Una corsa feroce nel prato che dirigeva alla masseria.
Il sole a picco, quello del meridione.
Un inseguito e un inseguitore.
Carmelo scappava in quella landa troppo vasta e dietro suo zio. Un tizio che delinqueva dalla minore età. Si diceva avesse rapporti con le capre e che mancasse di rispetto ai preti e alle forze dell’ordine.
Era l’ennesima corsa a perdifiato di Carmelo. Mai aveva detto nulla a sua madre. E non ne avrebbe parlato mai. Ma le cose a galla ci vengono in un istante. E spesso nell’istante sbagliato.
La sterpaglia attraversata senza attenzione e i graffi sui polpacci.
La terra rossa e incolta come la pelle di Carmelo, bambino trafelato dal calore e dalla fatica, rosso paonazzo. Una quotidianità stanca e svilente. Molti paesani lasciavano per trovare lavoro al nord ma quella terra rossa con edifici bianchi, il mare a tre passi e il sole sempre sopra. Abbandonavano la ruralità alla ricerca della modernità e del benessere. Una strada di catrame e i palazzi di cemento armato.
Carmelo amava lo sterrato, la polvere che a breve avrebbe assaggiato, la masseria, ora in rovina ma che un giorno avrebbe risanato.
Lo zio Vincenzo era un figlio di puttana, veloce assai, anche se beveva. Consumatore accanito di whisky da poche lire. Consumatore di rapporti occasionali strappati con forza. Si diceva avesse rapporti con le capre e che mancasse di rispetto ai preti e alle forze dell’ordine.
Quel che non si diceva è che violentava i bambini del paese e spesso uno di quei bambini era suo nipote.
Lo zio Vincenzo era un figlio di baldracca, forte nelle braccia cresciute della manovalanza edile. Spesso ladro di pollame e scippatore delle monete di turisti capitati nel suo Sud. Aveva avuto screzi con la giustizia ma i carabinieri preferivano evitare il contatto con quel nevrotico e nerboruto. Cinquantenne iroso dava sempre scocciature e agli arresti rispondeva con cazzotti. Poi usciva ed era peggio. Senza troppa attenzione sarebbe divenuto un elemento caratteristico del paesaggio. Tutto sarebbe scorso. Gli abitanti avrebbero accettato ed evitato se possibile. E’ come sapere che in quella campagna corre un cane senza catena, che digrigna e morde. Che t’insegue. “Tu la eviteresti quella campagna, no?” così i carabinieri pensavano che la gente avrebbe evitato Vincenzo. Si diceva avesse rapporti con le capre e che mancasse di rispetto ai preti. Sicuramente mancava di rispetto alle forze dell’ordine.
Lo zio Vincenzo, fetido e fetuso, noncurante della sua pulizia. Trasandato in volto, sconquassato da una barba irsuta e ispido anche nei capelli scuri con riflessi rossicci. Masticava spesso uno stecchino da denti che sputazzava per terra. Una poltiglia di legno. Poi rideva, fragoroso e con qualche dente nero. Con alito marcescente. Un pastore lo aveva veduto nei pressi del gregge. Pensandolo capace di un furto lo aveva seguito e preso sul fatto. Con le braghe calate stava inchiappettando una capra. Si lamentava lei e godeva, di un godere atavico e perfido, lui. Il pastore l’aveva insultato, con improperi che avrebbero destato il cattivo dall’atto sessuale. Vincenzo, senza raggiungere coito, aveva estratto il pene dal giaciglio del piacere. Sollevatosi i pantaloni sudici era corso incontro al povero. Gli aveva fatto ingerire tanti denti quanti gli insulti ricevuti. “Ricorda bene, io sono il Male!” aveva sostenuto. Il pastore sdraiato sulla superficie poco fertile del pascolo non aveva inteso la sottigliezza. Lui si chiamava Vincenzo Male. Si diceva mancasse di rispetto ai preti e alle forze dell’ordine. Sicuramente aveva rapporti con le capre.
Lo zio Vincenzo piccino in quella landa troppo vasta. Una corsa feroce nel prato che dirigeva alla canonica. Il sole a picco, quello del meridione. Inseguito. Un prete dietro. Un prete veloce assai perché non beveva alcolici, forte nelle braccia cresciute della manovalanza offerta al Signore Padre. Lo aveva braccato e non era la prima volta. E gli aveva ispezionato l’ano. Lo sentiva Vincenzo, lo sentiva con dolore. L’altro godeva, di un godere atavico e perfido. Lui non si lamentava più.
“Io non temo Dio e non ho riguardo per nessuno!” così gli aveva gridato Vincenzo. Piangente era scappato per ritornare giorni dopo. Con un coltello lungo abbastanza per ferire. Aveva preso in disparte il porco. Appoggiatagli la lama ai coglioni aveva pronunciato: “Da oggi non toccherai più nessuno. Altrimenti, per quanto è vero Iddio, ti taglio le palle e piano piano te le faccio mangiare”. Non c’era bisogno di capire che il piccolo non scherzava. Il prete, terrorizzato, aveva annuito tremante come un frutto maturo chiamato a cadere dalla pianta dalla forza di gravità. Andandosene si era girato: “Ricorda bene, io sono il Male!”. Il pastore di Dio, sdraiato sulla superficie poco fertile del sagrato, aveva inteso la sottigliezza. Lui si chiamava Vincenzo Male. Non si diceva ancora che avesse rapporti con le capre e che mancasse di rispetto alle forze dell’ordine. Sicuramente però, da quel momento, mancava di rispetto ai preti. E con certa ragione.
Carmelo amava lo sterrato, la polvere che a breve avrebbe assaggiato, la masseria, ora in rovina ma che lui un giorno avrebbe risanato. Lo zio lo aveva braccato e non era la prima volta. E gli aveva ispezionato l’ano. Lo sentiva Carmelo, lo sentiva con dolore. L’altro godeva, di un godere atavico e perfido. Lui non si lamentava più. Piangente non era scappato per ritornare giorni dopo. Il coltello, lungo abbastanza per ferire, era già in suo possesso. Non occorreva cercarne uno. Quel pugnale era tra gli attrezzi, nella cassetta da lavoro. Era di suo zio. Prenderlo in prestito non era stato difficile. Non sapeva ancora che non avrebbe fatto in tempo a riporlo. Avrebbe voluto prendere in disparte il porco, appoggiargli la lama ai coglioni e pronunciare: “Da oggi non toccherai più nessuno. Altrimenti, per quanto è vero Iddio, ti taglio le palle e piano piano te le faccio mangiare”. Una storia già vissuta da quel coltello. Ma Carmelo non sapeva. E continuando a ignorare aveva affondato tra le coste dello zio quella lama che portava ricordi. Ricordi segreti.
Quella lama ora era l’arma del delitto. Prima che lo zio svanisse, Carmelo gli aveva detto: “Ricorda bene, io sono il Male!”. Il miscredente, sdraiato sulla superficie poco fertile del prato che dirigeva alla masseria, aveva inteso la sottigliezza. Lui si chiamava Carmelo Male e aveva ucciso suo zio Vincenzo, un uomo che si diceva avesse rapporti con le capre e che mancasse di rispetto ai preti e alle forze dell’ordine.
Quel che non si diceva è che violentava i bambini del paese. E spesso uno di quei bambini era suo nipote.
La faccia dello zio si era spenta in un digrigno sorridente. Sapeva lo zio che quell’attimo era un passaggio di consegne. Un’eredità. Che sarebbe durata un’altra vita.
Di Male in Male. Ora era la vita di Carmelo.
Carmelo avrebbe scontato il suo peccato capitale in un carcere minorile. Nessuno lo avrebbe toccato in modo invasivo. Nessuno lo avrebbe toccato.
Lui ora era il male.
Una strana somiglianza
Quando era partito dalla sua terra rossa, dopo il carcere minorile, mamma gli aveva raccomandato la via che dirigeva verso la Lombardia. I suoi cugini lo avrebbero aiutato a trovare un lavoro per bene. Per lui, che faceva Male di cognome.
Non conosceva il significato di colmo. Una volta un tizio acculturato, che aveva frequentato l’Università a Milano, aveva tentato di spiegarglielo.
“Vedi, io avevo un docente di teatro che prendevamo in giro” fregandosi il naso oblungo “Parlava spesso dei registi e degli attori. Ne conosceva i vizi. Alcuni ce li raccontava con voce roca e finita la lezione, io e la mia combriccola, ci fermavamo a ridere e imitarlo. Lo prendevamo in giro e rendevamo le sue lezioni grottesche” mentre Carmelo ascoltava, il milanese continuava “Tipo … hai presente Carmelo Bene?”.
“Mi stai prendendo per il culo?” aveva domandato diffidente Carmelo.
“Certo che no” l’universitario ancora non conosceva i dati anagrafici del ragazzo che gli si parava dinanzi.
“Dicevo, ad esempio Carmelo Bene … Lui negli spettacoli spesso si attorniava di belle donne semi nude e noi ci immaginavamo che il prof. Baldi dicesse “Oh o – oohhh Carmelo Bene, quel coglione … si attornia sempre di belle fighe … ma non ne scopa nemmeno una oh o – oohhh”.
Poi verso Carmelo: “Sai che tu gli assomigli?”
“A chi, al professore?”
“No, a Carmelo Bene?”
“Mi stai prendendo per il culo?” nuovamente diffidente Carmelo.
“No, dico sul serio, sei uguale. Dimmi, come ti chiami?”
“Carmelo Male”.
“Mi stai prendendo per il culo?” ora diffidente il milanese.
“No” serio, Carmelo.
Quel disgraziato di Milano aveva capito che si trattava di un evento più unico che raro. Un effetto straniante che al pensiero faceva ridere.
Ridere e ridere – ridere e ri ……
“Aaaaaaaaaaaaaaaaaahh aaa – aaaaaaaah” esplose “ma questo è un colmo!”
Carmelo aveva ben capito solo una cosa, che i colmi gli stavano sui coglioni.
Cosa fossero, no.
Quello rideva di lui. Almeno così intese e non poteva retrocedere ad altro pensiero.
Poppommmmm po – poppomm.
Due cazzotti al volto. Un naso oblungo ora a patata americana ma non dolce quanto il tubero.
Qualcuno a fermarlo. Già taurino allora, lui.
Qualcuno a sanargli la mente, senza successo.
Del sangue che pareva pomodoro. Come il cartone animato dell’uomo tigre. Quando suo papà gli diceva “Ma che sangue, quello lì è pomodoro. Fanno finta, hanno le fialette sotto il collo”.
Insomma, aveva fatto una fine brutta il milanese.
E ora Carmelo si doveva dirigere in provincia di Milano.
Era stato il primo a notare la somiglianza. Quello lì di Milano.
Altri poi avrebbero notato. Carmelo aveva deciso di vedere sto tale che si chiamava come lui ma che parteggiava per i buoni. A casa di un conoscente con la linea aveva cliccato su YouTube. Quasi si sbagliava digitando YouPorn.
Carmelo Bene – click.
Le immagini mostravano un uomo che lo guardava in modo intenso, quasi torvo e ci si specchiò. Perché l’immagine gli sembrava resa da un vetro che lo ritraeva invecchiato.
Certo, un vagheggio iniziale. Ma poi.
I due conoscenti avevano capito che si trattava di un evento più unico che raro. Un effetto da stralunato che al pensiero faceva ridere.
Ridere e ridere – ridere e ri ……
“Aaaaaaaaaaaaaaaaaahh aaa – aaaaaaaah” esplosero.
E Carmelo Male: “Ora ho capito cos’è un colmo”.
L’altro lo guardava, non conoscendo quell’evento passato e non avendo idea, pertanto, di quanta fortuna possedesse ora. Non avrebbe ricevuto alcun cazzotto in volto.
“Lo vedevi da piccolo l’uomo tigre?” Chiese Carmelo.
“Sì, mi piaceva un sacco”.
“Ti va di vedere un paio di episodi?”
“Come no”.
“Quello di vampiro e poi quello di Grande Zebra”.
“Io non me li ricordo”.
“Li vedevo sempre con mio padre, avrò avuto quattro anni”.
“Eccoli, ne faccio partire uno”.
E già Carmelo, meno Male per un momento, col pensiero vòlto al passato, ricordava il pomodoro. Il sangue che passava per il suo miocardio sapeva di sugo e profumava quell’attimo del dopobarba di papà. Tanti, troppi, anni fa.
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