ANTEPRIMA NON EDITATA
Boston, mercoledì 21 luglio 2027
Era rimasta solo lei nel laboratorio. Fuori, la notte aveva inghiottito ogni traccia di vita e le luci degli uffici adiacenti erano spente ormai da ore. Lo schermo del portatile proiettava una luce fredda sul suo volto stanco, ma i dati che vi lampeggiavano non le davano alcuna soddisfazione. Un’altra giornata inconcludente.
Con un gesto di stizza, Sarah Sangiorgi chiuse il computer ed uscì imprecando tra sé. Le sue scarpe rimbombavano nel corridoio deserto, un’eco che sembrava accusarla di tutti quei tentativi falliti. Non era la prima volta che la neuroscienziata lavorava fino a quell’ora. Da quando aveva iniziato quel progetto al MIT, il Massachusetts Institute of Technology, quasi quindici anni prima, per poi continuarlo alla NISIEx, le notti insonni erano diventate routine. Ma nelle ultime settimane ogni sera pesava di più.
La NISIEx, acronimo di Neural Investigation Studies for Improved EXistence, era un’azienda privata finanziata da una combinazione ipocrita di facoltosi benefattori e fondi comuni di investimento. Per Sarah erano le due facce di una stessa medaglia, entrambe interessate più al profitto che alla scienza. Ma per il momento accettava il compromesso. Quella facciata di filantropia mascherava le reali intenzioni commerciali, ma almeno finanziava la sua ricerca. E quella ricerca poteva cambiare il mondo.
Il progetto aveva un obiettivo ambizioso, quasi utopistico: permettere a due persone di comunicare tra loro condividendo lo stesso sogno. Un’idea che, per quanto potesse sembrare futile a uno sguardo superficiale, celava implicazioni rivoluzionarie. Avrebbe aperto una finestra su nuovi modi di comprendere ed interagire con il cervello umano e, forse, persino di curare malattie neurologiche devastanti. Come l’Alzheimer precoce, quello che si era portato via la madre due anni prima, dopo anni di sofferenza e travaglio.
Per Sarah quello non era solo un lavoro, era una battaglia personale. Lei e il suo team avevano raggiunto traguardi impensabili, superato ostacoli che all’inizio sembravano invalicabili. Ma ora erano bloccati. Da mesi. Era come se l’ultimo tassello, quel piccolo ma cruciale dettaglio si rifiutasse di rivelarsi.
In teoria l’esperimento era semplice. Consisteva nel cercare di far dialogare due soggetti durante il sonno, inducendoli a condividere lo stesso sogno. Per questo venivano collegati a una macchina progettata per sincronizzare le loro onde cerebrali, un dispositivo capace di tradurre i loro segnali neuronali in un linguaggio comune e a metterli in comunicazione tra loro. Ma c’era qualcosa che le sfuggiva, qualcosa che si nascondeva dietro un velo di mistero, un tassello mancante che Sarah non riusciva a vedere.
Erano arrivati a far sì che i soggetti riuscissero a scambiarsi qualche parola, ma nulla più. Di sogno in comune non ce n’era stato neanche l’ombra. Ognuno dei soggetti sognava per conto proprio, ma le parole scambiate risuonavano chiaramente all’interno del sogno. Così riferivano una volta svegli. Per Sarah era come essere arrivati al traguardo ma non riuscire a fare l’ultimo passo. Perché le singole parole riuscivano ad essere trasmesse e non si riusciva a condividere il sogno? Se passavano le parole, significava che le onde celebrali venivano sincronizzate e condivise. Ma forse questa sincronizzazione non era stabile e questo impediva un vero e proprio dialogo tra i due cervelli.
Uscita dall’edificio, Sarah si impose di non pensarci almeno per qualche ora. Respirò a fondo, lasciandosi avvolgere dal profumo fresco dell’aria estiva dell’area di Boston. Per un istante, tra le fragranze della notte le parve di cogliere una lieve nota salmastra. l’eco non così distante dell’oceano. L’edificio in vetro e acciaio della NISIEx si trovava nel Seaport District, una zona fulcro di aziende tecnologiche e centri di ricerca.
Sarah odiava girare in auto. Negli ultimi anni Boston era diventata troppo caotica per il suo carattere e la scarsa pazienza, come ammetteva lei stessa. Quindi preferiva recarsi al lavoro in bici, ad ogni ora e in ogni condizione climatica. Casa sua si trovava nel caratteristico quartiere multietnico di Jamaica Plain a poco più di mezzora dalla NISIEx. Lei amava quella zona perché era immersa nel verde e la riteneva rilassante.
Aveva un bilocale di proprietà al piano terra di un vecchio edificio vittoriano suddiviso in appartamenti. Lo stabile era un po’ trascurato, con una facciata in legno scrostato e un piccolo portico con piante che avrebbero avuto bisogno di più cure, ma a lei piaceva. L’interno dell’appartamento era stato arredato in modo semplice ed essenziale ed era composto da un soggiorno non troppo angusto con una piccola cucina a vista, una camera da letto minimale e un bagno grande quasi come la camera stessa. L’arredamento era composto da un’accozzaglia di mobili di stili diversi, arrabattati qua e là. Una scrivania con pile di libri e documenti di lavoro accatastati, tradivano il suo disordine emotivo. E lei lo sapeva. La stanza più curata era il bagno, dove amava passare le ore. Da sempre la trovava quella più rilassante. Appena poteva si immergeva nella grande vasca con l’acqua arricchita di profumati sali minerali e lì ascoltava musica, leggeva o lavorava con il computer portatile appoggiato sul bordo.
Quella volta arrivò a casa che erano passate le due di notte. Come faceva sempre, legò la bici nell’apposita griglia del cortile in comune, un altro punto di riferimento. Era condiviso con gli altri inquilini, che lei considerava come di famiglia, forse perché così era stata abituata dai genitori nel piccolo paese di origine. Almeno una volta alla settimana trascorreva un paio d’ore a chiacchierare nel cortile con loro, sorseggiando un calice di vino. Di solito erano i momenti più piacevoli della settimana. Bagni nella vasca a parte.
Ad aspettarla trovò Inutile, un gatto di nessuna razza particolare, dal pelo grigio, che aveva ereditato da un vicino deceduto l’anno prima. In realtà erano stati gli altri condomini a convincerla a prenderlo con sé, visto che era l’unica single del palazzo. Quello non era il suo nome originale. Il vecchio proprietario lo chiamava Ernest, ma per lei suonava meglio Inutile e questo era un sottile messaggio agli altri, per far capire con che spirito aveva lo accettato. Per sua fortuna, il gatto passava parte della giornata all’esterno, coccolato da tutto il quartiere. Attraverso la gattaiola che aveva fatto installare malvolentieri, Inutile rientrava in casa solo la sera per mangiare e dormire in un posto confortevole: il tappeto ai piedi del suo letto.
Dopo avergli dato il cibo, Sarah si fece una doccia veloce e si buttò a letto, sprofondando in un sonno senza sogni.
***
La mattina dopo Sarah fu svegliata da una telefonata di David Barker, il suo collega di sempre. Si erano conosciuti durante la laurea in Ingegneria Biomedica al MIT e, dopo essersi separati per seguire master in neurologia in diverse parti del mondo, si erano ritrovati a lavorare insieme come ricercatori nella loro vecchia università. Da lì erano stati poi chiamati dalla NISIEx per portare avanti il progetto di Sarah.
“Ti sembra l’ora di svegliare il tuo capo?” Chiese lei con voce assonnata.
“Senti, capo!” Ribatté lui ridacchiando. “Il tuo sottoposto ti sta disturbando perché è quasi ora di pranzo e fra un’ora abbiamo la riunione con il Consiglio di Amministrazione.”
Sarah scattò dal letto come una molla. Il suo viso era segnato dalla stanchezza e dai segni di una notte con un riposo troppo breve. I capelli scuri e un po’ spettinati cadevano sui suoi occhi castani, mentre cercava di prendere fiato prima di mettersi in moto per la giornata che si prospettava lunga e impegnativa.
“Dimmi che mi stai prendendo in giro.” Sapeva già che non era così.
“Mi dici a che ora sei uscita dal laboratorio ieri sera?”
Lei continuò a parlare al cellulare mentre si sciacquava il viso, per poi andare a mettere sul fornello la moka per il caffè. “Posso solo dirti che non era sera.”
“Hai fatto le ore piccole di nuovo.” Il tono di David era rassegnato.
“Ascolta, hai preparato il report che avevamo concordato? Cosa gli raccontiamo oggi? È già la terza riunione di seguito che diciamo sempre le stesse cose.”
Il timore di Sarah era che tagliassero i fondi e chiudessero il progetto.
“Lo so,” David sospirò nella cornetta “ma anche loro devono capire che la scienza funziona così. A volte passano anni senza risultati per poi arrivare a svolte improvvise che ti…”
“Tutte cazzate! E lo sai. Dicono di essere un ente benefico, ma se questi non vedono risultati ci spediscono a casa con un calcio nel didietro.”
Tornò in camera a vestirsi in attesa del caffè.
“Potremmo… so che è rischioso, ma…” David fece dei rumori come se avesse spostato il telefono sull’altro orecchio.
“Continua dottor Baker, tanto abbiamo ben poco da perdere.” Sarah mise il vivavoce e lanciò il telefono sul letto per infilarsi i pantaloni.
“Beh, potremmo dargli una scadenza precisa noi per primi. Così dimostriamo di essere convinti di ciò che stiamo facendo.”
“Noi siamo convinti, il problema sono solo i tempi.” Sarah era titubante. Dare una scadenza che forse non avrebbero rispettato, visto come erano andate le ultime settimane, significava suicidarsi dal punto di vista professionale.
“Lo so, ma…” David sospirò di nuovo.
Per lei il quadro era chiaro. Dovevano rischiare per evitare che il progetto venisse chiuso subito.
“Lo so cosa intendi. E hai ragione. Proponiamogli due mesi di tempo. O la va o la spacca!” Concluse Sarah in italiano.
“Non ho capito l’ultima frase, ma sono d’accordo.” Dal tono di David si percepiva il suo sorriso.
Sarah scoppiò a ridere e salutò il collega.
Quella mattina si sarebbe giocata il futuro del suo progetto in una riunione che non sarebbe durata neanche mezzora. Anni di lavoro giocati in pochi minuti. O la va o la spacca. Tutto o niente. Non c’era spazio per il dubbio, solo per il rischio. Era un gioco di forza, un salto nel buio. E in quel momento, con la sua carriera e il futuro del progetto in bilico, sentiva che quella frase non aveva mai avuto così tanto senso.
***
Le cose non andarono come previsto. La riunione durò ben più di una trentina di minuti. Insieme a David e i loro due assistenti stavano parlando con il Consiglio di Amministrazione della NISIEx da quasi quattro ore.
Sarah osservava i consiglieri mentre, ancora una volta, esponevano le loro speranze sul progetto. Alla sua destra, David stava immobile, la sua corporatura robusta che riempiva completamente la sedia ergonomica della sala riunioni. I capelli rossicci, eredità delle sue origini irlandesi, erano l’unica macchia di colore in quella stanza grigia e formale.
Come in ogni riunione precedente sentì i consiglieri parlare del “mercato dei sogni su commissione”. Era fastidioso vedere come riducessero tutto a numeri. Quanto avrebbero pagato le persone per sognare ciò che desideravano, vivere un’avventura proibita, incontrare un caro scomparso o rivivere più volte una bella esperienza. Le loro ambizioni commerciali erano sempre state in netto contrasto con i suoi obiettivi scientifici e umanitari. Sapeva che per loro sospendere il progetto significava rinunciare a una potenziale miniera d’oro. Ma non potevano nemmeno continuare a finanziare un lavoro senza risultati concreti. Li osservò mentre analizzavano in modo minuzioso ogni dettaglio di ciò che avevano fatto finora, cercando la minima possibilità di successo futuro.
Alla fine, però, vide nei loro volti la rassegnazione. Erano arrivati a un punto morto. La loro presentazione era stata fin troppo chiara: continuare il progetto non garantiva il successo. Fu allora che decise di giocarsi la carta dei due mesi. Il consiglio si riunì a porte chiuse e, dopo quella che le sembrò un’eternità, accettò la sua proposta.
Lei non sapeva se prenderla come una buona o una cattiva notizia.
“È una buona notizia.” Rimarcò David mentre percorrevano i corridoi della NISIEx per tornare al loro laboratorio.
“Il dottor Baker ha ragione, dottoressa Sangiorgi.” Malia era la responsabile medica del team, minuta ed energica, i lineamenti del Pacifico che si accendevano con facilità di passione o rabbia, il camice sempre stirato alla perfezione. Era una dei due assistenti presenti all’incontro insieme al collega Kemal, l’informatico dalla pelle scura che parlava poco ma lavorava con una precisione maniacale, la sua barba perennemente incolta in contrasto con la meticolosità del suo lavoro. “Da come si erano messe le cose sembrava volessero spedirci subito tutti a casa.”
Sarah non rispose subito. Continuava a camminare con il volto contratto, la mente già impegnata a rielaborare la riunione, cercando qualche spiraglio che le fosse sfuggito. Alla fine si fermò.
“D’accordo, consideriamola una buona notizia.” Ammise quasi malvolentieri ed estrasse il cellulare per guardare l’ora. “Ok, la giornata ormai è finita. Voglio che adesso andiate a casa a godervi la serata. Rilassatevi, riposatevi. Da domani si cambia metodo. Voglio rivedere ogni singolo passaggio nel dettaglio. E per ogni punto proviamo a cercare soluzioni alternative. Non lasceremo nulla di intentato.”
I suoi colleghi annuirono convinti ma lei non riusciva a ritenersi soddisfatta. E andare a casa un po’ prima del solito a recuperare le energie era una buona idea. Forse soprattutto per lei.
Si salutarono e si diedero appuntamento al giorno successivo.
Prese la bici e si avviò verso casa.
Quando arrivò in prossimità del portone d’ingresso, una strana e improvvisa sensazione le attraversò il corpo, un’ombra familiare che aveva già provato altre volte, ma mai così forte. Era un pensiero sottile, come un filo di fumo, che in un istante si trasformò in un vortice.
Due mesi. Due mesi per salvare quindici anni di lavoro.
E se non ci riuscissi?
Se non ci riuscissi?
Se non ci riuscissi!
L’idea si insinuò con la rapidità di un veleno e presto si allargò fino a sommergerla. Il cuore cominciò a batterle all’impazzata. Si affrettò a legare la bici a ad entrare in casa. Inutile la accolse con un’occhiata distratta, tornando subito a dormire sul tappeto. Lei si accasciò sul divano, lasciando scivolare la borsa per terra. Non accese la luce. Provò a respirare profondamente, ma l’aria non sembrava essere sufficiente. I respiri divennero rapidi e affannati, corti e irregolari e sentì l’adrenalina diffondersi come un incendio. I muscoli si contrassero in una morsa dolorosa, il cuore sembrava volerle sfondare il petto. Si piegò in avanti, stringendo i pugni contro la fronte nel tentativo disperato di contenere l’onda di panico. Le unghie affondarono nei palmi delle mani, lasciando piccoli solchi che bruciavano e le nocche diventarono bianche per la tensione.
Merda, no. Per favore, no.
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