Preparò la valigia la sera prima della partenza. Raccolse solo l’occorrente per alcuni giorni. Qualcosa dentro di lei la spingeva a tornare verso casa. S’immaginava i possibili cambiamenti che il suo paese aveva potuto subire con l’avanzare degli anni. Sperava, che la mentalità di quel piccolo paesino di provincia, dove era nata e cresciuta, fosse migliorata. Portava con sé ricordi indelebili e belli, ma, allo stesso tempo, era perseguitata dal pensiero degli sguardi insoliti della gente, e da quel chiacchiericcio che s’innalzava quando passeggiava per le strade. Particolari del passato che la infastidivano ancora adesso. La partenza non fece altro che rievocare il reale motivo per il quale decise di allontanarsi dalla sua famiglia, a malincuore. Richiuse la valigia rossa, infiammata come l’amore e infuocata come la rabbia, e andò a dormire.
Aveva vissuto per dieci lunghi anni a Roma, e conseguito la Laurea in Criminologia, presso l’Università La Sapienza. Era riuscita a inserirsi nell’organico del Reparto Analisi Criminologiche dei Carabinieri, il RAC. La sezione che prestava supporto durante le indagini investigative. Un lavoro che le piaceva, anzi lo amava e lo affrontava con estrema naturalezza. Il suo era un istinto innato, spontaneo, bello. Riusciva ad avvertire stati d’animo e sensazioni, come l’angoscia, la malinconia, il disprezzo, la preoccupazione, il dolore, il tormento e la sofferenza; ma allo stesso tempo anche la gioia, la felicità, la dolcezza, l’allegria e l’amore, solo guardando negli occhi la persona che aveva di fronte. Gli occhi, lo specchio dell’anima. Era empatica, sensibile e al contempo estroversa e molto simpatica. Aveva incontrato molti ostacoli lungo il suo cammino, ma era riuscita a superarli con determinazione e sacrificio. E ci era riuscita. Gli ultimi due anni, li aveva vissuti a Bologna. Era stata trasferita per collaborare ad un caso di omicidio e lì, aveva trovato una seconda famiglia, i suoi colleghi, la sua squadra.
La città le piaceva molto, ma niente a che vedere con la maestosità di Roma. Passava le sue pause e, delle volte, giornate intere, a rilassarsi in Piazza Maggiore. Il luogo maggiormente decantato da scrittori, cantautori e musicisti; quella piazza che regala lo spettacolo più bello degli edifici medievali d’Italia, circondandola su ogni lato. È proprio la magnificenza della Basilica di San Petronio, la sesta chiesa più grande d’Italia, a dominare Piazza Maggiore. Con il suo stile antico e maledettamente gotico, è in grado di affascinare e attirare a sé milioni di turisti. Non riusciva a spiegarsi come lo stile della città, riuscisse a infondergli un senso di tranquillità, di quiete, nonostante respirasse l’aria di una città metropolitana, caotica e con molti turisti, Amanda, riusciva a estraniarsi da tutta quella gente e a meditare nel disordine.
Era lì anche quel giorno, prima di prendere un treno per tornare dalla propria famiglia. Un lungo caschetto biondo le copriva il viso, grandi occhiali neri nascondevano i suoi occhi. Terminò di sorseggiare il suo caffè in uno dei Bar della Piazza, forse era seduta allo stesso tavolino, dove un giorno sedeva Lucio Dalla. Afferrò la sua valigia rossa e si diresse verso la stazione. Munita di cappotto, jeans e All star rigorosamente rosse, attraversò Viale Indipendenza.
Una moltitudine di persone le passava accanto; assonnate, pensierose, chiuse nelle loro menti e nei loro mondi interiori. Ognuno con una storia da raccontare, compresa Amanda. Amava molto chiacchierare, ascoltare, passeggiare, ma anche rimanere chiusa nei suoi pensieri più intimi. Anche lei aveva nel cuore una spina che le faceva male. Un amore che aveva perduto e abbandonato tempo prima, per fare spazio alla propria carriera. Si chiedeva spesso se la sua decisione fosse stata giusta; se fosse ancora in tempo per riprendersi la vita che voleva vivere, proprio accanto all’uomo che amava da sempre, e che non avrebbe mai smesso di amare. Arrivò in stazione, controllò il binario dai monitor principali e si diresse verso il sottopassaggio. L’ansia continuava a salire, sempre di più. Fortunatamente il treno non aveva ritardi e arrivò al binario puntuale come un orologio. Salì nel vagone indicato sul biglietto d’acquisto e occupò il suo posto. “Che il viaggio abbia inizio”, pensò.
Il treno partì, e l’unica cosa che avrebbe fatto durante il viaggio era osservare i paesaggi che il terno le faceva attraversare. Le suntuose colline le passavano accanto come un time-lapse, e tanti ricordi le riaffioravano nella mente. Quanto tempo era passato da quando abbracciò l’ultima volta i suoi affetti più cari, i suoi genitori, suo fratello, la sua migliore amica. Era appena partita, ma fremeva per il suo arrivo.
Osservava dal finestrino la moltitudine di abitazioni; le numerose ville costruite in cima alle colline; le auto che transitavano sulle strade e la quotidianità delle altre persone. Dal finestrino del treno si poteva percepire la grandezza di quei capannoni abbandonati e in disuso, ormai sfatti e logorati dal clima. E infine, si poteva distinguere, tra tutte quelle vedute, quella che Amanda riteneva essere il panorama più bello della Terra, il mare. Così immenso, smisurato e infinito; così azzurro di giorno e così nero di notte. Il suo suono dolce, il suo odore sopraffino; i suoi banchi di schiuma biancastra quando impatta con gli scogli. Amanda era nata accanto al suo dolce suono; era cresciuta con i suoi sibili. Era l’unica cosa che le mancava a tal punto che, per consolarsi, lo sostituì con la bellezza e la vastità di Piazza Maggiore.
Era in quel treno pieno di gente, ma allo stesso tempo da sola. Il mormorio dei passeggeri, le suonerie dei cellulari, il pianto dei bambini, il rumore del treno che sfrecciava sui binari, le faceva da sfondo in quel viaggio lungo sette ore, ma tutto questo non la infastidiva. Pranzò con un panino e una coca cola in lattina. Era tranquilla, ma in cuor suo avvertiva delle strane sensazioni, quelle che non si riescono a spiegare a parole; quelle percezioni che ti lasciano senza fiato ancor prima di averle vissute. Era il suo intuito, o sesto senso, che cercava di avvertirla e questo non le piaceva, soprattutto quando quei turbamenti coincidevano con la sua vita e il suo essere. Il treno la cullavano e faceva fatica a rimanere sveglia. Così, per cambiare area e sgranchirsi le gambe, si recò presso il vagone del ristoro a sorseggiare un caffè.
Una volta tornata al suo posto, la signora seduta accanto a lei, forse per noia, iniziò a porle delle domande. La donna le chiese quale fosse la sua destinazione, e continuò il dialogo raccontando la storia della figlia che era nata a Milano e in vacanza a Ibiza, conobbe l’uomo della sua vita, di Lecce, dove si trasferì, e poco tempo dopo diventò nonna. Continuò con il lamentarsi delle ore che passava all’interno di un treno per andare a trovare figlia e nipoti. Amanda non poteva non darle ascolto, non era rispettoso nei suoi confronti. Era la classica signora sulla settantina, ben vestita, capelli castani raccolti in uno chignon, orecchini e collana di perle. Indossava un completo, giacca e pantalone a palazzo, color giallo ocra e una camicetta di seta bianca abbinata a delle parigine nere, ovviamente tutto in armonia con la borsetta. Dava l’impressione di essere una signora per bene e di classe; una donna estroversa e molto loquace.
Mentre la passeggera continuava a raccontare le sue avventure – disavventure, Amanda l’ascoltava senza battere ciglio sempre assorta nei suoi pensieri, tanto da non ascoltare la voce guida del treno che avvertiva i passeggeri sulla prossima fermata. Finalmente era arrivata a destinazione.
«Signorina, mi scusi, ma non ha sentito la voce guida? La prossima fermata è la sua. Deve scendere!»
«Sì?», rispose istintivamente Amanda, «Ero rapita dal suo discorso e non mi sono resa conto. La saluto Signora e le auguro una buona continuazione.»
«Grazie signorina. Magari chi lo sa, potremmo rivederci in futuro, forse nel tragitto del ritorno. Buon rientro a casa.»
Amanda infilò il cappotto, prese la sua valigia rossa dal comparto e si avviò verso le porte d’uscita. La gentil signora le aveva appena ricordato che il viaggio, alla fine, sarebbe terminato e che da lì a poco, un altro treno sarebbe passato a riprenderla.
«Si avvisano i signori passeggeri che la prossima fermata è San Vio», annunciò ancora una volta la voce guida.
Alla stazione di destinazione l’attendeva suo fratello, Francesco, un ragazzotto alto quasi due metri, spalle larghe e corporatura robusta. Occhi marroni e profondi; era abituato ad avere sempre lo stesso taglio di capelli, sfumato ai lati e con il ciuffo pettinato all’indietro. Il castano chiaro dei capelli e della barbetta leggera che curava, ricopriva la sua carnagione chiara. Era un ragazzo molto riservato, timido, riflessivo e un po’ impacciato. Nonostante fosse, fuori dal nucleo familiare, una persona introversa, per Amanda restava comunque un ottimo compagno di avventure e un buon amico. La mentalità di un ingegnere informatico può essere paragonata a quella di uno scienziato, sempre un po’ alienato nelle formule matematiche. Francesco fremeva dalla voglia di riabbracciare la sorella, che aveva rivisto solo due volte da quando lei aveva deciso di seguire il suo cuore e la sua carriera, in un’altra città lontana da lui. Le mancava molto, ma era felice per lei. Francesco le raccontava tutto; dagli esami sbagliati, a quelli eccellenti; dagli amori trasandati ai litigi con il padre; dalle cure della madre agli incontri con gli amici.
«Amanda! Sono qui!» esclamò Francesco alzando il braccio per farsi notare tra la folla dei passeggeri. «Bentornata sorellina!», disse dopo averla raggiunta, e con gli occhi straordinariamente lucidi dalla commozione.
«Ehi, fratellone! Che gioia rivederti!», rispose Amanda, con voce tremante.
I suoi occhi brillavano dalla felicità e non riuscì a trattenere le lacrime. Si avvolsero in uno di quegli abbracci che speri non finiscano mai, come se la distanza e l’allontanamento non si fosse mai realmente verificati. Un abbraccio quasi infinito; che ti lascia senza fiato e ti trasporta in un universo parallelo dove non esiste nient’altro.
«Com’è andato il viaggio?», chiese Francesco, afferrando la valigia rossa e incamminandosi verso l’ascensore.
«Bene direi!», rispose Amanda, asciugandosi gli occhi. «Se non fosse per le ultime due o tre ore. Ho perso il conto!», toccandosi la fronte pensierosa. «Una signora accanto a me ha iniziato a parlare in modo logorroico della sua vita. Tant’è che non mi sono resa conto di essere arrivata a destinazione! Credo di aver proprio bisogno di un caffè!» disse Amanda incamminandosi insieme al fratello verso il bar della stazione.
Erano passate da poco le tre e mezzo di un martedì abbastanza tranquillo. Una giornata soleggiante ma nuvolosa. Il solito cielo di marzo, che sa quasi di primavera. Il calore dei pochi raggi del sole scaldava la stazione quasi deserta di San Vio. Un imponente fabbricato del tardo Ottocento. Si sentiva proprio l’odore di casa. Era circondata da ulivi e mandorli, e il profumo della campagna salentina s’introduceva nei polmoni di Amanda, che non era più abituata a quell’aria tanto pura. L’ascensore si fermò al piano terra, nel sottopassaggio, e per arrivare al Bar bisognava risalire al primo piano con le scale mobili. Francesco sembrava un tantino turbato, scosso, o forse era solo un’impressione di Amanda. Probabilmente, era solo stanco e stressato dal troppo studio.
«Sediamoci pure al tavolino, così chiacchieriamo un po’. Ti va?», chiese Amanda.
«Certo! Ho tante cose da dirti. Ho aspettato di vederti di persona, non so come devo fare.» rispose Francesco.
«Cosa prendete?», chiese il barista.
«Due caffè grazie.», rispose Francesco, poi si voltò verso Amanda «Tornando a noi, ho un po’ di problemi con questi ultimi esami. Sono davvero pesanti e sai, stavo pensando di prendermi un anno sabatico» passandosi una mano sulla fronte. Sul suo volto trasudava davvero quell’aria stressata, sembrava frustrato da questa storia. «T’immagini come la prenderà nostra madre quando scoprirà le mie intenzioni?». I due fratelli scoppiarono in una grossa risata giusto per sdrammatizzare la situazione.
«Non mi far pensare! Ti prego!.» gli rispose Amanda mentre il barista poggiava le tazzine dei caffè sul tavolino. «Dai, finiamo questa pausa e torniamo a casa. Sono stremata! Ho bisogno di un divano e una tisana con mamma.» disse.
I ragazzi finirono di sorseggiare il loro caffè, pagarono il loro acquisto e si diressero verso l’auto. Francesco pose la valigia di Amanda nel cofano, salì dal lato del guidatore, si accese una sigaretta e mise in moto l’auto.
«Ancora quella sigaretta? La smetterai un giorno?» disse Amanda.
«Sì, forse un giorno, adesso mi rilassa.» le rispose Francesco.
Uscirono dal parcheggio all’interno di una Nissan Qashquai nera, cerchi in lega e finestrini oscurati, in quel momento Amanda si sentì rasserenata, capì di essere finalmente a casa. E mentre la strada scorreva sotto le ruote dell’auto, in sottofondo la radio passava “No woman no cray“, “No donna, non piangere”. Una canzone dolcissima del 1979 di Bob Marley, noto cantautore e attivista giamaicano che diffuse la musica reggae in tutto il Mondo. Quel genere di musica che riusciva a calmare Francesco in qualsiasi momento della sua vita e calmava anche Amanda. I rintocchi di quelle vibrazioni li univano, il piacere di quella musica li accarezzava. Lui aveva ascoltato grazie a lei, e lei era felice di ascoltare con lui. Come quel giorno, così da sempre.
Il cielo era ancora sereno, i fievoli raggi del sole si vedevano appena tra le nuvole biancastre. La strada era affiancata da alberi di ulivo secolari e mandorlo. Amanda abbassò il finestrino per respirare a pieni polmoni il profumo del suo paese. Il silenzio della campagna e la vista della natura incidevano sul suo stato psicologico, infondendole serenità nel profondo dell’anima. Poi, l’immagine più bella di sempre si presentò davanti ai suoi occhi. La vista del suo mare le annebbiò completamente il cuore, le palpitava nella cassa toracica come se stesse per scoppiarle nel petto. La bellezza, che solo il manto azzurro del mare possiede, le diffuse un senso di leggerezza in tutto il corpo fino ad arrivare alle zone più periferiche. Dalla stazione di San Vio al centro del paese vi era una distanza di almeno mezzora. Controllando l’orologio, che indossava al posto destro, si accorse che si erano fatte già le sedici e tre quarti.
«Ah bene, sono quasi le diciassette. Troveremo la strada principale piena di passeggio. È quasi l’ora del the delle comari. Oppure, da quando sono andata via, hanno eliminato questa tradizione? Dimmi di si ti prego!» esclamò Amanda.
«Eh, in realtà hanno promosso ancora di più l’attività. Adesso oltre alle torte e ai dolcetti fatti in casa, decidono le prossime Fiere. La settimana passata avevano indetto una gara di pasta fresca che poi hanno venduto nelle bancarelle. L’incasso è stato devoluto in beneficienza.» rispose Francesco
«Bene! Allora gli uomini saranno tutti belli rilassati. Hanno più tempo libero lontano dalle mogli!» disse Amanda ridendo, «Birra a go go barman! E portaci le carte!», urlò, imitando con voce cupa proprio quegli uomini.
«Sempre la solita scema tu eh!» ribatté Francesco sorridendo.
Nel momento in cui svoltarono, per entrare finalmente in paese, si resero conto che la confusione a cui avevano pensato pochi minuti prima, e di cui avevano appena riso, non era di certo quella che ritrovarono alla fine del loro cammino quel giorno. Sul Viale principale, costeggiato da altissimi alberi di castagno, in grado di fare ombra ai passanti, aleggiava un’aria nefasta. Qualcosa, o qualcuno, aveva bloccato i cittadini di un piccolo paesino di provincia durante l’ora del tè.
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