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Come se ti avessi avuto

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Consegna prevista Luglio 2026
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Giovanni porta con sé il peso di un’assenza che lo ha segnato per tutta la vita e che cresce intorno ad essa.
Martina matura con una verità che non le è mai stata negata, ma con una figura che è stata un’assenza difettosa.
Dovranno aspettare tanto tempo prima che le loro strade possano incrociarsi. Nulla è semplice: la distanza, i silenzi, la rabbia e la paura sembrano più forti di qualsiasi desiderio di conoscenza.
Due voci, due esistenze intrecciate. Lui dal passato che rincorre il presente, lei dal futuro che torna indietro, a cercare radici più solide. Due vite che si ritrovano in un certo preciso momento, come se ogni cosa, prima o poi, trova spazio per far incontrare due anime unite dal destino.
Un romanzo di formazione nel senso più puro del termine. Una storia d’amore autentica, perduta e ritrovata, fatta di ferite profonde e attese interminabili, di ciò che resta anche quando tutto sembra finito, di ciò che urla anche quando intorno è silenzio.
Come se ti avessi avuto.

Perché ho scritto questo libro?

“Come se ti avessi avuto” è una storia che volevo scrivere da tanto tempo: una storia che sfida il tempo, tra rancore, indifferenza e rassegnazione, ma che riesce a trovare il modo per scalfire tutto, con la forza dell’amore. E’ un romanzo che nasce dall’urgenza di dare voce ai legami che resistono alle distanze, alle ferite: quelli che non si scelgono, ma che ci abitano dentro. Esplorare l’affetto nella sua forma più fragile e tenace: quello tra un padre e una figlia.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Giovanni

2 ottobre 1967

La città si risvegliava lentamente con il canto lontano dei gabbiani ed il profumo salmastro che si mescolava all’aria tiepida d’autunno. Era un giorno speciale per la famiglia Costa: in una piccola casa del centro, poco dopo una delle tre grandi porte che circondano il centro storico con le viuzze di pietra, quella che si chiamava in gergo Porta Mare, ma che in realtà ufficialmente era Porta Garibaldi, tra il vociare dei marsalesi ed il vento di maestrale, nascevo io, Giovanni.

Figlio di generazioni di pescatori, nato da un amore bello e puro come era quello tra i miei genitori: Giuseppe e Ninfa, giovanissimi – lui appena ventenne, lei ne aveva compiuti diciotto pochi mesi prima – si apprestavano a mettere su famiglia, dopo un matrimonio con i classici duecento invitati e la gravidanza arrivata puntuale – così come si usava all’epoca, dopo esattamente tre mesi dalle nozze – mamma e papà, mi accoglievano con amore e paura. Perché quando nasce un figlio cominciano i timori e non si può più stare tranquilli. 

Sono cresciuto con il rumore del mare che, a seconda del vento, si sentiva dalle finestre aperte, ed anche col suo odore, quando mio padre tornava a casa faceva talmente tanto odore di mare, con i suoi secchi pieni di pesci, che ad un certo punto mi veniva il voltastomaco, tanto che per anni non ho mangiato pesce e col tempo sono anche diventato vegetariano. Pensate che figlio ingrato, irriconoscente e disagiato che sono stato agli occhi di mio padre. Per svariati motivi, non solo per questo. Però sono cresciuto con il calore di una famiglia che, nonostante le difficoltà, non mancava mai di sorridere. 

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Imparai molto presto il valore della fatica, il senso di appartenenza alla terra arida e generosa allo stesso tempo, dove le uve crescono cariche di sole ed il pane con l’olio di olive del cugino Vincenzo era la merenda del pomeriggio: “Mangia, chi ti fa crisciri beddro e forte”, diceva Ninfa, ed io ci credevo. Mia mamma la chiamavo per nome, Ninfa, fin dal giorno che ho imparato a pronunciarlo, forse intorno ai tre anni, perché mi piaceva troppo quel nome: rievocava qualcosa di storico, di antico, di magico. Mio padre invece è sempre stato papà, anche con un segno di rispetto ed una certa adorazione. Mia madre, forse perché ne ero il figlio e quindi la osservavo con gli occhi dell’amore, per me era bellissima: portava i capelli lunghi e lisci, castani come la terra bagnata, con la frangia che le cadeva sugli occhi grandi e scuri, sempre un po’ malinconici. Vestiva gonne larghe a fiori che svolazzavano attorno alle ginocchia e camicette strette in vita. Aveva sempre un sorriso timido che sembrava aprirsi solo quando credeva di non essere vista. Mio padre invece aveva mani grandi e forti, pieni di calli, quando andavamo in giro e mi prendeva la mano, sento ancora la nodosità delle sue dita intorno alla mia manina di bambino. Aveva sempre un’aria un po’ persa, di quegli sguardi sempre sfuggenti che non sanno mai tenere lo sguardo. Portava i capelli molto corti, già radi a venticinque anni, un paio di baffi folti e gli occhi scuri, ma curiosi, sempre in movimento. Lo ricordo con addosso sempre le salopette verdi o blu che metteva per andare in barca. La domenica invece indossava spesso jeans scoloriti e giacche di velluto con i gomiti rattoppati. Camminava svelto con le mani sempre in tasca. Dovetti imparare a stargli sempre dietro.

Intorno ai tre anni mi fecero conoscere le saline, mi facevano correre tra i vigneti, nelle scampagnate dei 25 aprile e primi maggio, in mezzo alla puzza di pecore: “Respira, chi ti fa bene ai polmoni”, questa sempre Ninfa. Per mia mamma qualsiasi cosa faceva bene a qualcos’altro. Ma nonostante io crescessi con il culto della Sicilia, dei suoi odori e delle sue bellezze, fin da piccolo il mio cuore si spingeva altrove. Sognava di vedere il mondo. Studiavo come un matto: avevo imparato a leggere ancor prima di andare a scuola, perché mi piaceva la geografia, le capitali, le bandiere, ero affascinato dai pianeti, dalla galassia e dalla luna. Però crescere in una città siciliana così lontana dal “continente” ti spinge alla chiusura, perché la Sicilia è bella come una madre e spietata come un carceriere.

Imparai a nuotare nelle acque melmose dello Stagnone, a conoscere ogni angolo del porto, a distinguere i differenti rumori delle barche al ritorno dal mare. 

I primi anni di vita non li ricordo, ma se dovessi rievocarli penso che sarebbero belli. Ricorderei le braccia di Ninfa e di mia nonna Maria, la madre di mia madre, ricorderei l’odore delle frittelle di uova di mia nonna Nunzia, la madre di mio padre, la sua pasta al forno, le sue torte, era una grande cuoca. Vivevamo un po’ distanti, ma lei veniva molto spesso a trovarci. Secca secca, minuta minuta, ancora oggi non so come si reggesse in piedi e avesse fatto a partorire e crescere otto figli, sette maschi e una femmina, la mia zia preferita, zia Antonina, per me semplicemente zianina, tutto attaccato.

Sono cresciuto in mezzo al vento di scirocco che faceva sbattere le persiane e spazzava tutto. Da mio padre ho preso la pazienza dell’attesa, elemento fondamentale per qualsiasi pescatore, ma non la sua stessa passione. Fin da quando avevo quattro anni, a cadenza regolare, cominciò a portarmi con sé in barca, ma io non amai mai quella vita. All’inizio ne ero anche affascinato, ma più che dal mestiere, dai gesti sicuri e forti di quell’uomo così fisicamente diverso da me. Mio padre a vent’anni sembrava già averne quaranta e a quaranta ne dimostrava sessanta. 

Sono stati anni semplici quelli: a casa si mangiava spesso pesce, quello che rimaneva dalla vendita della giornata, oppure qualcosa che portavano le mie nonne. 

Ricordo le lotte per arrivare a fine mese, fin da piccolo. Ricordo i primi calci ad un pallone con i bambini vicini di casa, che abitavano nello stesso palazzo o nei “chiani” vicini. 

Non ho avuto un’infanzia facile di certo, a parte i problemi economici, tanto che cominciai a lavorare che ero ancora un bambino. E poi penso a Ninfa e al suo stare sempre male. Fin da che ho memoria, ricordo mia madre che vomitava spesso, che mangiava poco, sempre a letto per forti dolori. Aveva il cancro, glielo diagnosticarono con non poche difficoltà – visto che non c’erano all’epoca ancora le stesse tecnologie di oggi – pochi anni dopo la mia nascita. Tumore al seno. Poi, a seguito di un’operazione per asportarle il seno destro, iniziò la chemioterapia. Io avevo cominciato da poco la prima elementare e lei non mi veniva a prendere o a lasciare mai, perché si vergognava dei pochi capelli e non aveva forza spesso di alzarsi. Passata quella fase acuta, per qualche anno la ricordo tornare in forma, ci fu un giorno di grandi festeggiamenti, quando le dissero che l’aveva sconfitto. Io ero piccolo, pensavo avesse sconfitto qualche essere malvagio, perché tanto lo sapevo che era forte abbastanza per combattere qualsiasi cosa. Lo pensavo, ma poi mi dovetti ricredere qualche anno dopo, ma quella è un’altra storia.

Martina

27 giugno 1987

Sono nata in una stanza piccola, con le pareti color crema e l’odore di disinfettante. Mia madre dice che quel giorno a Torino c’erano più di quaranta gradi.

“Era una giornata bloccata”, così l’ha sempre definita lei. 

Una giornata in cui in giro non c’era quasi nessuno e in quella piccola stanza d’ospedale, regnava il silenzio, spezzato soltanto dalle urla di qualche mamma delle stanze vicine. 

Era come se anche il cielo si fosse messo d’accordo per abbassare la voce e lasciarmi entrare nel mondo con dolcezza, senza nemmeno la presenza di una nuvola.

Non ero stata voluta. 

Non ero stata attesa con gioia. 

Solo mia mamma Elena mi attendeva, ma non come si dovrebbe attendere un figlio, con trepidazione e amore, ma con ansia e tristezza. 

Nei primi mesi abbiamo vissuto in una casa che non era nostra. Una stanza, per la verità. Era della cugina di mamma: una donna cortese e gentile, che ci aveva fatto spazio a casa sua, nonostante le capienze risicate delle case del nord. 

C’era un letto singolo con il materasso duro e una piccola culla praticamente attaccata ad esso, una finestra che dava su un cortile grigio ed un piccolo armadietto che concludeva il tutto. Anche la cucina non era grande, ma la cugina di mia mamma non c’era mai, andava via la mattina presto e tornava la sera tardi. Io e mia madre eravamo sempre sole. Lei cucinava nel piccolo fornello della cucina, ma so che in quel periodo mangiava molto poco, andava avanti a riso in bianco e minestrone surgelato, e mentre lei cucinava io fissavo le ombre muoversi sul soffitto e la luce blu del fornellino a gas.

Non ho molti ricordi nitidi di quegli anni, ma sento ancora il suono di lei che si girava nel letto ed allungava un braccio per controllare se respiravo, se dormivo, se nel frattempo qualcosa o qualcuno mi avesse portato via. 

Ero l’unica sua cosa preziosa.

Ricordo il suo profumo, misto a caffè e crema per le mani. E una filastrocca strana che inventava ogni sera per farmi dormire, me la cantava sempre e la ricordo ancora oggi: “Sotto un cielo di zucchero blu, dorme la bimba nel nido di piume, ha un calzino nel naso e nel cuor fa cucù una lucciola pazza che si accende in un barlume. Nel suo biberon ci nuota un folletto, che dice buonanotte col ciuccio in bocca, ed un topolino che ha fatto il balletto, saltella felice, poi inciampa e trabocca. Sogna giraffe che fanno il solletico e polpi che suonano una canzone discreta, è un piccolo sogno buffo e sincero, una luna in pigiama, una fata segreta”. 

Poi, quando avevo quattro anni, siamo partite. Una valigia blu, il mio peluche ormai logoro, e la sua decisione ferma: Lugano. “Là troveremo posto per noi”, mi disse. E io, anche se non capivo cosa volesse dire, le credetti.

Ricordo il viaggio in treno, la pioggia che correva sui finestrini e il panino col prosciutto che mamma aveva preparato. Aveva l’aria tesa, ma ogni tanto mi sorrideva, e quando lo faceva io sentivo che niente di brutto poteva succedere.

A Lugano la vita era un’altra cosa. La casa era piccola, ma accogliente, ed era soltanto nostra. Un bilocale con il parquet scricchiolante, le finestre alte e una cucina che profumava di limone e di inizio. 

Io andavo all’asilo con un grembiulino bianco e mamma aveva trovato lavoro in una lavanderia, una di quelle che la facevano puzzare di candeggina ogni volta che tornava a casa.

Eravamo solo noi, è vero. Sempre e solo noi. Ma a me, quand’ero piccola, bastava. Anche se mi mancava qualcosa, qualche abbraccio in più, un “brava” detto più spesso… ed un padre. Ma ancora non me ne rendevo conto.

Crescendo ho capito che quell’infanzia fatta di poco, di incertezze e solitudine, era in realtà piena di presenza. Che l’essere soli in due, basta, se ci si riempie d’amore. Che mia madre ha trasformato ogni mancanza in forza e ogni vuoto in possibilità.

Ed in questi giorni penso spesso a quella bambina con il grembiule bianco e alla madre stanca che non mollava mai. Spero di riuscire ad essere, un giorno, metà di quello che è stata lei per me. Perché mi ha dato, con grandi difficoltà, quel senso di casa che non ha bisogno di muri grandi per essere vero.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Piero Stampa
Mi chiamo Piero Stampa, sono nato a Erice 42 anni fa, oggi vivo a Mazara del Vallo con mio marito Andrea e due splendide trovatelle di sei e due anni, due cagnoline che riempiono la vita di gioia e preoccupazioni.
Dopo vari errori e scelte scolastiche sbagliate, ho trovato nel canto la voce che non riuscivo ad avere, le emozioni che non riuscivo ad esprimere, senza filtri. Dopo diversi concorsi canori, serate live e lavori che mi costringevano a stare seduto dietro una scrivania, ho deciso, di lasciare andare un lavoro sicuro, preferendo la mia integrità fisica e mentale, allontanandomi da un ufficio che mi faceva stare male, per riprendere in mano la mia vita e la mia creatività perduta. Così, da gennaio, ho ritrovato la mia chitarra, la voce e le pagine bianche hanno ricominciato a riempirsi di parole su fogli word, tornando a scrivere tutto quello che tenevo dentro da anni.
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