Un giorno, di 2 anni fa, la mia vita ha iniziato ad accumulare una serie di eventi e cambiamenti che le hanno inciso una ferita aperta senza punti, uno strappo secco, deciso, forse irreversibile, come si fa con i fogli dei libri, con i fiori che crescono nei campi in primavera, per raccoglierli in mazzi colorati, e con le foglie, quando il vento d’autunno le fa cadere dai rami e tutte vengono raccolte e spazzate via dal suolo.
Piccole parti di un qualcosa di più grande a cui, fin dalla nascita, si trovano attaccate con radici forti e possenti e che poi, in modo naturale, si staccano e iniziano a fluttuare da sole tra il soffio del vento e le nuvole bianche.
E come foglie, anche noi ESSERI UMANI, abbandoniamo i nostri rami ben saldi e quando giunge il momento, ci libriamo in volo con le nostre ali, quelle che non credevamo di avere ma che spuntano fuori quando discorsi come “crescere e maturare“ bussano alla porta e si accomodano come ospiti indesiderati a cui non sai minimamente che dire.
Ristagnano per giorni nel tuo nido familiare, facendoti visita nei momenti di silenzio, ma riescono ad importunarti anche quando effettivamente non c’entrano nulla; perché il futuro sa essere decisamente insistente.
Diventano l’argomento gettonato dei post 18, quando la tua vita da adolescente liceale termina e quindi credi per un attimo, che le tue preoccupazioni siano concluse definitivamente, archiviate in quel diploma che aveva messo fine a quei 5 anni che erano stati madre di ogni nuova e possibile sensazione.
Ma in realtà, capisci sempre più, che la vita è come una sorta di grande libro, diviso in capitoli e alla fine di ognuno di questi te ne aspetta sempre un altro dopo, con l’unica differenza che, nella vita reale, non hai nessuna possibilità di sbirciare il finale.
Ma in fin dei conti, se tu potessi sapere quando lascerai questo mondo, in che modo e cosa effettivamente il tuo creatore ti dirà
quando ti presenterai a lui…andresti davvero fine in fondo per scoprirlo?
Capitolo 1
Ad un certo punto sei come costretto a torturare il tuo cervello affinché prenda una decisione: “Qual’è la prossima mossa amico?” gli ripeti costantemente.
Vorresti riuscire ad immaginare la strada giusta da percorrere, sperando di non fare errori che ti portino indietro, di nuovo al punto di partenza.
Per questo provi a programmare la tua vita, plasmandola affinché il risultato che ne esce fuori sia esattamente quello dentro la tua testa.
Ma ovviamente non sai che, per quanto tu possa provare a pianificare ogni singola cosa in ogni singolo suo minimo dettaglio, niente va come lo avevi organizzato.
E forse, è giusto cosi.
E’ solo che a volte mi sembra di essere la protagonista di un videogioco e che i comandi non siano nelle mie mani, in cui salto disperatamente da un fungo all’altro e non so effettivamente perché lo sto facendo, ma per inerzia continuo a correre prima che il mostro “tempo” mi raggiunga e mi superi facendosi completamente beffe di me e guardandomi mentre dietro di lui, perdo liquidi da ogni parte del corpo e mi agito quasi servisse a qualcosa.
Consigli? Beh, se c’è una cosa che ho capito è che crescere non è facile e forse rientra in quella lista di cose di cui hai paura, al posto numero due, proprio al di sotto dei serpenti.
Ciò che devi sapere è che puoi decidere di non avere un incontrato ravvicinato con un rettile(forse) ma non puoi contrastare un meccanismo di vita così inevitabile.
La crescita personale prevede un itinerario, non completo, di un viaggio per cui serve esclusivamente un biglietto per un solo passeggero…tu! Peserà tutto sulle tue inesperte spalle, niente più bolle di sapone in cui i tuoi genitori ti nascondevano da piccola, ogni volta che potevano, anche inconsapevolmente.
E per quanto questo ti facesse sentire amata, quella bolla ti ha protetto così tanto da ogni difficoltà, che se adesso te ne arrivasse una proprio sotto al tuo naso, non sapresti riconoscerla…ne affrontarla.
Un po’ come quando i nostri anticorpi, non riescono a rilevare i propri nemici, dimenticano come usare i loro pugni magici d’acciaio
e d’un tratto ti ritrovi con l’influenza e mia madre era così protettiva che probabilmente nemmeno quella mi avrebbe mai colpito; compiendo però uno degli errori educativi più grandi: quello di sottrarti al dolore e alle delusioni, credendo di dividere in due parti uguali i tuoi pensieri negativi rendendoli meno pesanti,
moltiplicando poi in realtà, la tua condizione di disagio e smarrimento… seguendo quasi una confusionaria ed imprecisa equazione matematica.
A volte i genitori sanno che la cosa giusta da fare è lasciarti libera di sbagliare, perché gli errori sulla pelle sono decisamente maestri di vita più efficienti, ma alla fine non sono mai pronti a vederti cadere. Ed è proprio quando sono precipitata sotto gli occhi increduli di completi sconosciuti, ho sentito il bisogno di trovarmi in quella bolla ancora per un altro po’.
Capitolo 2
Sono precipitata come un frutto da un albero frustato dal vento, come una palla di neve lungo una discesa…lasciata sul suolo come foglie in pieno autunno.
In realtà posso dire che non è stata del tutto colpa mia, anche se la mia goffa camminata, simile a quella di chi aveva praticamente buttato giu 2,3 bottiglie di vino tra bianco e rosso, mischiati come si fa con le salse dei pub, e la mia famosa tendenza al disordine, potrebbero essere prova del contrario in qualsiasi tribunale “immaginario”.
Immaginario si, perché finche non mi sveglierò, mi tocca lasciare spazio alla mente poiché, se anche solo volessi alzare un pollice per dire che è tutto ok, che sono viva e che riesco perfettamente a sentire mio padre russare accanto a me praticamente ogni notte, non ci riuscirei.
Ho il corpo addormentato e paralizzato, le cellule del mio apparato motorio si stanno concedendo una lunga pausa, mentre quelle del sistema nervoso hanno praticamente organizzato una grande festa, sono in continuo movimento e sembra quasi mi trasportino in posti sempre diversi spingendomi a perdere il contatto con la realtà, come se facessi dei lunghi viaggi e poi tornassi per sentire il ronfo di mio padre, con mio piacere, poiché in fin dei conti è un rumore che mi
ricorda casa, in cui si torna sempre quando le cose iniziano a spaventarti troppo e tutto ciò che ti circonda ti si stringe attorno come lo scotch che sigilla i pacchi dei traslochi.
Il giorno dell’incidente avevo 19 anni e ieri credo di averne compiuti
20.
Lo so perché ho sentito mia madre canticchiare tanti auguri a te nel mio orecchio tirandomi i lobi 20 volte; era una tradizione a cui non riusciva mai a dire addio.
E poi l’ho sentita piangere, così tanto che le lacrime cadevano e toccavano il mio viso continuamente, ma non riuscivo a sentire se fossero calde o fredde.
La maggior parte delle volte mi sembra di sognare e altre di vivere ancora la mia vita soltanto ascoltando le voci quasi soffuse e sempre più distanti della mia famiglia.
Ricordo poco di quel giorno.
Era estate, eravamo ritornati nella nostra casa estiva a San Diego in California, rifugio segreto e sicuro di momenti di gioia e spensieratezza che hanno costruito la mia infanzia serena e felice e che era rimasta chiusa per circa 10 anni.
Fino all’anno scorso, quando decidemmo di tornare per fare visita anche ad alcuni parenti di mia madre e vecchi amici di famiglia; i miei genitori erano decisamente più invecchiati ed io avevo l’aspetto di un’adulta ed un bel po’ di centimetri in più.
La casa aveva una vista sul mare e la strada da percorrere era poca per raggiungerlo.
Amavo trascorrere del tempo sul balcocino che dava sull’oceano, amavo respirare il suo odore e starmene straiada con gli occhi chiusi facendomi cullare dalla tranquillità che abitava nel mese di luglio e dai ricordi che avevo in ogni angolo di quel paradiso terrestre.
Ricordo quando ero piccola e mia madre disegnava la mia altezza sul muro con una grande matita colorata, e il mio sorriso e i suoi occhi lucidi nel vedere quanto velocemente crescessi ogni anno; Ricordo quando giocavo con gli amici dei vicini sul vialetto che portava alla spiaggia…c’era Erika, Paul, Sophia e suo fratello, un bambino completamente ricoperto di lentiggini e ricci dorati che gli coprivano il viso con cui spesso trascorrevo il tempo a disegnare le forme e le immagini che vedevamo nascoste nelle nuvole.
Adoravo quel gioco, perché svestiva la mia creatività mentre guardavo il cielo acquisire tutti i suoi coloro piu belli.
Ricordo anche quando durante una gara con le bici, lungo una discesa, finii per rompermi il gomito…ma continuavo ad andare al mare anche con il gesso che copriva quasi tutto il mio braccio.
Per non parlare delle enormi cene che organizzavamo con
tutto il quartiere, all’aria aperta, con i piedi nella sabbia e i bicchieri pieni per festeggiare e assaporare ogni singolo momento di felicità.
Ma tornando al presente…
Avevo comprato un cappello, di quelli un po’ grandi, perché il venditore mi aveva detto che esaltava ed impreziosiva la mia figura ed il mio stile molto personale e anche se dentro di me sapevo che al 98% lo aveva asserito solo perché aveva bisogno di vendermelo, lo presi lo stesso, affidandomi a quel 2% che mi spingeva ancora a credere nell’umanità, caratteristica che probabilmente da anni si è trasferita e oggi popola un altro pianeta.
Era di paglia, con un foulard rosso attaccato e copriva dal sole cocente delle 2 del pomeriggio.
Il che era decisamente un ottimo motivo per tenerlo sulla testa. Avevo scelto un orario molto caldo, un punto morto della giornata, perché era raro trovare anche i pesci nelle immense acque americane.
Tutti approfittavano di quell’intervallo di tempo per mangiare a riva facendosi bagnare i piedi dalle onde, fare un aperitivo fino a che il sole non spariva del tutto o per starsene a casa, a schiacciare un sonnellino, così per ricaricare le batterie e poter poi ritornare al dolce far niente.
Alla fine la vacanza è questo, un modo per permettere ad ogni parte del corpo di rilassarsi dopo un un pesante inverno freddo; anche gli
stessi pensieri preparano le valigie assieme a te e poi ti aspettano sotto l’arco della porta quando rientri.
Stavo mangiando anche un gelato, rigorosamente al limone, un classico insomma, che non smette mai di regalare quelle giuste vibes estive.
Qualche giorno prima di quello avevo conosciuto anche un ragazzo, un figlio del mare direi, probabilmente neanche esisteva davvero, anche se io ero sicura di averci parlato più volte ed era la causa primaria, o forse direi l’unica, della mia presenza al mare a quell’ora.
Si chiamava Peter.
Ricordo che l’ultima volta che l’ho visto, la sua tavola da surf aveva urtato in pieno la mia testa vuota.
In acqua sono davvero una frana, ancora chiudo le narici del naso con le mani, ho paura di tuffarmi da scogli o punti alti e i miei occhi si perdono nel blu trasparente quando sono da sola, restando imbambolata senza far niente.
E quindi scontrarsi con un oggetto mi sembrava il minimo per la mia distrazione.
Peter aveva gli occhi più blu del mare e quasi credevo di vedere doppio quando posavo i miei sui suoi e poi sulla distesa d’acqua in cui ero immersa…o forse era solo la botta ricevuta diritta in fronte. Lui si è scusato e mi ha mostrato subito il suo sorriso e lì, ho capito, che forse avevo evitato la mia solita figuraccia.
Abbiamo parlato per ore, come era nostro solito fare ed ogni volta avevo la sensazione di conoscerlo da sempre.
Mi ha offerto il gelato che stavo mangiando mentre rientravo, insieme ad un buon succo fresco, con ben 3 cubetti di ghiaccio, che preferibilmente avrei appoggiato sul bernoccolo che avevo in cima alla testa che mi faceva assomigliare al grande Polifemo, se non fosse per la presenza degli altri due occhi, che fortunatamente, erano ancora li.
Ma regolarmente e quotidianamente, senza nessun promontorio sulla fronte come fosse un enorme terzo occhio, io mi sentivo, invece, esattamente come “Nessuno”.
La prima volta ci eravamo incontrati ad un falò sulla spiaggia; qui i falò sono esattamente come quelli dei film americani che trasmettono d’estate e che non puoi fare altro che invidiare; quei tipi di storie che non credi di poter vivere mai e che ti accendono il desiderio folle di lasciare tutto e volare dall’altra parte del mondo.
Un mondo così grande, che credo sia importante quanto
necessario poter esplorare per crescere, imparare e confrontare te stesso con altre mille tradizioni diverse.
Come si dice, “in un universo così immenso non possiamo essere soli”, non potrai di certo toccare il suolo di ogni paese su questa terra, ma ciò non significa che bisogna restare ancorati all’unica realtà che si conosce.
Come primo incontro fu decisamente imbarazzante ma questo non ha mai ostacolato la sete di conoscenza, l’uno dell’altra.
Sentivo come se ci fosse una sorta di connessione profonda che, generalmente, prende il nome di “legame karmico”, cioè “incontri che avvengono, amori che nascono, rapporti che vengono a crearsi per “guarire”, “risolvere” i conti in sospeso, i conflitti antichi, gli avvenimenti accaduti in una vita precedente”. Il giorno segnato come quello che avrebbe cambiato la mia esistenza per sempre, mi aveva dato appuntamento alla baia del pirata, una piccola oasi meravigliosa a pochi passi dalla spiaggia, in cui l’acqua era più bassa e le persone potevano ordinare da bere direttamente immersi tra gli scogli che confinavano l’oasi.
Avevo accettato senza pensarci un attimo, dato che ormai avevo concesso la mia fiducia al venditore del cappello, mi sembrava corretto approfittare della mia benevolenza anche con un ragazzo più giovane e decisamente più carino.
Quello sarebbe dovuto essere il nostro…primo VERO appuntamento, dopo ben 8 giorni di piccoli incontri improvvisati e senza alcun itinerario preciso, ma organizzati solo dalla nostra naturale e grande voglia di conoscerci.
Lasciai la spiaggia prima di lui col mio gelato ormai parzialmente sciolto sulle mie mani semi abbronzate, Peter intanto avrebbe dovuto terminare il suo orario di lavoro giornaliero al bar della spiaggia pochi minuti dopo, ma io avevo una gran fretta di tornare a casa e raccontare finalmente tutto alla mamma, sotto una bella doccia fresca.
Riuscivo a sentire che grazie a lui avrei potuto di nuovo sperimentare sensazioni impolverate e quasi ormai sconosciute come la fiducia e quindi, per tale motivo, avvertivo l’esigenza di condividere la mia felicità con la mia metà indissoluta, la mia unica migliore amica.
Dovevamo incontrarci alle 5…ma Peter non mi vide mai arrivare.
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