(R. Williams)
Diana Costa fissava l’insegna luminosa del ristorante di famiglia come se la stesse leggendo davvero per la prima volta: eppure penzolava in balìa del vento, appesa a due catene un po’ arrugginite, da decenni. Sicuramente da prima che nascesse lei. Innumerevoli volte i suoi occhi avevano attraversato quelle lettere illuminate dalla luce al neon, ma solo adesso ne capiva realmente il significato; solo adesso ne avvertiva il mistero, complice anche l’ululato del vento che faceva fluttuare alcune ciocche di capelli sul suo viso, come fantasmi danzanti.
“La locanda del viandante” era il nome che il bisnonno di suo nonno aveva scelto quando si era avventurato nell’impresa di aprire quell’attività, alla fine del 1700.
Queste erano le esclamazioni, più o meno originali, che si lasciavano sfuggire gli avventori più attenti.
A forza di sentirle ripetere, anche Diana aveva iniziato a condividere lo stupore della gente, chiedendosi se fosse possibile che l’attività di famiglia esistesse da più di due secoli, e aveva voluto approfondire interrogando i nonni.
Aveva così saputo che l’idea della locanda era nata dalla volontà di Angelo Costa, bisnonno di suo nonno: pochi tavoli e sedie, una tettoia per la bella stagione e qualche tipico piatto piemontese a quei tempi erano sufficienti per lavorare e soddisfare gli avventori, che erano viandanti di passaggio con le loro carrozze.
Da qui il nome del ristorante, che non era mai cambiato.
L’attività si era poi tramandata di padre in figlio e così era toccato anche al nonno Antonello cimentarsi in questo mestiere, ereditandolo dai suoi genitori. Intanto i tempi erano cambiati, la clientela si era fatta più numerosa e raffinata, così Antonello aveva deciso, con l’appoggio di sua moglie Elsa, di costruire un nuovo locale, edificandolo su un ampio prato che da quel momento, per ovvie ragioni, non era più esistito.
Il locale, non più locanda, era diventato un ristorante, quello in cui Diana e la sorella erano nate e cresciute, in un misto di amore e odio verso quel mondo che – se da una parte avrebbe arricchito il loro bagaglio di esperienze – dall’altra le avrebbe private di alcune libertà negli anni giovanili.
Contemplando quell’insegna in una fredda sera di gennaio, Diana aveva di colpo realizzato che lì era custodita anche la sua storia.
ANTONELLO ED ELSA
Un tempo qui intorno era tutto prato: si pascolava il bestiame, non c’era nemmeno una pianta. Non ci pensammo molto e lo comprammo, indebitandoci.
Era il posto ideale per costruire il nuovo locale, così a bordo strada: avremmo avuto un parcheggio più ampio, un dehors con gli ombrelloni e i tavolini in pietra, un parco giochi da mettere a disposizione dei clienti.
Non ci spaventava l’idea che avremmo dovuto faticare giorno e notte per recuperare i soldi spesi per l’acquisto del terreno; erano tempi, quelli, in cui si pensava solo a lavorare per garantire un futuro alla propria famiglia.
Avevamo vissuto la guerra, nulla poteva essere peggio. Mio marito, a quel tempo quindicenne, aveva addirittura rischiato di essere preso dai tedeschi; per fortuna sua madre, che aveva una mucca da cui quotidianamente ricavava il latte fresco di cui erano golosi i soldati, lo aveva potuto barattare per la libertà di suo figlio.
A me avevano scambiato qualche volta per una tedesca, per via della mia carnagione chiara, i capelli biondi e gli occhi azzurri. Devo ammettere che ero una bella ragazza, anzi ‹‹una ragazzona››, come ripeteva sempre la gente del paese.
‹‹È proprio una ragazzona, alta alta››, dicevano.
‹‹Bisognerà che trovi un uomo di almeno un metro e ottanta››.
E lo trovai. Di un metro e novanta, per la precisione. Era il più bello di tutti, con i capelli che facevano un’onda, come una cornice tratteggiata da un capo all’altro della fronte.
La prima volta che lo vidi fu sulla pista da ballo, una domenica pomeriggio.
Come sempre avevo percorso la strada a piedi con Agata e Lucina fino alla cappella della Madonnina, dove nascondevamo le scarpette in una busta di carta. Le incastravamo al di là della grata, dietro la statua della Vergine Maria, e le recuperavamo ogni domenica, il giorno che ci era concesso trascorrere lontano dalle faccende quotidiane.
Quando raggiungevamo la cappella, mettevamo quelle scarpe eleganti sotto il braccio e continuavamo fino alla discesa che conduceva al lago, dove avremmo incontrato altri giovani dei dintorni e ci saremmo scatenate sulla pista da ballo.
Agata era sempre in attesa di Leandro, il figlio del fabbro, mentre Lucina concedeva balli alternati ad Ugo e Giacomo, che lavoravano come muratori nel paese vicino.
Io avevo diversi pretendenti, ma spesso erano più bassi di me e questo mi faceva sentire un po’ a disagio, così non riuscivo mai a muovermi come avrei dovuto.
Quel giorno però venne a chiedermi di ballare un ragazzo che non avevo mai visto: alto, slanciato, con un’aria spavalda che metteva allegria.
‹‹Finalmente una ballerina fatta apposta per me››, aveva detto.
Dopo pochi mesi di fidanzamento, Antonello chiese a mio padre il permesso di sposarci e iniziammo la nostra vita insieme, fatta di poche cose semplici e di valori condivisi.
All’inizio lui era impegnato nella locanda di famiglia solo nel fine settimana, perché gli altri giorni girava i paesi vendendo stoffe; io badavo alla casa e a mia suocera, che era anziana e malata.
Quando nacque la nostra prima figlia, faticai a badare a lei e alla madre di mio marito contemporaneamente, ma ero tenace e con molta buona volontà riuscivo a soddisfare le esigenze di entrambe.
La sera, quando Antonello rincasava, mi consegnava i soldi, che riponevo in una scatola di latta nel cassetto del comodino in camera da letto, poi cenavamo raccontandoci come avevamo trascorso la giornata.
In una di quelle conversazioni serali ci venne l’idea di aprire una locanda tutta nostra che però continuasse la tradizione della famiglia di mio marito.
A pochi anni dall’apertura arrivò un altro figlio.
Ieri
1.
La famiglia Costa, costituita da Diana, sua sorella Giovanna e i genitori Mario e Manuela, abitava in una frazione di un piccolo paese arroccato a settecento metri d’altezza.
Un paese montano di trecento anime, con cascine e boschi intricati, in cui tutti si salutavano e in cui ci si sentiva figli dei vecchi e genitori dei giovani.
Un paese scomodo perché lontano dalle principali città, che offriva solo servizi essenziali, non sempre di buona qualità, e i cui abitanti erano conosciuti per il loro soprannome.
Un paese che tutti criticavano, per un verso o per l’altro, ma che tutti amavano e a cui tutti tornavano sempre, anche dopo aver vagabondato per il mondo.
Un paese di anziani che festeggiava poche nascite, ma che si trovava unito nell’orgoglio e nella gioia quando era il momento di accogliere un nuovo venuto.
Un paese di pettegole sedute sulle panchine della piazza con lo scialle sulle spalle, il grembiule allacciato stretto in vita e la retina per i bigodini in testa.
Un paese in cui era difficile custodire un segreto, fatto di gente alla buona, che vedeva nel pane e salame con un buon bicchiere di vino l’unico vero rimedio capace di curare ogni male.
Un paese in cui si aspettava tutto l’anno la festa del patrono o il carnevale per andare a ballare, in cui gli uomini al bar parlavano di politica e in cui da generazioni molti mantenevano le loro seconde case, come piacevole rifugio dalla frenesia della città.
Un paese insomma come ce ne sono tanti, che talvolta sembrava vuoto, spento e vecchio, ma è pur sempre il tuo paese e non è difficile trovare una ragione per restarci e una per difenderlo.
La casa dei Costa affacciava su una strada attraversata da un discreto traffico, ma era circondata alle spalle da un bellissimo bosco che la rendeva maestosa e selvaggia ad un tempo. Era una vecchia cascina che i nonni avevano costruito nei primi decenni del dopoguerra: il piano terra era adibito a bar e ristorante, il primo piano ospitava le camere d’albergo e al terzo ed ultimo piano Diana e la sua famiglia alloggiavano in uno dei due ampi appartamenti; l’altro era riservato ai nonni paterni.
Questa grande casa era arredata semplicemente, ma risultava comunque molto confortevole: le ampie finestre della camera da letto regalavano alle ragazze una splendida vista sulle montagne; il caminetto del salotto crepitava e scaldava nelle sere d’inverno, quando fuori nevicava e tutti si coccolavano guardando un film e bevendo una tazza di the bollente; il corridoio era lo spazio prediletto per i giochi di Diana e Giovanna, quando erano bambine.
Completava il quadro uno spazioso piazzale in cemento al centro del quale erano stati piantati due pini che, con il tempo, avevano finito per abbracciarsi formandone uno solo, divenuto poi il simbolo della locanda.
Questo era il luogo in cui Diana era cresciuta, in cui aveva vissuto buona parte della sua vita, che aveva odiato quando era una ragazzina perché la isolava lassù, dividendola dalla città e dalla vita che facevano i suoi amici di allora; ma era il luogo che oggi amava profondamente per averlo conosciuto in tutti i suoi aspetti, che ringraziava per averle regalato numerosi momenti di gioia e pace, che ancora ricordava con la nostalgia che accompagna i bei tempi passati.
Oggi
I.
Il piccolo appartamento al secondo piano di via Bertoni sorgeva in un quartiere di periferia e distava pochi chilometri dallo studio in cui Diana era stata assunta.
Contava in totale tre stanze e il balconcino della cucina-salotto, l’unico sfogo verso l’esterno, affacciava sul corso. Giudicando ad occhio, c’era giusto lo spazio per un tavolino e una sedia, ma in tal caso bisognava rinunciare ad appendere un vaso di fiori.
L’arredamento era datato, ma ben tenuto: le piacevano soprattutto il divano agrippina in velluto blu e lo scrittoio in ciliegio. Non poteva dire lo stesso delle piastrelle di bagno e cucina, dalle classiche fantasie variopinte degli anni Sessanta, ma se le sarebbe fatta andare bene.
Le pareti erano spoglie e tinteggiate con un color nocciola smunto, ma avrebbe potuto ravvivarle appendendo dei quadri. Le porte cigolavano e le maniglie si erano allentate, ma si trattava di migliorie realizzabili con semplici lavoretti.
Diana era soddisfatta di avere uno spazio tutto per sé e curiosa di iniziare quell’esperienza lavorativa, ma doveva ancora abituarsi alle dimensioni ristrette della sua nuova casa, lei che aveva sempre vissuto in campagna.
Quando ebbe sistemato i vestiti nell’armadio in camera da letto, si sedette sul divano e realizzò che sarebbe iniziata la sua nuova vita di adulta.
Da sola: senza Samuele, senza famiglia e lontana da casa.
Per un attimo fu presa dall’agitazione per le novità a cui stava andando incontro e temette di non essere pronta per accogliere tanti cambiamenti tutti insieme. Poi si concentrò sulle aspettative del lavoro e solo molto tardi si addormentò, sospendendo momentaneamente quelle paure.
La mattina seguente indossò un tailleur nero con una camicetta grigio perla e si presentò in studio, dove venne accolta dal direttore, Arnaldo Nebri, che la scortò per i vari uffici e infine la fece accomodare alla sua scrivania, in un’ampia e luminosa stanza dove sedeva anche una giovane donna, capelli rossi ondulati e occhiali tartarugati.
‹‹Piacere, sono Marcella››, si presentò.
‹‹Marcella, conto su di lei per l’accoglienza della nuova collega››, la avvertì il direttore.
‹‹Ancora benvenuta, Diana. Le auguro un buon inizio››, poi sparì, rispondendo al telefono.
‹‹Hai mai lavorato in questo settore?››, attaccò Marcella, prendendosi la licenza di darle del tu.
‹‹No, questo è il mio primo lavoro. Mi sono laureata da poco››. Diana si sentiva un po’ infantile davanti a quella donna che aveva l’aria di una professionista. Ma non voleva sembrare impacciata, così cercò di mantenere viva la conversazione.
‹‹Lei è qui da molto?››
‹‹Tre anni, ma diamoci del tu››.
A quella risposta Diana si rilassò, giudicando che la distanza tra loro, in fondo, non era molta.
‹‹Come ti avrà già detto il dottor Nebri, in questo ufficio ci siamo solo io e te e il nostro compito è pianificare e allestire le mostre: ideare il percorso tematico, cercare ispirazione per nuovi viaggi. Nella stanza accanto si occupano delle pubbliche relazioni e in fondo al corridoio trovi gli studi di grafica e pubblicità. Al piano superiore ci sono i colleghi che si dedicano alla cura e gestione delle collezioni: restauro, catalogazione, insomma cose del genere››, ribadì Marcella.
Parlava in modo approssimativo, dando tutto per scontato.
Diana annuì come se capisse perfettamente tutto ciò a cui alludeva, ma in realtà si meravigliò del numero di persone che gravitava intorno alla realizzazione di una mostra; era in procinto di chiedere quale fosse l’allestimento a cui stava lavorando in quel momento la collega, quando vennero interrotte dall’ingresso di un uomo sulla quarantina, che aveva bisogno di far firmare alcuni documenti a Marcella.
Portava le maniche della camicia arrotolate e aveva una penna infilata dietro l’orecchio, che gli dava l’aria di un ingegnere o architetto, ma Diana ragionò che in quell’ufficio non avrebbe avuto molto senso trovare una figura professionale di quel genere.
Quando si accorse di lei, lo sconosciuto la salutò educatamente e, ottenute le firme, uscì.
Come se avesse intercettato una domanda a cui Diana non aveva nemmeno pensato, Marcella spiegò: ‹‹Lui è Cesare, ufficio pubbliche relazioni››.
MARIO
Non sono mai stato estroverso, non amo chi fa troppe domande né chi parla tanto e ad alta voce. Spesso la gente si perde in lunghi discorsi inutili, impiegando il doppio del tempo che sarebbe necessario per esprimere ciò che ha da dire.
Sono un tipo impaziente e preciso: quando devo sbrigare una faccenda o svolgere un lavoro, mi metto di impegno e li porto a termine.
Non rimando, non accumulo ciò che non serve, non dipendo da nessuno e non aspetto che le cose capitino.
Sono cresciuto in questo piccolo paese con i miei genitori e, fino all’età di undici anni, ho avuto una sorella che si chiamava Amanda. Era più grande di me di cinque anni.
Andavamo abbastanza d’accordo, anche se mi innervosiva quando cantava a squarciagola le canzoni che uscivano dal jukebox attorno al quale trascorreva tutte le sere d’estate con gli amici che venivano a trovarla al bar.
Non direi che fosse gelosa di me: era abbastanza giudiziosa e, siccome i nostri genitori lavoravano sodo per risanare più velocemente i debiti contratti per l’avvio dell’attività, si trovava spesso a badare a me. Per quel che ricordo, assumeva quell’incarico con serietà e ne andava fiera, perché si sentiva grande, come una mammina.
E io di lei sono mai stato geloso?
Non ho avuto modo di conoscerla realmente, se non nelle foto che sostano sulle mensole in salotto e in cucina: all’età di sedici anni si è ammalata e ha trascorso molto tempo in ospedale. I nostri genitori l’hanno portata dappertutto per curarla, addirittura a Pavia, ma la leucemia ha vinto e ce l’ha strappata quando io avevo solo undici anni.
Non ho mai parlato volentieri di questo evento doloroso della mia vita, nemmeno agli amici più stretti o a mia moglie, perché mi sembrava di non avere nulla da dire.
E poi ho sempre pensato che nessuno avrebbe potuto capire come ci si sente perché, a dire il vero, sono il primo a non saperlo spiegare.
Come si fa a raccontare l’angoscia nel cuore di un bambino che scappa di casa e corre nei boschi per non vedere il dolore di una famiglia devastata? Quando Amanda è mancata, mi hanno trovato addormentato sotto un pino, dietro casa.
Non è stato facile inventare una nuova vita da figlio unico, ma il tempo ci spinge avanti e tutti noi lo abbiamo assecondato.
Terminate le scuole medie in città, ho scelto – com’era prevedibile- l’istituto alberghiero.
I miei insegnanti dicevano che ero intelligente e avevo buone capacità, ma mancavo di impegno costante. A me piacevano la matematica e il calcio, me la cavavo bene in geografia e inglese, ma non amavo stare a lungo sui libri.
Avrei voluto frequentare un’altra scuola? Non lo so, al tempo non c’era grande scelta e poi dovevo portare avanti l’attività di famiglia, altrimenti chi l’avrebbe fatto?
I miei genitori mi hanno iscritto al migliore istituto alberghiero, che era però distante da casa, così dovevo restare a dormire là tutta la settimana e tornavo a casa nel fine settimana, in tempo per dare una mano.
Da quando avevano aperto l’attività, erano finiti i problemi economici; in effetti, da quel punto di vista, non mi è mai mancato nulla.
All’età di diciotto anni mio padre mi ha comprato la macchina nuova; io mi sarei accontentato di un’auto di seconda mano, siccome sapevo che un ragazzo del paese vendeva la sua. Ma lui è stato irremovibile: mi ha preso il modello sportivo che mi piaceva tanto.
Ricordo ancora la luce nei suoi occhi quando mi ha consegnato le chiavi: incredulo e grato, per mesi ho lasciato il rivestimento in plastica sui sedili posteriori per non correre il rischio di rovinarli.
Tra le opportunità offerte dalla scuola c’era uno stage a Londra per gli addetti di sala e bar dell’ultimo anno; non ho perso l’occasione e sono partito con tre compagni.
La città era folle e sorprendente, per noi cresciuti in un paese di provincia dove molti non avevano nemmeno la televisione: i grandi magazzini con prodotti dai prezzi proibitivi, i punk con capigliature multicolore, i tornelli della metropolitana da scavalcare perché non avevamo pagato il biglietto, le bottiglie del latte rubate sulla soglia delle case, i bus rossi e i taxi neri, i senzatetto, gli artisti di strada, i concerti in piazza. Ho assistito a quello dei Queen ed è stato semplicemente adrenalinico.
Mia madre mi scriveva lunghe lettere, raccontandomi come se la passavano a casa e chiedendomi se avessi bisogno di soldi o di una giacca più pesante.
È persino venuta a trovarmi, affidando per qualche giorno la cucina del ristorante a Gabriella; mio padre non si è mosso, dicendo di dover badare al locale. In realtà aveva paura di volare.
Ero felice che almeno lei per una volta avesse messo da parte il lavoro e l’ho portata in giro per la città, orgoglioso di farle vedere che sapevo come muovermi per raggiungere musei e monumenti; volevo farle respirare la vertigine di quel mondo così lontano dalla nostra campagna.
Conclusa l’esperienza londinese, ero pronto per rilevare l’attività di famiglia.
Pochi anni dopo ho sposato Manuela e sono nate le nostre adorate figlie, Giovanna e Diana.
Ieri
2.
Ripensando al ricordo più remoto che aveva della sua vita, Diana si rese conto di non saperlo identificare né recuperare.
Sua sorella Giovanna, chiamata da sempre Jo, diceva spesso che non era possibile ricordare nulla di quanto accaduto prima del terzo anno di età, perché è come se in quel non-tempo e non-spazio ci fosse un foglio bianco che ognuno riempie con le fotografie e i racconti di genitori e parenti.
‹‹Quando sei nata, eri brutta e magra››, si sentiva ripetere Diana ad ogni compleanno.
‹‹All’età di un anno già rifiutavi il ciuccio››.
‹‹Era sempre una lotta per farti mangiare››.
Lei non ricordava nulla di quei momenti, nemmeno di essere mai stata chiamata con il nome di battesimo in famiglia: preferivano il diminutivo Didi.
Poteva però ricostruire gli anni della sua infanzia con episodi piacevoli, dolorosi, divertenti, imbarazzanti che, come cavalcando un’onda capricciosa, annegavano e aggallavano per comporre un mosaico di conchiglie levigate.
Comparivano anche avvenimenti banali e infantili, rievocati secondo la prospettiva fanciullesca, con l’occhio del bambino che – in molti casi – percepisce la realtà in modo un po’ distorto ma decisamente più autentico.
Ecco allora l’asilo, che si trovava in un paesino a una decina di chilometri da casa loro; fino ai tre anni di età Diana e Giovanna erano state accompagnate dai genitori poi, crescendo, avevano potuto usufruire del servizio pulmino per l’andata ed il ritorno. Appunto sul pulmino erano nate le amicizie più solide, quelle che si erano protratte negli anni delle scuole elementari, e lì ognuno ricopriva una posizione ben precisa: c’era chi doveva provvedere alla pulizia del veicolo, ricorrendo agli scopini che un altro aveva l’incarico di costruire (si realizzavano con cannucce colorate alla cui sommità si fissavano dei cartoncini con lo scotch); non doveva mancare l’aiutante dell’autista, che gli ricordava puntualmente chi sarebbe stato assente all’appello e infine c’era chi assegnava a ciascuno il posto a sedere per la settimana. Insomma, cominciavano a capire che la vita sociale funzionava per gerarchie ed imparavano a rispettarle, agognando il giorno in cui anche loro avrebbero avuto uno di quei ruoli tanto ambiti e che di solito si raggiungevano al terzo o quarto anno di scuola elementare, dopo una gavetta piuttosto travagliata.
All’asilo le due sorelle conobbero i loro futuri compagni delle scuole elementari, che frequentarono nello stesso paese: non esistevano sezioni e due maestre badavano a una ventina di bambini, senza dividerli in base all’età. Ecco che si creava un unico grande gruppo, una famiglia in cui tutti davano il proprio contributo secondo le proprie capacità e in cui i grandi accoglievano fraternamente i più piccoli, come avrebbero continuato a fare a scuola, pochi anni più tardi.
I momenti più entusiasmanti riguardavano la preparazione delle recite: a novembre, dopo aver portato a termine i cosiddetti “lavoretti di San Martino”, realizzati in occasione della festa patronale del paese e che vedevano tutti i bambini impegnati per un mese abbondante, ci si dedicava alla recita di Natale.
Si trattava solitamente di scenette, balletti, canti di gruppo che le maestre illustravano per poi insegnare agli alunni le battute, i movimenti e i testi. Diana e Jo erano molto competitive in questo campo: profondevano tutte le loro energie per imparare al meglio e desideravano stare sempre in prima fila sul palco, soddisfazione che spesso ottenevano come premio per la loro costante dedizione.
La maestra Donatella notava quanto ci tenessero a fare bella figura non solo ai suoi occhi, ma anche a quelli degli spettatori e diceva che avevano un dono particolare per quel genere di attività. Forti di queste affermazioni, le due bambine si esercitavamo anche a casa, ripetendo le battute e mostrando in anteprima i balletti ai familiari, che se ne rallegravano applaudendole.
Peccato che raramente potessero prender parte tra il pubblico: le recite si svolgevano sempre la domenica e, a causa del lavoro, il padre non poteva mai presenziare e la madre partecipava una volta su tre, magari a metà pomeriggio. Così le accompagnavano i nonni materni, che andavano a prenderle a casa per portarle al salone comunale dove si teneva la manifestazione.
Le bambine erano ugualmente orgogliose di mostrare il frutto di tanti preparativi ai nonni, ma le avrebbe rese più felici scorgere tra il pubblico il viso dei loro genitori, come succedeva a tutti gli altri compagni, che a fine spettacolo correvano ad abbracciare mamma e papà e ad incassare i loro complimenti.
Manuela faceva del suo meglio e le vestiva di tutto punto per la grande occasione: camicetta di cotone, maglioncino e gonna di lana cuciti a mano dalla nonna Bruna, scarpette di vernice. Diana aveva la fortuna di indossare anche un bel paio di mutande di lana color verde insalata, che la mamma le metteva sulle calzamaglie per ripararla dal freddo.
A nulla valevano le sue proteste: finiva sempre col doverle indossare per non rischiare di prendersi il mal di pancia e sacrificava la sua autostima per soccombere alle risate dei compagni e di Jo.
*
Quell’anno era stata assegnata a Diana una parte piuttosto importante: avrebbe dovuto comparire in scena da sola, sulle note della canzone Come mai degli 883, entrare nel cerchio formato dai compagni che dondolavano le loro folte teste e posizionarsi al centro, tenendo in mano una candela accesa.
Era un ruolo lusinghiero: le luci si sarebbero abbassate e tutti gli occhi sarebbero stati puntati su di lei, proprio come accadeva alle protagoniste dei film.
Non doveva sbagliare una sola mossa o avrebbe sollevato dubbi circa le sue capacità tanto a lungo decantate.
Per quel giorno sfoggiava uno degli abiti realizzati dalla nonna, rigorosamente identico a quello della sorella (ecco uno dei motivi per i quali le scambiavano spesso per gemelle): un vestitino a sfondo bianco con piccoli pupazzetti blu e gialli ricamati in superficie e un bordino di pizzo a orlare le maniche. Completavano la mise un paio di calzette bianche e gli immancabili sandaletti neri con i buchi sulla pianta del piede e il cinturino.
Non le erano mai piaciuti quei sandali, nonostante fossero molto di moda perché tutte le bambine e i bambini della sua età li portavano. Ed erano certamente di buona fattura, perché per le calzature i genitori non avevano mai badato a spese.
Ma la cosa peggiore era forse il taglio di capelli: un caschetto cortissimo, che la parrucchiera non si era neanche data la pena di sfilare per alleggerirlo, e una frangetta tagliata di netto a metà fronte, davvero imbarazzante.
Con questo look si accingeva trionfante alla performance: doveva essere un successo.
E così fu: recitò la sua parte senza sbagli, non incespicò e riscosse numerosi applausi, inclusi quelli della madre, quella volta presente.
*
Gaia era la migliore amica di Diana: non sapeva come si erano scelte, forse non ci fu nemmeno un inizio, ma accadde tutto in modo spontaneo. Avevano cominciato a condividere i giocattoli, a sedersi nello stesso tavolo in mensa, a tenersi per mano quando correvano in cortile ed ecco costruita un’amicizia.
Allora non ci voleva molto a stabilire un legame, nessun giro di parole né patema d’animo, nessuna paura di essere respinti né timore di affezionarsi troppo. L’innocenza, la spontaneità, la gioia erano gli ingredienti essenziali.
Con Gaia fu così: erano felici di scambiarsi i pennarelli, di giocare con la stessa bicicletta, di dormire in brandine vicine e accostare anche i loro peluches, di difendersi vicendevolmente dai dispetti dei maschi.
Le giornate trascorrevano serene e spensierate e le due amiche crescevano insieme, con il sole negli occhi e nel cuore.
Quella mattina all’asilo le aspettava una novità: il nonno di Gaia, falegname come il nonno materno di Diana, aveva montato un recinto di legno nella stanza in cui erano radunati tutti i giocattoli. Lì per lì non fu chiara la funzione della nuova costruzione: era sbilenca e piuttosto insignificante ad una prima vista.
La maestra Donatella spiegò che quello sarebbe stato uno spazio riservato ai giochi di gruppo e che al suo interno vigevano regole ben precise: bisognava togliersi le pantofole per entrare; non era concesso portare giochi sprovvisti della propria scatola o astuccio; era severamente vietato introdurvi pennarelli o colori per evitare di sporcare il legno.
La maestra disse che tutti ci sarebbero andati, ma ciascuno secondo il proprio turno, provocando una vera e propria gara tra coloro che volevano usufruirne per primi.
La maestra Donatella era affiancata da Elisa: erano entrambe molto pazienti e competenti e sapevano come farsi obbedire; la prima era più autoritaria ed Elisa sembrava a volte sottomessa da lei, ma tutte e due sapevano guadagnarsi l’affetto dei bambini.
Per incutere un po’ di sano timore e dimostrare cosa attendeva chi non si comportava correttamente, Donatella aveva inventato il castigo della sedia rossa. Chi trasgrediva le regole doveva sedere sulla sedia rossa posta nell’angolo, con la faccia rivolta al muro, e restare fermo immobile fino a che lei stessa non avesse dichiarato scontata la pena.
Avevano tutti gran timore di far quella fine e nessuno avrebbe voluto essere deriso dagli amici per essere stato tanto sciocco, così cercavano di fare del loro meglio per non incorrere in un simile e spiacevole castigo.
MANUELA
A volte mi guardo intorno e ciò che mi circonda mi appare estraneo, la vita di prima così lontana.
Nemmeno da ragazza sono mai stata libera di disporre del mio tempo, ma avevo dei momenti che mi regalavano soddisfazione e svago: lavoravo in ufficio in città e la domenica andavo in campagna a fare il picnic con la mia famiglia.
Mia madre preparava il cestino con la tovaglia a quadretti, i piatti di porcellana, i bicchieri di vetro e si raccomandava di scegliere un posto vicino ad un ruscello, per poter lavare le stoviglie; mio padre si occupava di caricare in auto il tavolo e le sedie e spesso invitava gli amici che avevano il negozio di ferramenta in paese.
Io giocavo a palla con mia sorella e mio fratello, oppure immergevo i piedi in acqua, stando attenta a non allontanarmi troppo dalla riva, perché non ho mai imparato a nuotare.
Erano giornate semplici, che scorrevano tra sorrisi sinceri e partite a carte, una coperta stesa sul prato, con gli spuntoni secchi che a volte la bucavano da parte a parte.
Dopo essermi sposata e avere avuto le bambine, ho accettato di lavorare al ristorante con mio marito: ho imparato in fretta, il lavoro mi piace e ritengo di svolgerlo con professionalità, ma la mia vita è cambiata radicalmente, confinandomi in questo paesino di montagna da cui scappo una volta ogni dieci giorni, per sbrigare delle commissioni o andare a trovare i miei genitori.
Per un attimo torno a quei giorni, alle scampagnate, alle corse nel laboratorio da falegname di mio padre in mezzo alla segatura, all’odore della colla vinilica che stendevo e facevo seccare sulle dita, ai ritrovi in piazza, ai dischi in salotto la domenica, dopo aver sbrigato le faccende domestiche che mia madre assegnava a me e a mia sorella.
E mi rendo conto di avere dei ricordi felici e preziosi, che ho raccontato tante volte alle mie figlie e che posso condividere ancora con tutta la mia famiglia, quando ci ritroviamo nelle occasioni di festa.
Non è stato facile adattarsi ad un ambiente e ad uno stile di vita diversi: qui il lavoro viene al primo posto, non c’è spazio per altro, niente picnic o gite domenicali, cene o pranzi in compagnia.
Questo cambiamento è avvenuto velocemente e a volte mi chiedo come sarebbe stata la mia vita se avessi compiuto altre scelte.
Le mie figlie sono arrivate una dopo l’altra e hanno riempito le mie giornate, tenendomi molto impegnata; Mario ha continuato a lavorare, aiutandomi nei pochi momenti liberi.
Mia madre e mia suocera non mi hanno dato una gran mano, perché a loro volta occupate nelle attività di famiglia.
Mi sono sentita stanca e sola alcune volte; mi sono vista trascurata, con le borse sotto gli occhi e la ricrescita, sempre a spendermi per gli altri senza lamentarmi, per farmi vedere volenterosa, rispettosa e seria nei confronti di mio marito e dei miei suoceri.
Spesso ho messo in dubbio la mia capacità di gestire una famiglia: mi sono detta che forse mi era piombato addosso tutto troppo presto e mi sono chiesta se dovessi fare di più. Poi però ho scacciato i pensieri negativi e con determinazione ho portato avanti i miei doveri di moglie e mamma, perché volevo dimostrare a me stessa e agli altri che potevo affrontare la situazione: i sorrisi, gli abbracci e i successi delle mie bambine mi hanno ripagato di tutti gli sforzi; il rispetto e la presenza costante e sincera di mio marito mi fanno dire ancora oggi che sono sempre stata al posto giusto e che non avevo bisogno di dare conferme a nessuno.
Oggi
II.
I primi mesi in ufficio furono intensi: Diana aveva molto da imparare e non sempre osava disturbare Marcella, che spesso svolgeva anche mansioni non sue, contattando sindaci e giornalisti, cercando sponsor, chiedendo preventivi per location storiche.
A causa di tutte quelle incombenze, non era sempre di buon umore e in un paio di occasioni aveva risposto in modo brusco a Diana, che aveva cercato di ricorrere al suo aiuto solo in casi urgenti.
Alcuni giorni era davvero dura: dopo una decina di ore stressanti al lavoro, Diana rincasava e si trovava sola. In quei momenti provava nostalgia di casa: le mancavano la cena presto al tepore del camino, il rumore del taglialegna nei sabati autunnali, la sua libreria, le distese di margherite in giardino, le risate della gente al bar.
Pensò per un attimo anche alle sere sul divano con Samuele, in mano una tazza di tisana e in tv un film horror.
Forse aveva ragione lui: era stata un’egoista e aveva mandato tutto all’aria per accettare quel lavoro che l’aveva portata lontano dalle sue abitudini e sicurezze.
Eppure anche Samuele ora viveva altrove: terminati gli studi di biologia, si era trasferito al mare e divideva la sua vita tra esperimenti di laboratorio e pubblicazioni su prestigiose riviste scientifiche.
Dopo aver ceduto ai ricordi, Diana tornò alla realtà e, per dimostrare a sé stessa che non aveva sbagliato ad assecondare le sue ambizioni, si buttò sul lavoro: si informava, studiava, cercava ispirazione sul web.
Era appassionata di arte, ma si sentiva impreparata in fatto di allestimenti di mostre e cominciò a prendere in considerazione l’idea di frequentare quel circolo di arte e cultura, “Gli inquadrati”, in cui si era imbattuta navigando in rete: forse così avrebbe potuto approfondire alcune conoscenze che ancora non padroneggiava e che le avrebbero fatto acquistare sicurezza anche con Marcella, di fronte alla quale continuava ad essere in soggezione.
Avrebbe addirittura potuto fare amicizia con qualcuno: quando aveva preso casa in città, pensava che avrebbe avuto una vita più movimentata, invece al momento le sue giornate trascorrevano tra casa e lavoro, senza emozionanti novità.
Quando si sentiva sfinita a causa di questi pensieri, Diana andava a dormire e solitamente il riposo della notte riusciva a ristorarla per affrontare con energia una nuova giornata.
Quella mattina Marcella le aveva chiesto di presentarsi in ufficio un’ora prima, perché dovevano verificare le misure di alcuni quadri per decidere come disporli presso la sala esposizioni che si trovava al piano superiore.
Ormai aveva capito di doversi prestare ad una serie sempre diversa di variazioni d’orario; da quando aveva iniziato a lavorare lì, non aveva mai staccato prima di sera e molte erano state le volte in cui era entrata in ufficio con largo anticipo.
Almeno lei e Marcella non erano le uniche e Diana ebbe la sensazione di trovarsi nella redazione di un giornale, tale era il via vai che la circondava.
Pensò che una colazione in compagnia, con cappuccino e brioche, avrebbe potuto allietare gli animi, ma non c’era ancora quell’affiatamento tra colleghi e si sentì fuori luogo anche solo ad averlo immaginato.
‹‹Vieni, andiamo di sopra. Quando avremo terminato, mi aspettano una serie di telefonate e un appuntamento con il sindaco. Se riesco, voglio anche fare un sopralluogo al palazzo di via Carso. Mi accompagni?››, chiese Marcella, quasi senza salutarla.
Quella donna sembrava non dormire mai: il suo aspetto era sempre impeccabile, con il trucco fresco, i capelli ben pettinati e i completi ben stirati.
Diana avrebbe voluto risponderle che quel pomeriggio aveva un impegno e che cominciava ad essere un po’ infastidita di dover sempre stravolgere i suoi programmi.
‹‹Certo, vengo volentieri››, disse invece.
Si offrì poi di andare a prendere le tele che dovevano visionare e si diresse quindi nella stanza accanto, dove erano state depositate.
Fu sorpresa di trovare il collega delle pubbliche relazioni, di cui non ricordava il nome: le dava le spalle e stava seduto su una panca, come assorto, ad osservare una copia de La vocazione di San Matteo del Caravaggio.
Si fermò un istante anche lei, attenta a non disturbarlo, e per la prima volta quel luogo le apparve stranamente quasi familiare.
Silvia Broglino (proprietario verificato)
Una lettura in cui perdersi…
Consigliato!
Simone Margaro (proprietario verificato)
Ultimamente, siamo talmente abituati a vivere giorno per giorno la nostra vita che ci dimentichiamo di apprezzare e metabolizzare le fasi della nostra crescita. Questo libro, già dalle prime pagine, invita a riflettere sulle tappe che ognuno di noi deve affrontare lungo il proprio percorso.