo. Dora chiuse il quaderno con uno scatto e il suo stomaco le ricordò che presto avrebbe messo in bocca dei dolci.
Si mise il cappotto, il berretto in testa e uscirono in strada. C’era un freddo secco e pungente. Camminava in silenzio di fianco a Clara che, come la madre, era di poche parole. Dora pensava sempre a loro come a delle noci, erano dure nei tratti e nelle parole, ma con un cuore gentile che svelavano nei piccoli gesti quotidiani.
Erano quasi arrivate a destinazione, quando cominciarono a suonare le sirene di allarme. Si fermarono in mezzo alla strada.
«Torniamo indietro?» chiese Dora.
Clara rimase ferma scrutando il cielo. «No. Vedrai che gli aerei passano e vanno a bombardare Marghera, come al solito. Finora non è mai caduta una bomba su Padova. Andiamo avanti, dobbiamo consegnare le tende.»
Continuarono a camminare. Dora faceva un passo in più per stare dietro a quello più veloce di Clara, si stava concentrando proprio sull’andatura, rivolgendo la propria attenzione al ritmo che facevano le scarpe, quando sentirono il rombo degli aerei. Alzò gli occhi verso il cielo ma non vide nulla, solo infinito azzurro.
Erano quasi arrivate alla stazione dei treni, in prossimità della casa della signora Cortivo. La vide in lontananza, con il grande albero di magnolia, spoglio dei suoi magnifici fiori bianchi che sarebbero sbocciati in tutto il loro splendore solo in primavera. Il caminetto della casa era di sicuro acceso, dato che c’era un denso fumo che usciva dal comignolo.
Un rumore insistente e allarmante le fece alzare lo sguardo verso il cielo e li vide: tanti aerei che volavano bassi, procurando un rombo fortissimo.
Si bloccò con il naso all’insù e gli occhi sgranati. Dora scorse delle palline, come dei fiocchi di neve che si staccavano dagli aerei e si ingrandivano sempre di più e poco dopo iniziarono le esplosioni.
Erano bombe, le bombe cadevano ed erano vere.
Clara la prese per mano e la strattonò per tornare indietro, si girarono e iniziarono a correre come delle forsennate, mentre dei boati tremendi risuonavano a distanza troppo ravvicinata.
Dora inciampò e cadde a terra, Clara era troppo veloce per lei.
Mentre era a quattro zampe si girò. La casa della signora Cortivo non c’era più. Al suo posto un fumo nero.
E addio biscotti.
***
Il giorno di Natale Dora si svegliò presto. Ascoltò il respiro pesante di sua madre, dormivano insieme nel grande letto che prima era stato dei suoi genitori, e cercando di non svegliarla si alzò per sbirciare fuori dalla finestra. Scostò le tende pesanti e la carta di giornale che serviva per l’oscuramento notturno, vide delle nuvole pesanti che coprivano il cielo, ma non si sarebbe fatta scoraggiare, lei adorava i giorni festivi e le domeniche, poteva stare tutto il giorno con la mamma ed effettuare il rituale che tanto amava: il bagno, i vestiti della festa, la messa in chiesa. Rimase a guardare fuori mentre i pensieri correvano veloci. Chissà dov’era Giancarlo, e se stava bene. Chissà dov’era papà, e se stava bene. Un brivido di freddo le fece venire la pelle d’oca, a piccoli passi tornò verso il lettone e si infilò di nuovo sotto le coperte, a fianco del corpo caldo di sua madre.
Dopo colazione fece innumerevoli volte il percorso da casa alla fontana di via Savonarola per prendere l’acqua per il bagno. Dopo averla scaldata, si immerse nella grande tinozza piena di acqua calda e osservò le sbucciature sul ginocchio che si era fatta quando avevano bombardato la casa della signora Cortivo: le crosticine si erano tutte staccate e rimaneva un’area rosa di pelle nuova. La mamma iniziò a insaponarle i capelli e lei le fece la domanda che le ronzava per la testa da quando si era svegliata.
«Mamma?»
«Dimmi, tesoro.»
«Credi che papà tornerà prima o poi?»
Sua madre le stava passando un pezzettino di sapone sulla schiena. Si bloccò. Poi riprese con ancora più vigore.
«Non lo so.»
«Ma zio Toni è già tornato, perché papà no?» Il fratello più piccolo di sua madre era rientrato da qualche mese dalla spedizione dell’esercito italiano in Russia, senza una gamba, ma almeno era tornato.
«Oggi pregheremo tanto in chiesa per papà, va bene? Chissà che qualcuno ascolti le nostre preghiere» disse sua madre con la sua voce calma e bassa.
«E io pregherò anche per non far cadere più le bombe.»
«Mi sembra giusto.»
«E anche perché Giancarlo, ma anche Vittorio, tornino.»
«E anche perché un pochino ti piaceva Giancarlo, vero Dora?»
Lei arrossì fino alla punta delle orecchie. «Mi piaceva passare del tempo e parlare con lui, sapeva tante cose e me le raccontava. Mi manca. Perché se ne sono andati?»
«Perché sono ebrei e le nuove leggi sono molto severe.»
«Tito dice che li hanno presi e portati via, mentre Marta dice che sono scappati. Io non so a chi credere.»
«Nemmeno io saprei a chi credere. Prega anche per Giancarlo e la sua famiglia, ovunque siano, sarà d’aiuto.»
Uscita dalla tinozza, Dora si asciugò e iniziò a vestirsi, mentre sua madre si spogliava e si immergeva nella stessa tinozza. Non riusciva a infilarsi tutta, come faceva Dora, si inginocchiava e si lavava a pezzi. Lei si mise vicino alla stufa per asciugarsi i capelli e nel mentre iniziò già a recitare delle preghiere nella sua mente. Le avrebbe poi ripetute in chiesa per rafforzare l’intento.
Pregò per suo padre, sperando che tornasse presto, per far sorridere di nuovo la mamma. Pregò per Giancarlo e il suo fratellino Vittorio e anche per i loro genitori e il fratello più grande, di cui non si ricordava il nome. Pregò per la Signora Cortivo, che non c’era più. Il ricordo dei biscotti mancati le faceva ancora male, chissà quando ne avrebbe mangiati ancora di così buoni. Pregò anche perché non cadessero più bombe sulla sua città.
La mamma nel frattempo si era asciugata e si era messa l’abito più bello che aveva, di lana blu. Si infilò le calze srotolandole pian piano, poi prese il pettine e si mise dietro a Dora per pettinarle i capelli. Dopo poco la ragazza alzò lo specchio per guardarsi: avevano la chioma dello stesso nero corvino, ma Dora aveva i capelli più fini, lunghi e ricci. Sua madre portava i capelli fino alle spalle, erano ondulati e con la riga laterale e quando lavorava li raccoglieva in una coda. Gli occhi avevano la stessa forma ma quelli di Dora erano nocciola, mentre quelli della mamma erano color cioccolato. Incrociarono lo sguardo attraverso lo specchio e si sorrisero.
«Sei triste perché papà non c’è a Natale?»
«Anche, sì.»
«Magari torna per la Befana, così gli do tutti i dolci che riceverò.»
Sua madre non rispose.
«Dici che cadranno ancora delle bombe, mamma? A me hanno fatto paura.»
«Si, tesoro, c’è il rischio che ne cadano ancora. C’è un rifugio qui vicino, è davvero a pochi passi, anche quando io sono a lavoro, devi correre là appena senti le sirene suonare, anche se stai giocando al parco. Va bene?»
«Sì mamma.»
«Promettimelo.»
«Te lo prometto.»
«Dopo la messa facciamo una passeggiata e ti faccio vedere dov’è il rifugio. Si chiama Raggio di Sole.»
«Che bel nome!»
Dopo aver finito di pettinarle i capelli, la madre si mise il rossetto, l’unico trucco che usava, di un bel rosso cremisi. Lo appoggiò sopra al tavolo e Dora lo prese in mano, tolse il cappuccio e ne venne fuori un pezzettino, ne era rimasto davvero poco. Se lo portò al naso e aspirò quel sentore di rosa e violetta. Era un gesto che faceva ogni volta che mamma se lo metteva, adorava quel profumo. Quando c’era papà se lo metteva tutti i giorni. Chissà, magari sarebbe arrivato, dopo la messa loro sarebbero arrivate a casa e lo avrebbero trovato lì, con dei regali, un rossetto nuovo e un profumo per la mamma e un giocattolo enorme per lei.
Dora sorrise, richiuse il rossetto, si mise le scarpe e aspettò che sua madre finisse di acconciarsi i capelli.
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