Bip. Bip. Bip.
Nell’assoluta pace del buio in cui mi ritrovo immerso questo suono, dapprima opaco e distante, diventa sempre più nitido e fastidioso. Come fosse un rumore d’allarme, una sveglia che pian piano si avvicina verso di me, improvvisamente si ferma stabilizzando il suo volume.
Bip. Bip. Bip.
Apro gli occhi. Oddio… sarebbe più corretto dire tento di aprirli, visto che appena un decimo di secondo dopo, una quantità di luce impressionante li colpisce violentemente costringendomi a richiuderli di nuovo. Dolore, lacrime, e una persistente patina bianca sulla retina nonostante tenga le mie palpebre chiuse. Vorrei sfregarmi gli occhi per tamponare il fuoco che li sta bruciando, ma le mani sembrano non obbedire ai miei comandi. Non demordo, e una decina di tentativi dopo, riesco con fatica a tenere finalmente gli occhi semiaperti. Con calma, molta calma, riesco finalmente a mettere a fuoco il muro davanti a me composto per tre quarti d’altezza di linoleum verde chiaro, e rimanente parte superiore pitturata con un pallido bianco.
Bip. Bip. Bip.
Muoio dalla voglia di stropicciarmi gli occhi per affievolire questa fastidiosissima sensazione di prurito, ma purtroppo le mani continuano a disobbedire alla mia volontà. Provo ad abbassare la testa, per guardare nella loro direzione e capire cosa mai stia impedendo i miei movimenti, ma il mio collo, seguendo l’esempio delle mani, non si muove affatto. Mi ritrovo all’interno di un corpo che ha ammutinato il capitano e non vuole più rispondere ai comandi!
Bip. Bip. Bip.
Abbasso gli occhi, gli unici muscoli che in questo momento le mie sinapsi sembrano controllare, e capisco di essere disteso in un letto, con la schiena leggermente obliqua, in una posizione che potrei definire dieci e un quarto. Un lenzuolo di cotone bianco candido mi copre. Scorgo un tubicino trasparente sulla mia destra che finisce nel braccio sotto del nastro adesivo bianco incollato alla fine del bicipite. L’odore di disinfettante nell’aria, che con il ritorno dell’olfatto finalmente riesco a distinguere, mi fa inserire l’ultimo pezzo mancante nel puzzle: non posso trovarmi in che in una stanza d’ospedale. Elementare Watson!
Bip. Bip. Bip.
Dopo vari tentativi riesco finalmente a voltarmi verso il braccio poggiato sul fianco destro. Apparentemente la mano sembra essere intatta, normale, fatta eccezione per l’oggetto di plastica beige sopra l’indice dal quale esce un altro tubicino che non riesco a capire dove vada a finire, ma a dispetto degli sforzi sovraumani che sto compiendo per muoverla, riproduco solamente un leggero tremolio. Un brutto presentimento si impadronisce di me. Anziché terrorizzarmi, come la mia natura mi porterebbe a fare, mi sorprendo a sorridere stupidamente.
Bip. Bip. Bip.
Riassumendo la situazione: mi ritrovo steso su questo letto ospedaliero, nessuno intorno a me. Tubi e fili escono dal mio corpo che risponde malamente ai miei urlanti stimoli. Comincio a chiedermi cosa mi sia mai successo. L’ultima cosa che ricordo è quella macchina che ci stava colpendo poi il buio più totale. Come ci sono arrivato fin qui? Possibile non riesca a ricordare nulla tra l’incidente e questa sala ovattata? Ma Beatrice? Dove è Beatrice?
Bip. Bip. Bip.
Veloce come un giocatore di poker che spilla le carte nell’ultima partita della serata, mi volto sulla desta scoprendo, via via, la fine della parete frontale, la porta d’ingresso della stanza nell’angolo, e l’inizio di quella laterale. Uno strano quadro sembra essere appeso a questa parete, anzi no, in realtà è una finestra. Una finestra che si affaccia su un corridoio. Ah! Deve essere la finestra che permettere ai visitatori di poter osservare i pazienti. Praticamente chiunque passi su quel corridoio può guardarmi come fossi un pesce nell’acquario!
Continuando la mia lenta e dolorosa carrellata laterale noto come il corridoio dietro questo vetro sia vuoto, desolante, come solo i corridoi degli ospedali sanno essere, illuminato da fredda luce al neon. Piano piano scorgo un distributore automatico di merendine, bibite e caffè che con le sue luci colorate rivoluziona piacevolmente la gamma cromatica dei colori così tenui visti finora.
Vicino al distributore vedo una, due, tre sedie vuote, sulla quarta scorgo quella che dovrebbe essere una persona; forse una ragazza; decisamente una ragazza!
È bionda… Vedo solo il suo profilo. Il suo mento poggiato sulla mano stretta a pugno che sostiene il peso della testa grazie al gomito sinistro poggiato sullo schienale della quinta sedia vuota, le permette di guardare distrattamente alla sua sinistra. Dall’orecchio le esce un cavo nero, forse una cuffietta o un auricolare con cui, presumo, ascolti della musica. Sembra essere così stanca, quasi non volesse star seduta sulla sedia, come stesse aspettando qualcosa senza nemmeno troppa convinzione. Ha un’aria familiare. Così familiare che ho come la sensazione di averla già vista. La scruto con attenzione nel ruolo di voyeur che questo vetro mi permette di interpretare, scoprendomi sorpreso osservatore di mia sorella: Giada! Sto per chiedermi cosa mai ci faccia mia sorella nel corridoio di un ospedale, quando il mio riflesso sul vetro dell’acquario mi risponde: Giada è venuta a far visita ad un pesce di nome Filippo.
Bip. Bip. Bip.
Cerco di chiamarla, ma la bocca e la lingua seguono l’andazzo di tutto il resto del mio corpo fuori controllo, facendomi pronunciare in completa afonia una sottospecie di parola che potrebbe essere trascritta:
– Gjagdhia!!
Fili di saliva sgorgando dalla bocca che con difficoltà riesco a richiudere.
Ora, la mia pronuncia di certo non aiuta, ma sono sicuro del fatto che anche fossi riuscito a chiamarla correttamente, anche fossi stato capace di farlo ad alta voce, e seppur per qualche strano motivo, la mia voce avesse attraversato le due dita che misura lo spessore di questo vetro divisorio, probabilmente le cuffiette con le quali sta ascoltando la musica a volume stappa timpani, non mi avrebbero concesso alcuna possibilità di catturare la sua attenzione. L’unico modo efficace per destarla sarebbe quello di tirare qualcosa contro questo vetro. Ma come? Quale oggetto tirare? Ma soprattutto con quali forze, visto che perfino una mosca adesso sarebbe capace di mettermi al tappeto?
Bip. Bip. Bip.
Dovrei sentirmi disperato, smarrito. Eppure, questa impossibilità di movimento, e di parola, stranamente non mi rende nervoso. Sono immerso in una calma ascetica, indotta senza dubbio da qualche farmaco meraviglioso somministratomi. Antidolorifici? Morfina? Chissà… Di fatto mi sento come stessi fluttuando su una nuvola, se non fosse per questo fastidioso bip intermittente che ipotizzo provenire da quegli apparecchi che monitorano il battito cardiaco, di quelli visti in centinaia di film, che trasformano le pulsazioni del cuore in radici quadrate.
Bip. Bip. Bip.
Un fastidio al collo, dovuto alla posizione che ho fatto assumere alla mia testa voltata sulla destra, stimola il mio sistema nervoso. Quasi me ne rallegro, come se quel piccolo dolore scongiurasse quello che sto temendo da quando ho capito di non riuscire più a muovere il mio corpo come prima. Fisso ormai mia sorella da alcuni minuti senza che lei compi il benché minimo movimento, e proprio quando ipotizzo sia stata imbalsamata, Giada, allertata da quell’inspiegabile sesto senso che intuisce quando qualcuno ci sta osservando, si volta finalmente verso di me. Mi guarda distrattamente, una manciata di secondi. Poi ritorna nella sua posizione originaria di ascoltatrice della diabolica playlist.
Sto per diventare preda dalla delusione dell’accaduto, quando all’improvviso, lei spalanca gli occhi increduli, come se qualcuno le avesse appena annunciato di esser diventata milionaria, e in slow-motion, mentre la sua bocca comincia a schiudersi, si volta lentamente verso me.
– Fili!!! – comincia ad urlare, o almeno presumo urli a causa dell’insonorizzazione della stanza in cui mi trovo, prima di catapultarsi verso di me con un’agilità che non credevo possedesse. Sbatte le mani su questa parete trasparente che ci divide, mentre inizia a piangere dalla gioia, ripetendo il mio nome ed altre cose che non riesco a leggere dai suoi labiali. Sembra tarantolata, quasi fosse preda a strane convulsioni, in completa antitesi con me, che ora come ora non riesco nemmeno a muovere i muscoli delle sopracciglia. Scoprirmi oggetto di questo suo furioso affetto, mi sorprende, a stento riesco a trattenere la mia commozione rimanendoci di stucco perché Giada, a mia memoria, non aveva mai dimostrato così esplicitamente di volermi bene. Ma ora sembra volermi dare gli arretrati, mentre disperata si spalma come una ventosa, contro questo vetro tra di noi, con le braccia aperte e la faccia comicamente schiacciata di lato, nel tentativo di farmi arrivare più vicino possibile questo suo abbraccio virtuale. Nei suoi gesti è evidente la paura che deve aver provato per la mia possibile perdita. La osservo non riuscendo a trattenere le lacrime di fronte a questa sua emozionante dimostrazione di affetto.
Il nostro abbraccio a distanza viene interrotto dall’entrata in scena di due infermieri, che forse allarmati dal suo baccano, probabilmente prendendola per pazza, cercano di staccare questa stella marina umana attaccata al vetro. Li osservo confabulare in playback, attraverso il vetro sporcato dalle lacrime e dal trucco di mia sorella, che solo ora, dopo essersi accorta di non sentire gli infermieri, si rende conto che in tutto questo marasma ancora non aveva tolto le cuffiette. Dopo averlo fatto, mi indica ai due paramedici, che seguendo la direzione indicata osservano meravigliati questo fantastico relitto umano, finalmente sveglio, con la testa voltata verso di loro.
Proprio in questo gioioso momento, un dolore simile ad un crampo dolorosissimo colpisce tutta la parte desta del mio corpo.
Probabilmente devo aver esagerato con l’attività fisica!
Bip. Bip. Bip.
Steso nella oramai familiare posizione dieci e un quarto, sul lettino mobile con il quale sono stato trasportato al centro di questa piccola stanza, comincio a riprendere familiarità con il mio corpo. I movimenti sono imprecisi e faticosi, ma sono comunque movimenti! Ai miei lati altri due pazienti con i quali non ho finora avuto alcun tipo di dialogo. Seduta alla mia sinistra, su uno scomodo sgabello, Giada stremata dalle emozioni sinora causate dal mio risveglio, sta compensandone la stanchezza schiacciando un pisolino. La luce di un arancione pomeriggio passando attraverso i buchi della tapparella semi abbassata, macchia il suo viso, il mio lenzuolo e tutta la stanza di ambrati ovali regolarmente intervallati. Guardo la mano di mia sorella che non ha smesso di stringere la mia dal momento in cui sono uscito dalla camera intensiva. Con la testa poggiata sul mio ginocchio, sembra godersi un meritato e sereno riposo. Vorrei carezzarle i capelli, ma ho il timore che la smarrita coordinazione possa trasformare un tenero gesto in un maldestro urto colpevole del suo risveglio.
La porta davanti noi si apre improvvisamente facendomi spaventare e introducendo nella stanza il rumore del tipico caos d’ospedale. Una donna fa il suo ingresso. Dal bianco camice che indossa presumo sia una dottoressa. Una bella donna, media statura, di colore; capelli riccissimi che creano piccoli vortici intorno al suo viso. Occhi stanchi, ma vispi, ingranditi da occhiali rotondi, con una montatura massiccia, rossa, che sembra essere stata creata appositamente per il suo viso. Si avvicina curiosa, mi osserva finalmente cosciente, e sorride. Su due piedi scommetterei di essere un suo paziente che le ha appena regalato una gioia.
– Buongiorno Filippo! E bentornato tra noi! – mi sussurra avendo l’accortezza di non svegliare mia sorella. Il gigantesco sorriso sul suo viso la fa assomigliare tantissimo a Whoopi Goldberg, la simpaticissima attrice che interpretava la suora che faceva gospel nel film Sister Act.
– Dottoressa! Ha visto? – dice mia sorella, che a dispetto della nostra volontà, e senza che io me ne fossi minimante accorto, deve essersi svegliata.
– Eh già, ci ha fatto proprio un bello scherzetto eh! – le risponde la mia dottoressa. Giada scorgendo complicità nello sguardo della sua interlocutrice, si emoziona compostamente. Whoopi le si avvicina, e con una delicatezza che solo chi ha visto soffrire possiede, le poggia la mano sulla spalla.
– Mi scusi dottoressa. Non so che mi prende. – ammette mentre si asciuga le lacrime col polsino della sua felpa, lasciando la mia mano, che priva del suo calore mi genera un brivido di freddo.
– Non ti devi scusare, hai visto Giada? Siamo stati bravi! – le dice. Poi rivolgendosi a me si presenta. Ed io, ovviamente, neanche un secondo dopo ne ho già scordato il nome. Forse non l’ho nemmeno ascoltato a dire la verità, attratto come sono dal taschino multicolorato del suo camice, da dove proprio ora estrae una delle numerose penne all’interno, prima di armarne col pollice il meccanismo a molla, click, e cominciare a scrivere delle cose su una cartella che regge come un presentatore tv anni Novanta.
Mi pizzica la fronte. Provo a grattarla nonostante sappia già che un grande malloppo morbido incollato proprio dove sento questo formicolio me lo impedirà. La dottoressa se ne accorge:
– Filippo quello che stai toccando è semplicemente un bel cerottone che protegge la ferita da quindici punti che ti abbiamo cucito. Purtroppo, avevi un brutto taglio, ma non ti preoccupare, è in via di guarigione, e se gli dedichiamo le giuste attenzioni vedrai che la cicatrice non si noterà nemmeno.
Deve aver aggiunto l’ultima frase avendo notato lo spavento che devo aver provato nel sapere che rimarrò sfigurato a vita. Quindici punti sulla fronte! Lei afferma non si noteranno nemmeno… posso solo ironizzare scoraggiato tra me e me, cercando di nascondere la perplessità che provo per le sue parole.
– Filippo, lo so cosa stai pensando, ma devi ritenerti fortunato! Una cicatrice è niente rispetto all’incidente che hai subito. Poteva andare molto peggio! Piuttosto, ora è importante fare dei piccoli test.
Si avvicina a me puntandomi negli occhi una mini torcia che ha estratto dalla stessa tasca multicolorata di prima. Rimango accecato da questa macchia bianca al centro dei miei occhi per alcuni secondi.
– Bene, ora segui questa torcia con lo sguardo, e se riesci a parlare, prova a dirmi qualcosa, fammi un bel discorso, presentati. – mi dice, cominciando a muovere questo cilindro nero, come fosse una bacchetta, sulla destra prima e sulla sinistra poi. Io tento di seguirla muovendo la testa, mentre cerco, con non poca fatica, di dire qualcosa che dovrebbe somigliare ad una presentazione.
– Dottoressa ma è normale che parli in questo modo? – chiede Giada vanificando i miei sforzi e le speranze di un’imminente normalità.
– Ma certo, è del tutto normale. Considera che probabilmente è ancora sotto effetto dei sedativi. – che ne sia benedetto l’inventore direi! – E poi dobbiamo sempre prendere in considerazione il fatto che non parla e non si muove da ventun giorni!
– Ventuno giorni!? – esclamo, o meglio, credo di esclamare, visto che pronuncio qualcosa comprensibile solo grazie allo stupore del sapere d’aver passato così tanto tempo incosciente, disegnato sul mio viso. Le due donne intorno al mio letto, per nulla solidali, sorridono di quella che ai loro occhi deve esser sembrata una comica reazione.
– Già Fili, sono circa tre settimane che sei qui, tutti sapevamo che ti saresti svegliato, ma tu te la sei voluta prendere proprio con calma… Manaccia a te! – dice mia sorella dandomi un buffetto sulle gambe, prima di cambiare espressione, come avesse ricordato qualcosa di importante: – Uh cavolo! in tutto questo caos mi sono completamente scordata di avvertire mamma e papà! – prende il telefono, mi fa una foto, la manda ai miei, e comincia a digitare messaggi usando una velocità ultrasonica.
– Comunque, Filippo, ora senti dolori particolari? Cerca di parlarmi mentre io ti tocco parti del corpo e tu provi a muoverle, ok? Non ti agitare se non ci riesci, come dicevo prima è del tutto normale.
Whoopi comincia a toccarmi la gamba destra e la sinistra. Poi le braccia, e io cerco di fare del mio meglio, non ottenendo altro che movimenti scoordinati. In sottofondo il suono provocato dalla pressoché ininterrotta ricezione di messaggi dei miei, che evidentemente in preda ad una folle eccitazione dopo la notizia del mio risveglio, stanno tempestando il cellulare di Giada, che comincia a leggerli facendoci una telecronaca in tempo reale:
– Mamma dice che è contenta. Anche papà. Ringrazia a Dio. Anche papà. Dice che se lo sentiva. Ovviamente anche papà. Non vede l’ora di riabbracciarti.
– Anche Papà? – commenta la dottoressa provocando una risata collettiva, e mostrando una simpatia che chissà poi perché, mai avrei attribuito ad un medico.
MamMaria… Mi ha sempre divertito il fatto che la sua capacità di mantenere la calma quando le capita un evento emozionante, sia inversamente proporzionale alla quantità di messaggi che invia. Ma in questa occasione il suo comportamento è del tutto comprensibile: per me sono passate solo poche ore dall’ultima volta che ci siamo visti, ma in realtà sono tre settimane che probabilmente mi osserva immobile su questo letto. Ventuno giorni! Ancora fatico a crederlo!
– Ma cosa mi è successo? – chiedo rauco sperando di essere compreso; cosa che mi rendo conto avvenire per il progressivo guastarsi dell’atmosfera di stupefatta sorpresa intorno a me.
– Hai la gola secca, bevi questo che ti fa bene. – dice mia sorella, mentre prende un bicchiere d’acqua dal comodino e lo poggia sulla mia bocca. Bevo, ed una sensazione di freddo irradia la mia bocca e il mio collo, tutto sommato piacevolmente, fin quando decido di deglutire; e lì, la gola, evidentemente priva di allenamento, riesce a darmi un fastidio mai provato prima, neanche stessi bevendo lava liquida. Sto soffrendo ma lo faccio in stoico e virile silenzio.
– Non ricordi proprio nulla di quella notte Filippo? – mi chiede curiosa la dottoressa che continua a scrivere, mentre mi riprendo dallo shock che anche bere un bicchier d’acqua pare sia diventato. Muovo la testa a destra e sinistra, perché nonostante abbia acquisito più o meno la memoria, gli ultimi fotogrammi che ricordo prima di svegliarmi in questo ospedale sono di due fari che ci venivano contro. La faccia di Bea piangente. E nulla più.
Giada supportata da Whoopi, comincia a raccontarmi di come quella notte di ventuno giorni fa, un ragazzo, dopo essersi addormentato al volante, abbia perso il controllo della macchina, uscendo fuori strada e colpendo in pieno la nostra vettura, mandandomi in coma. Almeno questo è quello che la polizia è riuscita a ricostruire visto che non c’è stato alcun testimone.
– E Bea come sta? – domando impaurito.
– Eh? – dicono in coro le mie interlocutrici, mentre il telefono di mia sorella comincia a squillare.
– B E A, C O M E, S T A? – domando al rallentatore.
– Pronto. Ah, avete parcheggiato? Bene ci vediamo all’ingresso. – dice Giada prima di chiudere la chiamata. – È mamma, sono arrivati, aspettatemi qui che vado loro incontro. – e scappa dalla stanza lasciandomi con la dottoressa che mi guarda perplessa, prima di cominciare a scrivere sulla sua cartella da conduttore anni Novanta.
– Scusami Filippo, ma adesso devo proprio scappare da altri pazienti, ci vediamo più tardi, ok? Ora cerca di riposarti. C’è tempo per le risposte. – mi dice Whoopi mentre si avvia verso l’uscita della stanza, lasciandomi nella solitudine della mia curiosità.
Nel pieno dell’orario che l’ospedale riserva alla visita pomeridiana dei pazienti, mi ritrovo circondato dalla mia famiglia al completo. Sulla mia sinistra, dorme il paziente uno che finora non ho mai visto nemmeno muoversi, mentre sulla destra paziente due, che oltre a muoversi, ogni tanto ci redarguisce, comprensibilmente stufo delle noie che finora il nostro parlare, infervorato dalla gioia del mio risveglio, sta producendo. Fortunatamente nessuno è venuto a far visita loro, visto che siamo già sei persone in una stanza che per dimensioni probabilmente non dovrebbe contenere nemmeno noi tre pazienti.
Esausto, stanco come credo mai stato nella mia vita, sono comunque felicemente circondato dall’affetto familiare. Finalmente riesco a esprimermi quasi comprensibilmente, e ho acquisito una mobilità che stimo intorno al sessanta per cento: ora quando ordino al mio braccio di muoversi questo cerca di fare del suo meglio. Assurdo come si dia per scontata l’articolata sequenza di operazioni che il nostro corpo svolge anche nel più semplice dei movimenti, riconoscendone l’effettiva complessità solamente quando un problema ne pregiudica la stessa. Ma d’altronde, non si apprezza una cosa solo quando manca?
Mentre elaboro queste spicciole filosofie, mia madre sta poggiando monete nella mano di Giada, per permetterle di poter usufruire del caffè generato macchinette automatiche, carburante che devono aver consumato a fiumi durante questi giorni angosciosi. MamMaria si volta verso me, occhi stanchi e lucidi, mi guarda come se avesse finalmente ottenuto la cosa che più desiderava al mondo. Mio padre ci osserva nella massima lontananza che questa stanza gli permette, poggiato sul muro di fronte, quasi in disparte. Finora non gli ho sentito pronunciare una singola sillaba, neanche quando prima mi ha abbracciato, impegnato com’era a trattenere quelle lacrime spontanee, che la stupida vergogna impostagli dalla sua educazione, non permetteva di versare. Vorrei si sbloccasse, mettesse da parte questo suo severo orgoglio che impedisce di manifestare apertamente i sentimenti, e mi dicesse che è contento del fatto io sono ancora vivo. Oppure qualcosa di simile. Ma d’altronde chi sono io per giudicare, visto il disagio di cui sono vittima in questo momento, capace di impedirmi persino di chiedere scusa alla mia famiglia, nonostante mi senta tremendamente in colpa per tutto quello che ho fatto passare loro?
Appena Giada esce dalla stanza, non prima però di avermi guardato e sorriso, mia madre si avvicina di soppiatto, e piegandosi verso il mio orecchio sinistro, probabilmente convinta che l’incidente mi abbia provocato una stana sordità, mi parla a un millimetro e mezzo dal condotto uditivo:
– Hai visto Giada? – e piega il busto, posizionandosi di fronte per vedere se ho compreso quello che ha appena detto.
Le dico di sì, muovendo la testa dall’alto al basso. Starei per farle notare che nonostante il coma, le mie funzioni uditive sono tornate operative, ma rinuncio scoraggiato dalla troppa stanchezza, mentre lei ritorna nella posizione colpevole della mia futura sordità.
– Lo sai, questo periodo è stata a pezzi. Nonostante il lavoro, riusciva sempre a trovare il tempo di venire in ospedale a farti visita. Tutti i giorni. Ha passato anche alcune notti qui dentro. So che ti vuole bene ma non avrei mai creduto così tanto. Che orgoglio che siete per me! – la voce le si è appena incrinata, tradendo le sue emozioni, – Sono fiera di essere vostra madre!
E passa dalla sua posizione di narratrice a quella di osservatrice, contagiandomi con le sue lacrime di sorpresa. Vorrei ammettere di non aver fatto nulla e che condivido il suo stesso stupore verso l’insospettabile attenzione di mia sorella nei miei confronti, io che finora, l’ho sempre considerata una sorta di robot controllata dal Matrix dei social. E invece devo ricredermi dandole atto di avermi dato una lezione su come prendersi cura di un fratello maggiore in difficoltà.
Mia madre prende dalla borsa un fazzoletto con il quale mi asciuga le lacrime, mentre mi sorride premurosa. Nel mentre Giada torna con i caffè in mano, vorrei ringraziarla, dirle d’esser fiero e grato per tutto quello che ha fatto; ma l’unica cosa che mi esce dalla bocca sono i rantoli incontrollabili del pianto di gioia e fierezza che provo per la meravigliosa creatura che ho scoperto essere mia sorella.
Mia madre continua complice, ad asciugarmi lacrime per cancellare le prove dei nostri sentimenti, e di quello che ci siamo detti finora, poi piega con cura il fazzoletto, e lo poggia nella mia mano. Si alza, prende i caffè dalle mani di Giada, apre lo zucchero monoporzione, e addolcisce i caffè con invidiabile praticità. Dopodiché, come etichetta impone, domanda a tutti gli altri abitanti della stanza, se qualcuno gradisce del caffè. Paziente uno nemmeno le risponde, mentre paziente due bofonchia qualcosa prima di voltarsi dall’altra parte. Di fronte a tal dimostrazione d’educazione, mamMaria rimproverata da mia sorella che le chiede come le possa venir in mente di offrire il caffè a sconosciuti, fa spallucce, come a dire: “quello che dovevo fare l’ho fatto”. Dopodiché alza il bicchierino di carta verso mio padre per segnalargli che il suo caffè è pronto. Mio padre finalmente si avvicina a noi, prende il suo caffè e mi tocca il piede. Un gesto semplice, ma che nella sua scala della dimostrazione d’affetto raggiunge le prime posizioni
Giada si siede vicino a me, mentre sorseggia il suo caffè amaro con poco zucchero.
– La dottoressa, ha detto che da domani dovresti iniziare la fisioterapia, e se tutto va bene, nel giro di pochi giorni puoi tornare a casa. Bleah! Mammamia che schifo sto caffè!
– Shhh, per favore! – recrimina la voce sulla mia destra appartenente al meno accomodante dei miei compagni di stanza, quello vivo.
– Ci perdoni, cerchiamo di fare più piano. – lo assicura mio padre quasi subito, prima che un componente della sua famiglia polemizzi, facendogli fare brutta figura.
Ubriaco di stanchezza come sono, nonostante l’enorme piacere della presenza dei miei, capisco perfettamente il fastidio che rechiamo al mio coinquilino: anche io preferirei essere lasciato in pace e pian piano addormentarmi.
– Ma questo ce l’ha proprio con noi, ci rimprovera ogni volta che parliamo! È proprio antipatico! – afferma a mezza bocca Giada.
– Ma quale antipatico, magari è solo stanco, e vorrebbe essere lasciato in pace. Invece poverino si ritrova noi rompiscatole nella stessa stanza. – le risponde bisbigliando, a sua volta, mia madre, ed io alzando debolmente il pollice, mi intrometto nella discussione avvalorando la tesi espressa di mamMaria.
– Dite? Mah! Secondo me è solo antipatico e basta! – sentenzia mia sorella, ponendo fine all’argomento.
– Fili riprenditi con calma, a mamma. Al lavoro, dicono che non ci sono problemi, poi a tutta la burocrazia ci abbiamo già pensato noi. Tu appena starai meglio dovrai solo dare la tua testimonianza alla polizia…
– La polizia? Perché la polizia? – la interrompo con impaurita veemenza, nonostante la velocità bradipo che mi contraddistingue in questo momento, scosso da quell’implicito timore che mi provocano le forze dell’ordine anche quando non ho nulla da nascondere.
– Ma come perché? Perché gli devi raccontare dell’incidente!
– Ma io non mi ricordo niente, che gli racconto?
– Non ho capito, che hai detto? – mi chiede mia madre.
– Ha detto che non si ricorda niente – le traduce Giada, guardando mia madre di traverso – Ma ti pare questo il momento di parlare di questa cosa mamma? – la redarguisce.
– Hai ragione Giada, scusate. Comunque, Filippo se non ti ricordi niente diglielo! Non ti preoccupare, devi dire tutto quello che sai, ma devi farlo capito?
– Ma perché devo raccontare una cosa se non la ricordo?
– Ma no! Tu devi solo testimoniare. Così ci hanno detto gli agenti. Purtroppo, succede quando c’è un incidente mortale…
– Mortale? – interrompo bruscamente mia madre alzando la voce.
– Mamma! – la rimprovera mia sorella alzandola ancora di più, e guardandola furiosa, più o meno lo stesso modo in cui ora noto la sta guardando anche mio padre.
– Eh insomma!!! – ci ammonisce paziente due.
– Ci scusi. – cerca di discolparci mia sorella. Poi bisbigliando: – Ma vaffa… –
– Ma si può sapere chi è morto? – domando io bisbigliando ma agitato, cercando di essere più chiaro possibile.
– Fili, stai tranquillo per favore, mamma si riferiva al ragazzo che vi ha colpito, –dichiara mia sorella, guardando severamente mia madre, – avevamo deciso di non dirtelo subito, perché ci sembravano già troppe le cose che dovevi digerire, ma evidentemente tua madre non era della stessa opinione!
– Sarei anche tua madre se permetti! – protesta mia madre rivolta a Giada.
– È un modo di dire mamma. – le risponde mia sorella.
– Porca miseria. – commento io rimasto scioccato dalla notizia della morte di quel ragazzo.
– Scusatemi.
– Ma che dici mamma, hai fatto bene a dirmelo invece. – la conforto cercando di alleggerire la tensione con scarso successo. Non faccio in tempo a tentare di decifrare cosa sia quell’espressione mortificata, al limite del pianto, che persiste sulla faccia di mia madre, e perché continui ad essere guardata in modo così astioso da mia sorella e da mio padre, che la caposala, con metodi al limite della maleducazione, invita i miei parenti ad uscire gentilmente dalla stanza.
– L’orario di visita è terminato. Usciamo per favore. Lasciamo i pazienti a riposo, grazie!
– Andiamo via subito. Grazie a lei! – dice mio padre mentre mia sorella mi consegna il mio telefono dopo averlo preso dal comodino vicino al letto e mi dice:
– Fili, lascia stare la polizia e la mamma. Ora pensa solo a riposare, c’è tempo per le risposte. Qualsiasi cosa, chiama o scrivici. Ok? – le prendo la mano e la stringo come se volessi tenerla a me. Lei si accorge di questo mio volere.
– Mamma, Papà, voi cominciate ad andare, vi raggiungo.
– Va bene, ci vediamo domani. – dice mia madre mentre mi pizzica la guancia e goffamente prova a farmi l’occhiolino senza riuscirci, visibilmente imbarazzata dalla colpa per le sue precedenti parole.
– Mi raccomando! – è l’austero commento di mio padre, come se chissà cosa mai fossi in grado di combinare dentro una stanza d’ospedale.
Solo quando i miei genitori escono dalla stanza, lascio la presa di mia sorella.
– Che succede Fili?
– Beatrice? Bea, come sta?
– Come sta? Come vuoi che stia? Sta bene… non ti preoccupare per lei. Tu adesso devi stare tranquillo, non pensare a niente, ne parliamo domani, ok? Dai fammi andar via altrimenti chi la sente la caposala?
Mi dà un bacio sulla fronte e assume la stessa espressione di mia madre poco fa. Mi accorgo che una lacrima sta per uscirle dagli occhi. Sto per chiederne il motivo, ma lei mi anticipa alzandosi.
– A domani! – mi dice, e frettolosamente esce dalla stanza. Avrei voluto trattenerla e chiederle altre informazioni su Beatrice, ma questo avrebbe implicato di certo anche raccontarle della decisione di lasciarmi. Sempre se ancora non lo abbia saputo da altre fonti, magari da Beatrice stessa. Infondo loro sono molto amiche. Forse la lacrima che le stava uscendo era figlia del dispiacere che provava nei miei confronti proprio per questo. Bah! Comunque sia, meglio così, credo di non avere le forze fisiche, e men che meno morali, per affrontare anche l’argomento della nostra separazione. Ha ragione Giada, ne parleremo domani. Ora mi sento al limite, e alla stanchezza si comincia a sommare una strana sensazione per la morte di quel ragazzo. Forse rimorso? Anche se oltre a stare fermo in macchina non credo di aver fatto molto altro sinceramente. Cosa mai avrei potuto fare?
Che situazione assurda! La vita ti cambia in un attimo!
Incastrato tra lo stupore e l’angoscia, non vedo proprio l’ora di riuscire a dormire per archiviare questa giornata così pesante. Ma ho questo telefono in mano e la tentazione di sapere cosa sia successo nei giorni che ho passato privo di coscienza è troppo forte.
Lo accendo. Vibra. Mi mostra il logo della compagnia che lo ha prodotto. Lo sblocco disegnando una S sulla schermata di blocco puntinata. “Sequenza corretta” è il messaggio di seguito riportato.
Non appena nella barra indicatrice del segnale telefonico compaiono tre tacche ascendenti, il telefono comincia a riprodurre una sequenza ininterrotta di tik-tuk, il suono segnalante messaggi ricevuti, che nel silenzio della stanza risultano inopportunamente rumorosi. In preda al panico, cerco goffamente di interrompere questi rumori ripetuti non capisco nemmeno quante volte, senza alcun successo, prima che il mio coinquilino protesti:
– Insomma? Ce ne hai ancora per molto co ‘sto telefono!
Non ho la prontezza di abbassare il volume, in realtà non ricordo nemmeno come si faccia in questo momento quindi, non riuscendo a pensare una soluzione migliore, decido di di infilarlo sotto il mio cuscino. Gesto che nella mia testa dovrebbe risolvere il problema, quando in realtà ne attenua leggermente il baccano.
– Mi scusi, è solo che non lo accendo da un po’, e ora mi stanno arrivando tutti i messaggi che si sono accumulati finora.
– T’ho chiesto d’abbassà il volume, non de raccontamme tutta la vita tua eh! – mi dice con un marcato accento di Roma sud, il paziente due, che di paziente ha poco e nulla, aggiudicandosi a pieni voti il nomignolo di mr. Simpatia. Devo ammettere che Giada ci aveva visto lungo!
Prendo lentamente il telefono tra le mani che fortunatamente ha smesso di vibrare e suonare, leggermente intimorito dall’idea che un ultimo ritardatario e infame messaggio possa giungere. Fortunatamente non accade. Guardo lo schermo e la mia attenzione viene subito colpita dal pallino rosso con il numero centoventicinque nell’angolo dell’icona del programma di messaggistica.
Centoventicinque messaggi!
Non credo di aver la forza di leggerli tutti, quindi decido solo di controllare una cosa, e scrollando nell’elenco di queste dimostrazioni d’affetto digitali, non posso che demoralizzarmi dopo aver appurato come l’unico contatto che non presenta alcun messaggio ricevuto, sia l’unico che davvero mi interessava: Bea non ha scritto. Bea non mi ha scritto praticamente nulla.
tommykirke
Questo libro mi ha davvero colpito.
La storia di Filippo non è solo una storia d’amore e di dolore, è un viaggio dentro quei momenti della vita in cui tutto sembra crollarti addosso e non sai più distinguere sogno e realtà.
Si sente che è stato scritto con il cuore, senza forzature, come se l’autore avesse semplicemente lasciato che le emozioni venissero fuori da sole.
È un libro che parla di perdita, ma anche di quanto sia forte e testardo l’amore, anche quando sembra che tutto sia finito.
Non è la solita storia strappalacrime: è qualcosa di vero, che ti rimane addosso anche dopo aver chiuso l’ultima pagina.
Consiglio davvero a chiunque di leggerlo, soprattutto se sta cercando un romanzo che sappia far emozionare senza essere mai banale. BRAVO!