712 giorni di un viaggio intimo e sincero nella vita di un giovane uomo che, dopo anni segnati da bullismo, incomprensioni e ferite mai curate, decide di guardarsi davvero allo specchio. Tra sedute di terapia, lavori quotidiani, amori sfiorati e rapporti familiari complessi, prende forma un percorso di crescita che trasforma il dolore in consapevolezza.
Dalle estati come animatore nei villaggi turistici ai tentativi nel mondo dello spettacolo, dal legame viscerale con Roma alle paure che paralizzano, ogni episodio diventa un tassello per comprendere cosa significhi scegliere i propri pensieri, lasciarsi amare e accettare la propria vulnerabilità.
Introduzione
“Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino. Noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana, e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria, sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita.”
Robin Williams, L’attimo fuggente
Ci ho messo cinquecentosettantasette giorni. Aggiungi, poi, un bonus malus di centotrentacinque, per arrivare a un totale di settecentododici giorni, quasi due anni: il tempo necessario per smussare degli angoli, cicatrizzare quei lividi, far pace con me stesso, con quella parte di me atrofizzata nel tempo. Settecentododici giorni per riallineare l’asse della bussola, riposizionare il baricentro nel qui e ora, nel mio presente. Il tempo necessario per riavvolgere il nastro, riattraversare certe situazioni, seppur sgradevoli, ancora, un’altra volta.
Momenti passati, masticati e digeriti con fatica, forse troppo in fretta, rimasti accantonati sullo stomaco, in silenzio, per lungo tempo. Davanti alle solite sofferenze che puntualmente mi si ripresentavano, sono stato costretto a fermarmi, a smetterla di procrastinare. Sono stato costretto a riaprire quella porta, a rianimare quelle emozioni, quelle sottopelle; a rituffarmi in quella stanza, senza luce, senza se e senza ma. Ho dato loro ulteriormente attenzione, più di quanta non ne abbia già data in passato, cambiando però angolazione, punto di vista, accettando l’incomprensibile, ma reale, possibile, proiettandomi verso quello spiraglio, quella luce: l’essenza.
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Tante cose belle e meno belle, e quelle brutte, quelle che ti provocano dolore, se le spremi fino alla fine, in fondo ti rendono migliore, ti donano un surplus di energia vitale pazzesco: ti rendi conto per davvero cosa è vero e cosa no, cosa è davvero importante.
Sono salito e sceso un sacco di volte dalle montagne russe, giusto il tempo di un centrifugato di verdure. In un lasso di tempo stretto, veloce, ho commesso quasi sempre gli stessi errori. Cadevo, mi rialzavo e di nuovo ricadevo, focalizzando l’attenzione sulla ciclicità degli avvenimenti avversi che mi si scagliavano contro, creando un circolo vizioso, dove anch’io inconsciamente contribuivo a fare la mia parte: essere il mio peggior nemico. Sai che palle, ripetere sempre lo stesso errore, giorno dopo giorno? Eppure è successo. A furia di ripeterlo, qualcosa alla fine ti riesce pure bene, è logico, è matematico. Ciò che però fai fatica a levarti di dosso è quella concezione cronicizzata che ti porta a seguire sempre la stessa strada, a fare sempre lo stesso errore.
Quella condizione di vittima che, quando meno te lo aspetti, ti si innesca in automatico. Sei lì, pronto, ci provi, e insieme a te anche lei, la paura, pronta a farti compagnia, dietro l’angolo, e, nonostante lei, ho capito che un uomo libero senza paure non può capire veramente cos’è l’amore. E se da un lato l’amore è paura, dall’altro è anche e soprattutto libertà. Ho allentato la presa, ho smesso di giocare in difesa. Ho cominciato a riassaporare quei pezzi di vita vera.
È stato un percorso, una metamorfosi. Non metto un punto, una fine, a un era che non c’è, che non esiste più, perché anche se fa parte del passato, nel bene e nel male, c’è sempre qualcosa che resta, che fa parte di me, del mio modo di essere, di quelle che oggi sono le mie scelte, i miei comportamenti, e più stai lì a cancellare e più continui a ingigantire, a lasciare il segno, semplicemente c’è! Chiamalo quindi se vuoi, un nuovo percorso, un nuovo inizio, un nuovo modo di vedere le cose. Chiamale, se vuoi, Consapevolezze. Pertanto, con la consapevolezza di continuare a seguire l’indole di un comune essere umano pronto a sbagliare per poter crescere e migliorare, posso dire che: credo di esserci. Credo di essere consapevole di questo regalo cronometrato chiamato vita che sai quando comincia ma non sai quando finisce e che la magia di questo dono sta proprio qui, nella voglia, nella fame che ti viene e che continua a venire, che ti tiene vivo anche dopo un’indigestione. Quell’istinto che ti porta a viverla, fino alla fine, a non arrenderti.
Ok.
Ci sono.
Let’s go.
Questa è la mia vita.
1+1 e più stronzo di te
Per un bel po’ di tempo ho percepito la figura dello psicologo come una figura scomoda, chiamiamola anche stronza. La domanda che mi ponevo era sempre la stessa, con tanto di aggettivo dispregiativo: perché dovrei andare da uno strizzacervelli?
Ricordo ancora la prima volta, il primo incontro, il primo tentativo a quindici anni, in un consultorio. Andai da un tipo, né serio e né scialla, un tipo happy, un tipo. Incominciò a fare domande, a formulare quesiti.
«A che età ha tolto il ciuccio?»
«A che età ha tolto il pannolino?»
Domande che non rivolse a me in prima persona ma a mia madre. Fino a quel momento, da persona non informata sui fatti, non sarei stato in grado di rispondere. Dopo aver esaminato attentamente le risposte, il responso clinico fu quello d’intraprendere un percorso familiare.
Ah! pensai tra me e me. Nammo bene!
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